Numero 61 – Maggio/Giugno 2020

La giusta misura

di Elisa Pastore

Quando ero piccola mia madre ogni mese mi chiamava per misurarmi l’altezza. Arrotolato in un rocchetto teneva il suo metro da sarta, che con gesto rapido del polso, tenendo l’estremità tra il pollice e l’indice, srotolava per intero. La lunghezza totale era di 150 centimetri ed era il limite che io dovevo superare.

«Unisci i piedi e guarda avanti a te», mi diceva ogni volta mentre stavo spalle al muro con le braccia lungo i fianchi come davanti a un plotone di esecuzione. Avrei potuto chiederle tante cose in quei minuti di preparazione. Mia madre e io non avevamo un rapporto frontale, piuttosto laterale o anteroposteriore, e in quelle posizioni era più difficile interrogarla. Ma durante tutte le misurazioni non le chiesi mai nulla. Facevo le linguacce o le facce buffe per farla ridere, e già all’epoca mi sembrava una cosa importante.

Poi mi poggiava sulla testa un romanzo, uno di quelli russi, con la copertina rigida e il peso di molte centinaia di pagine. Li usava come una livella a bolla.

«Adesso spostati», mi diceva spingendo con forza il libro verso la parete. Poi con la matita tracciava una linea leggera sotto la quarta di copertina.
«Sei uguale al mese scorso, possibile che non sei cresciuta?», si chiedeva preoccupata. «Riproviamo, ché non si sa mai che abbiamo sbagliato, e non fare quelle facce tu, ché sennò muovi la testa e poi la misurazione non viene bene».

Allora io rimanevo seria e la guardavo, mentre lei era intenta ad arrotolare il metro e riponeva il libro per terra.

Voleva che io la superassi. I suoi 155 centimetri, che per lei erano sempre stati vergognosi, per me sarebbero stati un affronto. «Altezza mezza bellezza», mi ripeteva. Ma io non l’ho mai vista così bassa come diceva di essere lei, né così diversa dalle altre mamme. Per me era bella così, solo un po’ troppo preoccupata.

«Ecco, hai visto che sei cresciuta? Lo dicevo io che non poteva essere. Un centimetro esatto esatto, 149 misuri. Brava!».

Tolstoj e Dostoevskij li prendeva solo per mettermeli sulla testa, mentre quando si trattava di leggere ad alta voce mia madre sceglieva Charles Dickens.
Non scoprì mai che baravo. Sollevavo i talloni senza mettermi sulle punte. E ogni volta le davo un centimetro di soddisfazione. Tanto ognuno vede quello che vuole vedere.
Smise di misurarmi quando raggiunsi i 160 centimetri. Ero uscita dalla decina infame, quella del cinquanta. E per mia madre da lì in poi l’altezza era accettabile, poteva essere la giusta misura per una donna del Sud.
Mi mancarono quelle chiamate davanti al muro. Erano gli unici momenti in cui mi guardava in maniera oggettiva, senza lo sguardo materno, protettivo e giudicante, correttivo e amorevole. Mi guardava come guardava le piante del giardino: «Come è cresciuto il melograno questo anno!».
Era il risultato delle sue cure, dei travasi al momento giusto, della terra buona. Che gli alberi crescessero da soli era una grande truffa, così come il fatto che anche i bambini alla fine crescono da soli.

Le addizioni mi sono sempre piaciute. Sarà che sono state le prime formule matematiche che ho imparato, quelle che mi hanno aiutato a semplificare le cose, a trasformare la realtà in addendi. E a inventare brevi formule per la felicità.

Valeria Parrella + Vinicio Capossela = felicità

Luna + cuore = Teresa

L’avevo scritto sul quaderno, per ricordarmi delle cose belle che ho e che tuttavia sono schiacciate sotto il peso dell’incertezza, dei maledetti soldi che mancano e dello scirocco che mi appiccica le cosce sulla sedia.
A fianco avevo appuntato i turni del mese di giugno e il potenziale guadagno mensile. Undici euro e cinquanta all’ora vengo pagata. Tutto a nero. Di notte costo lo stesso ma il turno è di dodici ore anziché di otto e quindi guadagno di più. I festivi, invece, li pagano quindici all’ora. Mi divido tra la clinica San Francesco e l’ambulatorio di Rebecca. Lei mi chiama per le sostituzioni, che però da quando è nato Lorenzo si sono fatte più regolari. Il sabato è diventato fisso e poi, qualche volta, ci vado di mattina se il piccolo si è ammalato e al nido non lo può portare. Sempre se anche Teresa non è a casa con l’influenza. Ormai mi sono abituata, faccio la somma delle ore e riesco a tirare su una cifra, che nonostante sia fatta da troppi addendi sparpagliati, mi sembra l’unica possibile che si avvicini alla felicità. O forse mi sono così abituata che mi sembra normale.
Quando Rebecca mi ha telefonato avevo appena tolto il termometro dall’ascella di Teresa.

«Ha 38 e mezzo», le ho detto, «mi dispiace ma non posso venire».
«Anche Lorenzo ha la febbre, venite da noi, dai! Che i virus si combattono in buona compagnia».

È così Rebecca, nelle situazioni di emergenza dà il meglio di sé. E lo dà con serenità, ci prova. Io, invece, mi danno, convinta che debba fare sempre di più per riuscire a far girare bene le cose. E ho la sensazione che quel qualcosa che faccio sia sempre sbagliato.

«Evviva, Lollo!», ha esultato Teresa quando ha saputo il programma della giornata.
«Tu lavoro, mamma?».
«No, tesoro mio, stamattina la mamma non lavora, sta con Teresa».
«Evviva!», mi ha abbracciata forte e fatto due salti a piedi uniti, nonostante l’afa e la febbre.

In quei garage illuminati a neon è facile prendersi i virus anche in piena estate. Che non so come è che la gente li chiama asili nido. Neanche le finestre hanno, ma hanno lo scivolo di plastica e le sedioline e le famiglie sono contente di poterli lasciare lì.
Alla fine l’ho iscritta al comunale dove Rebecca manda suo figlio, almeno ha delle finestre e una mensa. E, visto l’ISEE da lavoratrice in nero, ci hanno prese, nonostante non siamo residenti in città. Così stamattina facciamo la stessa strada che faccio tutti i giorni per andare al nido, solo che al semaforo, anziché girare a destra, proseguo dritta e poi giro a sinistra in via Puccini, dove al civico 5 Rebecca ha l’ambulatorio e al 7 la casa.
Penso che non potrei mai vivere a fianco a dove lavoro. È quello spazio fisico che separa la casa dalla professione che mi dà un’identità diversa. E, d’altronde, faccio la pendolare precaria tra due strutture che distano da casa mezz’ora di auto.
Parte la pizzica. Lollo e Terri sembrano pizzicati dalla tarantola. Pure Rebecca ed io balliamo il ritmo terzinato.

Oh Santu Paulu meu de Galatina, ca pizzichi le fimmine, ca pizzichi le femmine, ca pizzichi le fimmine a menzu l’anche.

Arrivo al finale del brano con il fiatone e mi rendo conto che, nonostante abbia smesso di fumare, il mio sistema cardio circolatorio è ancora affaticato. Dovrei ricominciare a correre, ma dove lo trovo il tempo per lo sport? Menomale che c’è il mare, mi illudo, sperando di concedermi delle lunghe nuotate quest’estate.
Il citofono suona. «È la signora Gioffreda con Milly. È stata in clinica il mese scorso per l’inseminazione artificiale e oggi aveva l’appuntamento per l’ecografia».

«Vuoi che ci vada io?», le chiedo.
«Ti invito da me e poi ti faccio lavorare? Ma per chi mi hai presa?.

Le sorrido imbarazzata. «Piuttosto se non ti dispiace mi assento un attimo, il tempo di fare l’eco alla gatta», aggiunge toccandomi il braccio con affetto.

«Sì, certo, vai pure. Io metto su l’acqua per la pasta».
«Fa come se fossi a casa tua, grazie!».

Invece che rispondere «di che?», accologo quella gentilezza, alla quale mi devo riabituare.

«Acoia, acoia!»,cChiedono i due pizzicati dall’altra stanza. Faccio ripartire la canzone e io mi metto a cucinare.

Le orecchiette al sugo i piccinni se le mangiano anche con 40 di febbre, diceva la nonna. Allora tiro su un sugo di pomodoro. Rebecca in dispensa ha la passata Sfruttazero, quella che fanno Rosa, Mussa e gli altri ragazzi di Nardò per contrastare il caporalato e lo sfruttamento dei migranti nei campi agricoli. Ché quei poveri cristi prendono tre euro all’ora, quando non muoiono sotto il sole. Gliel’avevo regalata per Natale, lei neanche ne conosceva l’esistenza e dice che da quando l’ha scoperta compra solo quella, dice che è stato il più bel regalo che avesse ricevuto negli ultimi anni. È così Rebecca, esagera sempre un po’.
Quando rientra in casa c’è odore di basilico cotto.

«Allora?», le faccio io, «è rimasta incinta la gatta?».
«Sì, di tre gattini, ma non mi sembra tanto contenta».
«Chi? La signora Gioffreda? E perchè?».
«No, mi riferisco alla gatta. Se dopo il parto dovesse ucciderli, non mi stupirei».
«D’altra parte quella gatta non si è mai voluta accoppiare. Un motivo ce l’avrà».

Butto giù le orecchiette e il tempo della cottura è quello che ci serve per lavarci le mani, mettere il bavaglino a Teresa e Lorenzo e stappare il primitivo.

Quando siamo in macchina, Teresa mi chiede di passare a vedere la gru. Ha gli occhi stanchi e tra pochi minuti si addormenterà. Passiamo dal cantiere, la sua gioia nel vedere la gru mi fa sopportare la visione di quello spettacolo. Gli ulivi ingrigiti sono stesi sul dorso della terra, con le radici avvizzite esposte al sole dopo secoli in cui erano state sotto terra. Ci faranno una piscina. Per imparare a nuotare come fa chi il mare non ce l’ha. Come se sostituire un uliveto con una piscina ci servisse per vivere meglio. Ce li tolgono davanti agli occhi gli ulivi malati così la xylella non si diffonde, dicono loro, e il cloro ci disinfetta le ferite. Se fossi una turista rimarrei delusa e mi lamenterei, ma vivo qui tutto l’anno, da quando sono nata, e non ho tempo per vane illusioni. Con l’Ilva e Cerano non ci si aspetta molto dalla vita, al massimo si spera in una grazia da chiedere al Santo.

oh Santu Paulu meu de Galatina, fanne na grazia na, fanne na grazia na, fanne na grazia a ‘sta signurina.

Imbocco la tangenziale, oltre il guardrail c’è lo Jonio e l’isola di Sant’Andrea. Teresa già dorme e resto sola a guardare lo spazio intorno a noi. Sento che di tanta bellezza mi potrebbe scoppiare il cuore.

Mare + Teresa= infinito, penso. Ma forse questa volta a semplificare la realtà sono i 12 gradi del primitivo.

La differenza tra me e Nadia è di 4 euro. Lei respira la polvere, maneggia candeggina e pulivetro e ha la mente leggera e spensierata. Io, invece, respiro isofluorano, maneggio tanax e rubrocillina e ricevo radiazioni sotto il peso insostenibile del camice piombato.

«La veterinaria», rispondevo a chi mi chiedeva cosa volessi fare da grande. Ma a volte mi sembra di aver dimenticato il perché di quella vocazione. Adesso risponderei che mi piacerebbe fare la sarta, come mia madre: prendere le giuste misure, tagliare, cucire e fare i cartamodelli.

Il turno di notte è stato abbastanza tranquillo. Dalla mezza fino alle 3 ho dormito. Poi mi hanno svegliata. Un tizio in pigiama è arrivato con la sua pinscherina, non riusciva a dormire perchè la cagna si grattava la pancia con insistenza facendo vibrare il letto. Non aveva nulla ma non è stato facile fargli capire che la causa dell’insonnia era da cercare altrove. Poi, subito dopo, è arrivata una gatta con stimolazione del parasimpatico. Ho guardato i due ragazzi che la tenevano in braccio e ho tentato di intuire la possibile diagnosi.

«In casa avete delle piante di marijuana?», gli ho chiesto.

Si sono presi del tempo prima di confermarmi che la gatta aveva masticato delle foglie. L’avranno capito da come li guardavo che non li avrei nè denunciati nè giudicati. La gatta tricolore si è ripresa dopo qualche ora di fluidoterapia. Intanto a me è venuta una voglia di erba che appena posso me la vado a procurare. Cosimo di certo si è piantata la sua pure quest’anno, quando esco di qui lo chiamo.

Dovevo smontare alle 8, ma avevo chiesto a Caterina di anticipare il suo arrivo di mezz’ora, così per quando Teresa si sveglia sono a casa. Devo prendere caffè + pasticciotto, ma non ho le energie per trovare il risultato della somma. Il barista è nuovo e molto carino. Rimango in piedi al bancone, anche se il caffè si dovrebbe bere sempre seduti, ma se mi siedo non mi rialzo più e magari mi innamoro pure. Meglio guardare fuori, intorno alla villa tra l’altro si è formato un capannello di persone. Arrivano i vigili e la polizia con le sirene spiegate. Il bar si svuota e anche il mio futuro fidanzato abbandona la consolle di arabica ed esce passandomi vicino. Gli guardo il culo legato sotto il grembiule e gli sorrido – al culo. Poi la vedo, la testa spunta fuori dai grandi oleandri della villa comunale. Sono lontana da lei ma riconosco lo sguardo impaurito degli animali. La tazzina mi cade di mano, e vado fuori anche io. Sento di dover fare qualcosa, è come se me lo stesse chiedendo, ma non saprei che fare per quella giraffa. Non so nulla delle giraffe. Fuori tutti hanno gli smartphone all’aria come durante i concerti.

«Si n’è fusciuta de lu circu», mormora la gente.

Vorrei fare il tifo per lei, ma so che non può fuggire da nessuna parte.
Il momento peggiore per un fuggitivo è quando scopre che non c’è nessun altrove.
Non è un mondo adatto a una giraffa. Gli uomini sono attratti dall’esotico solo se sta dietro ad una sbarra. Il barista mi guarda. Penso che è una fortuna che lui sia nuovo, perchè se ci fosse stato Luca avrebbe già urlato a tutti: «Qui c’è una veterinaria! Fatela passare!». Penso che forse dovrei farmi avanti almeno per placare la tensione che cresce.
La giraffa inizia a correre. Da dove sono vedo solo il lungo collo che oscilla in avanti e si muove veloce nell’aria. Penso alla faccia di Teresa se fosse qui.
Il crocchio si rompe e la gente scappa via nel verso opposto a quello della giraffa.

«Sembra impazzita», dice il barista.

«È impaurita», gli rispondo senza guardarlo. «La libertà può fare paura».
Quando entro nella villa la giraffa giace per terra. Gli occhi semichiusi con lo sguardo immobile. È bellissima, ma questa volta non ho il tempo di innamorarmi perché quando mi avvicino ha già smesso di respirare. La cerbottana era stata caricata di troppo butorfanolo e in quello stato adrenalinico il suo cuore non ha resistito.
Così muore una giraffa: come una foglia che cade dal ramo, tuttavia più rumorosa. Penso che nessuno dovrebbe morire mentre fugge.

«Chiamate un veterinario, presto!», urla un tipo con la camicia rossa, deve essere del circo.

Quanti metri avrebbe dovuto unire mia madre per misurare la giraffa? Forse aveva ragione a dire che l’altezza è mezza bellezza, ma non si può misurare la bellezza. Credo che su questo si sbagliasse.

Non ho neppure preso un cornetto per Teresa e mia madre. Glielo porto sempre dopo il turno di notte. Ma a quest’ora avranno già fatto colazione e mia madre si sarà messa pure a cucinare. Quando entro Teresa mi viene incontro di corsa e mi si butta al collo. E sto bene in quell’abbraccio che mi cancella i pensieri.

«Hai fatto tardi, che è successo?», mi chiede mia madre.
«Una giraffa è scappata dal circo e girava libera per la villa di Lecce».
«Ma davvero?».
«Sì, ne parleranno di sicuro al tg. Le hai misurato la febbre?».
«Sì, non ne ha».

Decido che si va al mare. Fuori ci sono 35 gradi e io so che ormai non prenderei più sonno.

«Ma credevo volessi andare a riposarti un pochino, di là in camera ti ho acceso il condizionatore», mi dice mia madre.
«Dormirò sotto l’ombrellone, vuoi venire anche tu?».
«No, io questo caldo non lo sopporto, mi sfianca».

Fa sempre così mia madre. Propone le sue alternative aspettandosi che io le condivida. Anche sulla storia della casa, l’altro giorno mi ha proposto di andare a vivere con lei «così risparmi l’affitto e puoi rinunciare ai turni di notte». Lo so che si aspetta un cambiamento da me, che reputa la mia vita un casino e che vorrebbe che la mettessi a posto. Io non so bene da dove iniziare, ma so che a trentasei anni non vado a convivere con mia madre.
Attraversiamo la pineta di Lido Pizzo e le cicale cantano rumorose nonostante i sacchetti di plastica e le bottiglie di vetro inermi tra gli aghi e le pigne.

No cantu ca me vene de lu core, cantu ca tegnu na, cantu ca tegnu na, cantu ca tegnu na malinconia.

Vorrei chiamare Cosimo, ma penso a Marco e decido di chiamare lui. Mi potrei innamorare di Marco lo so, o forse lo sono già innamotata, perché spesso mi ritrovo a pensarlo con lo stesso sentimento di come quando sogno di partire. Ma se non ho il tempo nemmeno per farmi la ceretta dove lo trovo il tempo per una storia?
Non posso chiedere a mia madre di stare con Teresa perché forse con Marco, se stessimo soli, faremmo l’amore. Ché lei ne sarebbe pure contenta, ma io proprio non riesco a chiederglielo.

«Devi farti la baby sitter», mi ha detto Caterina. Non avevo voglia di spiegarle che i soldi pure per la baby sitter non ce li ho e le ho detto che sì, la cercherò, così lei mi ha detto il nome di un sito internet. Lei ha un sito per ogni cosa. Pure il lavoro l’ha trovato così. Ha anche il culo sodo, la permanente ai capelli e un accento del nord che ha acquisito nei suoi quattro anni di permanenza a Milano.

«Telepatia! Ti stavo per chiamare», mi dice Marco al telefono. «Che turni fai venerdì, sto facendo il polpo alla pignata, venite?».

Chissà se per venerdì riesco a depilarmi, penso mentre quell’invito è l’unica cosa che mi distrarrà per l’intera giornata dall’immagine della giraffa stesa sui basoli della villa.
Gli dico che ci saremo e penso che ogni tanto qualche aspettativa me la posso concedere.

«Ehi, ma l’hai sentita la storia della giraffa? Sono dei bastardi», mi dice Rebecca al turno del giovedì mattina.

Non capirebbe che non c’era nulla che potessi fare. Lei si sarebbe lanciata nella folla e avrebbe urlato a tutti che era una veterinaria e che ci avrebbe pensato lei. Allora baro, come facevo con mia madre, alzo i talloni senza mettermi sulle punte e le racconto una mezza verità. Ma che cosa potevo fare?
Sterilizziamo una gattina di sette mesi e un cane di dodici anni che ha l’iperplasia prostatica benigna.
Poi Rebecca va a fare delle commissioni e io resto in ambulatorio. Vado su quel sito che mi aveva detto Caterina. Non quello delle baby sitter ma quello delle offerte di lavoro. Ogni tanto ci vado come chi ogni tanto compra un gratta e vinci, non si sa mai. E nello scorrere gli annunci provo la stessa ebrezza del giocatore quando gratta i simboli nell’area di gioco. Correggo il curriculum e lo invio a quelli che offrono turni diurni con contratti a tempo indeterminato.

Oh Santu Paulu meu de Galatina, facitime na grazia, facitime na grazia, facitime na grazia a mmie la prima!

Ieri sera ci siamo trasferite nella nuova casa. L’ingresso è pieno di scatoloni e buste di cartone. I vestiti di Teresa li ho messi tutti in valigia così, finché non compriamo una cassettiera, possono restare lì. Ormai si veste da sola e la valigia le dà parecchio gusto. È stato normale stare qui, come se questa fosse stata da sempre la nostra casa e non un nuovo arrivo al quale dover brindare. Tuttavia Marco ha aperto un Rioja bianco e abbiamo brindato. La señora Sara si è commossa quando siamo andati via dalla sua pensione, si è abbracciata Terressina, come dice lei, e poi quando le ho detto che stavamo solo cambiando quartiere e che appena ci saremmo sistemate l’avremmo invitata a cena da noi, ha detto «vale, vale», e si è ricomposta l’espressione del viso. Per qualche giorno ho creduto che rimanessimo a vivere lì, con la señora Sara che continuava a chiamarci los italianos, nonostante conoscesse i nostri nomi. Continuavo a dire a Marco che non saremmo mai riuscite a trovare casa, Barcellona è un delirio, è come tutto il Salento compresso in unica città e cercare una casa non è stato facile. Marco, nonostante il mio sconforto, ha continuato a telefonare alle inserzioni fino a che non siamo arrivati in calle Argumosa. Dice che è felice per noi, «hai trovato quello che desideravi, vedrai che qui starete bene». La stessa cosa che mi ha detto mia madre. Io non lo so più se era questo che volevo. Ormai mi ero abituata a non desiderare altro, a vivere felice in quello che non volevo, a non aspettarmi niente di più. Ma quando mi hanno proposto un contratto a tempo indeterminato, senza notturni e con un accredito mensile fatto da un’unica cifra non ho saputo dire di no. Non avrò più addendi sparpagliati da raccogliere qua e là, e credo che mi potrò permettere anche la baby sitter. Ma tanto Marco non c’è, domani torna a Lecce. L’altra notte, quando eravamo nudi uno di fronte all’altro, avrei potuto dirgli tante cose, chiedergli di venire a vivere con noi, per esempio. Ma alla fine non gli ho detto niente. Dice che gli mancheremo e che ci verrà spesso a trovare.

«Le cozze non sono male qui, sai. La prossima volta che vengo facciamo un’impepata», mi ha detto serio. Marco è bellissimo.

Menomale che c’è il mare, ho pensato io, ché così ogni tanto me lo vado a guardare per scrivere una nuova formula della felicità.

Beddha ci a mare vai a mare vegnu, ca ci visciu ca te mini, ca ci visciu ca te mini, ci visciu ca te mini ieu me ne tornu.



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