Numero 61 – Maggio/Giugno 2020

In altre parole di Eva Luna Mascolino

Istantanee (Marcel Schwob)

Ci sono, in rue de la Roquette, due siepi di luci e, sotto, due strisce di luce perse nella nebbia, doppia illuminazione per una salita sanguinosa. La nebbia rossa si aggrappa ai lampioni e si diffonde in un alone. Un piazzale si apre in mezzo agli uomini, delimitato dalle figure nere dei sergenti della città; più lontano dagli alberi magri, una porta illuminata in modo sinistro, dove si scorge un arco; sullo sfondo, finestre velate di vapore, con candele accese – e ancora gente, che si precipita in avanti sotto il calpestio dei cavalli. Davanti alla porta un lampione a gas, in fondo al piazzale, vicino a cavalieri smontati, alla testa dei loro cavalli, avvolti nei cappotti; e la fiamma illumina vagamente quelli che sembrano essere due pilastri rotondi di rame rosso, sormontati da una sfera luminosa, con sotto una pallida macchia.
Quest’ultima si trova in un rettangolo di barriere su cui si appoggiano delle file di uomini; e, vicino al macchinario, si agitano delle ombre. Due strani furgoni, trafitti da spioncini e finestre quadrate, l’uno di fronte all’altro di traverso; l’uno ha portato la lama, l’altro porterà l’uomo. Poi le braccia alzate, i punti rossi dei sigari, colletti di pelliccia sparsi qua e là. Il tutto immerso in una notte umida.
Gradualmente si diffonde una luce grigia che cade dal cielo, disegna una linea di creste sui tetti, delle figure pallide sulle persone, taglia le barriere, toglie i gendarmi incollati ai loro cavalli come ombre, mescola il rilievo dei furgoni, scava le rientranze porte, fa con i pilastri di rame ampie scanalature, con la macchia pallida uno strumento triangolare lucido, ricoperto da un blocco scuro cucito con tre punte bianche, con la sfera lucida una puleggia da cui cade una corda, crea intorno a lei dei montanti sanguinolenti, mostra vicino al suolo una tavola obliqua e due mezzelune separate. I gendarmi montano a cavallo. I sergenti della città si stringono gli uni agli altri. Si vedono vagare in giro i pompon rossi delle guardie municipali.

«Mano alle spade!». Dai raggi bianchi zampilla un tintinnio di foderi, la porta si apre sui cardini e l’uomo appare livido tra due punti neri. Testa calva, lucida, viso rasato, angoli della bocca incavati come quelli dei vecchi della casa centrale, la camicia con un largo taglio, una giacca marrone sulle spalle, cammina con coraggio; e i suoi occhi vivaci, preoccupati e indagatori si posano tutti i volti; la sua figura si rivolge a tutte le figure con un movimento composito che sembra fatto di mille tremori. Le sue labbra sono irrequiete; qualcuno dice che borbottino: «La ghigliottina! la ghigliottina!». Quindi, con la testa china, gli occhi penetranti fissi sulla linea della bascula, cammina come una bestia che tira l’aratro. Improvvisamente colpisce la pedana, e dalla sua gola si alza una voce sottile e acida, come un tintinnio incrinato, con una nota crescente e acuta sulla parola assassino, ripetuta due volte.
Un battito sordo; una manica del cappotto con il segno bianco della mano sul montante sinistro della ghigliottina; una scossa confusa; un getto di persone verso la fontana insanguinata che deve schizzare; il cestino marrone lucido gettato in uno dei furgoni; tutto ciò a trenta secondi dalla porta della prigione.
E, in rue de la Roquette, correndo a tutta velocità, l’auto di padre Faure in testa, poi due gendarmi, il furgone cade, tre gendarmi in coda; sui marciapiedi sono ammassate le cattive figure che si rivolgono verso la cavalcata, con delle ragazze che ghignano tra i capelli. I tre gendarmi, di ritorno dalla ghigliottina, trotterellano verso l’avenue de Choisy, il cappello inclinato in avanti, lasciando volare nel vento il lembo del mantello con i suoi risvolti rossi – fino al campo di rape, nel nuovo cimitero di Ivry. Una fossa oblunga, scavata nell’argilla, mucchi di fango giallo e appiccicoso, gettato per strada, sbadiglia tra le zizzanie verdi: sulla cresta del muro, una gamba qua e una là, una fila di esseri umani, con il cappello in testa, aspetta il cestino.
Il furgone si ferma; viene sollevato il carro funebre di vimini marrone; un uomo senza testa viene messo in una scatola di legno bianca, le mani legate, pallide come cera trasparente, con il lato interno rivolto verso l’esterno; si aggiusta una testa, la figura viene alzata verso la luce, esangue, con gli occhi chiusi, dei lividi neri, un grumo scuro sul naso e un altro sul mento. Questa testa è piantata contro una schiena, su cui si aprono delle mani; e, quando si cerca la punta dei piedi, si trovano delle scarpe. Lì sopra ci sono delle pozzanghere di segatura.

Degli uomini inchiodano sulla scatola un coperchio di legno bianco dagli spigoli vivi; provano orrore nel ricordare le scatole di biscotti, e su quell’albero si leggono delle lettere nere macchiate: prezzo, 8 franchi. Ha il torace già nella fossa, gli si butta dentro altra argilla; è finita.
L’assistente del boia andrà a bere una bottiglia di vino bianco lì di fronte; c’è un giovane che ha gli occhi di velluto, le mani rosse, un’aria fredda e modesta, e che ha montato la ghigliottina. Ci sono i conducenti del furgone, che non si stupiscono più di niente. C’è un uomo grasso, con un dolman di astrakan di lana nera, che solleva la testa delle persone decapitate da ventisei anni; e quando gli viene chiesto se, una volta scesa la lama, ci sia vita in quelle membra, ci sia qualche percezione dentro quelle teste, arriccia con un dito la busta blu di un pacchetto di biscotti e dice: «Non lo so; non ho mai visto muoversi niente: quando fa molto freddo la pelle della testa, il cuoio capelluto, ondeggia così…».

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Instantanées (Marcel Schwob)

Il y a, rue de la Roquette, deux haies de lumières, et au-dessous, deux traînées de lueurs perdues dans le brouillard, double illumination pour une montée sanglante. La brume rouge s’accroche aux réverbères et s’épand en auréole. Un carré s’ouvre au milieu des hommes, limité par les formes noires des sergents de ville ; plus loin des arbres maigres, une porte sinistrement éclairée, où on sent une voûte ; au fond, des fenêtres voilées de vapeur, avec des chandelles allumées – et de la foule encore, ruée en avant sous les piétinements des chevaux. En face de la porte, un bec de gaz, au bout de la place, près de cavaliers démontés, à la tête de leurs chevaux, enveloppés de manteaux ; et la flamme éclaire vaguement ce qui semble deux piliers de cuivre rouge, ronds, surmontés d’une boule brillante, avec au-dessous une tache pâle.

Ceci est dans un rectangle de barrières où s’appuient des rangées d’hommes ; et, près de la machine, des ombres s’agitent. Deux fourgons étranges, percés d’œil-de-bœuf et de fenêtres carrées, l’un contre l’autre en travers ; l’un a voituré le couperet, l’autre va voiturer l’homme. Puis des bras dressés, les points rouges des cigares, des collets de fourrure éparpillés çà et là. Tout est plongé dans une nuit humide.

Tombant du ciel, une lumière grise s’étend graduellement, dessine une ligne de faite aux toits, des figures blêmes aux gens, découpe les barrières, enlève les gendarmes collés à leurs chevaux comme des ombres, pétrit le relief des fourgons, creuse les enfoncées des portes, fabrique avec les piliers de cuivre des rainures larges, avec la tache pâle un outil triangulaire luisant coiffé d’un bloc sombre piqué de trois points blancs, avec la boule brillante une poulie d’où tombe une corde, crée autour de cela des montants sanguinolents, montre près de terre une planche oblique et deux demi-lunes écartées. Les gendarmes montent à cheval. Les sergents de ville se tassent. On voit errer les pompons rouges des gardes municipaux.

« Sabre… main ! » Les rayons blancs jaillissent d’un cliquetis de fourreaux, la porte tourne sur ses gonds, et l’homme apparaît, livide, entre deux taches noires. Chauve, le crâne poli, la face rasée, les coins de la bouche enfoncés comme ceux des vieillards de maison centrale, la chemise largement découpée, une veste brune sur les épaules, il marche hardiment ; et ses yeux vifs, inquiets, scrutateurs, parcourent tous les visages ; sa figure se tourne vers toutes les figures avec un mouvement composite qui semble fait de mille tremblements. Ses lèvres sont agitées ; on dit qu’elles marmottent : « La guillotine ! la guillotine ! » Puis, la tête inclinée, les yeux perçants fixés droit sur la ligne de la bascule, il avance comme une bête qui tire la charrue. Soudain, il heurte la planche, et de sa gorge s’élève une voix grêle, aigre, comme un tintement fêlé, avec une note montante, aiguë, sur le mot assassin deux fois répété.

Un battement sourd ; une manche de redingote avec la marque blanche de la main sur le montant gauche de la guillotine ; un choc flou ; une poussée de gens vers la fontaine sanglante qui doit gicler ; le panier brun luisant jeté dans un des fourgons ; trente secondes à tout cela depuis la porte de la prison.

Et, par la rue de la Roquette, roulant à fond de train, la voiture de l’abbé Faure en tête, puis deux gendarmes, le fourgon dévale, trois gendarmes en queue ; sur les trottoirs, les mauvaises figures sont massées, tournées vers la chevauchée, avec des filles en cheveux qui ricanent. Les trois gendarmes, reîtres de la guillotine, trottent vers l’avenue de Choisy, le bicorne penché en avant, laissant voler au vent le pan du manteau, avec ses retroussis rouges – jusqu’au champ des navets, au nouveau cimetière d’Ivry. Un trou oblong, creusé dans la terre glaise, des tas de boue jaune, gluante, rejetés autour, bâille parmi l’ivraie verte : sur la crête du mur, jambe de-ci de-là, une rangée d’êtres humains, coiffés de casquettes, attendent le panier.

Le fourgon s’arrête ; on tire le corbillard d’osier brun ; on pose dans une boîte de bois blanc un homme sans tête, qui a les mains nouées, pâles comme de la cire transparente, avec l’intérieur tourné en dehors ; on ajuste une tête, la figure levée vers la lumière, exsangue, les yeux fermés, avec des meurtrissures noires, un caillot sombre au nez, un autre au menton. Cette tête est plantée contre un dos, sur lequel s’ouvrent des mains ; et lorsqu’on cherche la pointe des pieds, on trouve les talons. Il y a là-dessus des flaques de sciure.

Des hommes clouent sur la boîte un couvercle de bois blanc, aux arêtes vives ; il y a de l’horreur à se rappeler les caisses de biscuits, et sur ce sapin on lit en lettres noires maculées : Prix 8 francs. Le coffre dans le trou, on y jette de la terre glaise ; c’est fini.

Les sous-aides du bourreau vont boire en face une bouteille de vin blanc ; il y a là un jeune homme qui a des yeux de velours, des mains rouges, un air froid et modeste, et qui a monté la guillotine. Il y a les conducteurs du fourgon, que rien n’étonne plus. Il y a un gros homme, avec un dolman d’astrakan de laine noire, qui soulève depuis vingt-six ans les têtes des décapités ; et quand on lui demande si, le couteau tombé, il y a de la vie dans ces membres, il y a du sentiment dans ces têtes, il fait gondoler du doigt l’enveloppe bleue d’un paquet de biscuits, et dit : « Je ne sais pas ; je n’ai jamais rien vu remuer : dans les grands froids la peau de la tête, le cuir chevelu, se trémousse comme ça… »

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Eva Luna Mascolino ha 24 anni e si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti. Ora è una traduttrice e interprete freelance, che coltiva il sogno di portare (o riportare) in Italia opere letterarie da tutte le lingue che conosce. Ogni mese tradurrà per noi un racconto dall’inglese, dal francese, dallo spagnolo o dal russo, accompagnandoci alla scoperta di culture, periodi storici e generi sempre diversi fra loro.



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