Numero 60 – Aprile 2020

Nell’alveare

di Marco Corvaia

«Ho la pistola calda oggi», dice in dialetto mostrando il calcio dell’arma sotto la cintola dei pantaloni. Nel sottofondo da lamento neomelodico e nell’oro che indossa, con tanto di crocifisso dondolante. E che occhi di piombo ha, gli stessi con cui continua a puntare, non me, né la graziosa turista al mio fianco, ma il tizio al volante di una macchina malandata, perfetta per passare inosservato, in un panorama di palazzi morenti, bancarelle e rifiuti, al centro di un dedalo di vicoli che confluiscono nel mercato rionale. Io e lei siamo carichi di sacchetti della spesa e non c’entriamo niente. Siamo solo rimasti incastrati nel punto peggiore, bloccati dalla macchina contro una catasta di cassette della frutta vuote. Siamo inesistenti per loro.
I due veicoli disegnano una V, ancora ruggenti, e nessuno dei contendenti distoglie lo sguardo, neppure per un attimo. È stato un incrocio di clacson e offese, di mancanza di rispetto. L’automobilista ha rischiato di tamponarlo ma non ha più importanza chi ha ragione. Non ha potuto schiacciarlo e proseguire anche se è quello che avrebbe voluto fare, l’atteggiamento di quelli come lui deve essere autoritario ma calmo, il resto lo è di conseguenza. Così funziona qui e non in un altro modo. Io lo so, sono cresciuto in questo alveare, e ho riconosciuto il tizio in macchina. È un volto noto da queste parti, uno con cui non sgarrare. Il pistolero con la testa ingellata invece non ha capito nulla. Non ha più di quindici anni, veste una tuta firmata contraffazione ed è in sella a un motorino senza targa, immerso in un caos di cui ignora le gerarchie e i segreti. Deve trattarsi di un randagio, ormai sono ovunque; e attende una risposta di sottomissione dall’uomo sbagliato. Entrambi sono l’orrendo concentrato degli stereotipi che disprezzo.
L’attesa sta spaventando pistola calda. È sempre così, l’attesa terrorizza. E chi sa utilizzarla ha un enorme vantaggio. Questo non è il Far West, le cose sono migliorate negli ultimi anni, ma non ho voglia di spiegarlo a questa tipa che assiste alla scena come se fossero le riprese di un film. Con un cenno provo soltanto a farle capire che deve risultare meno curiosa, non farsi notare. Ma non capisce. Vorrei svicolare lontano da qui, a testa bassa, come faccio di solito. Non m’importa se si scannano tra loro.
Attorno si è creato il gelo. Un mercato di borgata che immobilizza la sua vitalità confusionaria dovrebbe far riflettere il randagio, fargli scattare qualche campanello d’allarme, ma non accade. Se ne fotte del gelo, o forse non è un buon osservatore. Vuole marchiare il territorio, fottendosene di tutti. Se ne fotte dei mafiosi che gestiscono i vecchi quartieri, del potere che non deve dare spiegazioni, della guerra combattuta soltanto dai soldati, dell’onore dei padroni, del dominio incondizionato, delle telecamere dappertutto, degli sbirri sempre più invasivi, dei finti duri che ascoltano Hip Hop e della chiesa alle loro spalle che non significa niente, nonostante il simbolo religioso in mezzo al duello di sguardi. Lei mi bisbiglia qualcosa che sembra avere un punto interrogativo alla fine della frase ma io rispondo con un altro cenno, simile a quello precedente, anche se non ho capito cosa mi ha chiesto.
E arriva la prima mossa. La fa il randagio, sporgendosi in avanti dal suo motorino elaborato, verso il finestrino dell’auto ferma, traboccando arroganza. La gomma da masticare è esposta tra i denti e le canzonacce di struggimenti amorosi imperversano, mentre il sole splende con troppa forza. Per il nervosismo le mie ascelle iniziano a piangere sudore.
Mi accorgo della sacca sul sedile del passeggero, proprio accanto a me. Forse dentro c’è un’arma, o del denaro, che per loro è l’unica cosa che conta, denaro che significa “faccio quello che voglio”, e gli basterebbe rivelarlo per fargli capire in chi si è imbattuto, parlare la sola lingua che può comprendere, a parte quella degli spari. Non è però il caso di darlo a vedere, anche se tutti sanno. Il volto noto sa come muoversi, sa che è meglio evitare conflitti quando attraversa il quartiere, non deve mai essere eclatante. Ma ha deciso di vincere questa sfida da invasione di campo. E l’attesa termina.
«Allora infilamela in bocca, è un freezer», gli risponde costruendo un sorriso malvagio.
«Non ti conviene», ribatte l’altro.
«So a chi di noi non converrebbe e quello non sono io», dice in un dialetto così stretto che la tipa di certo non ha capito neanche una parola. Infatti non è impaurita, anzi, sembra affascinata, come se fosse solo una tipica dimostrazione di folclore meridionale. Le mie ghiandole sudoripare sanno che non è così; m’inzuppano la camicia d’ansia fluida.
Il randagio tira fuori la pistola e la poggia sul bordo del finestrino, ma non è bollente come aveva detto, non squaglia la gomma protettiva. La stringe con fermezza ma dentro trema, è evidente; l’ho capito persino io che guardo senza occhi, come uno spettro.
«Hai meno palle e meno cervello di me. Mettila qua dentro, vediamo cosa succede», insiste il volto noto, spalancando le fauci.
Il randagio toglie la sicura, tira indietro il cane e lo accontenta.
Il volto noto tiene ferma la testa e ondeggia la mandibola facendo sfregare i denti sulla canna dell’arma. Granitico. Gli afferra il polso e spinge la pistola più in fondo, ingoiandola per metà. Nell’aria vibra tensione, si percepisce anche nel ronzio degli insetti; distorto, sincopato, o così mi sembra. Voglio smaterializzarmi, scomparire, evaporare. Se continuo a sudare così forse mi scioglierò. E non sarebbe male, in forma liquida potrei defluire tra le balate, senza fare rumore, evitando di essere coinvolto dalla ferocia dei malacarne.
Ma l’alveare agisce e tutto avviene in un battito d’ali. Il randagio viene afferrato da tante mani che lo atterrano, allontanandolo dall’espressione spavalda del suo rivale. Il motorino cade e la leva del freno posteriore si spezza.
Non ha avuto neppure il tempo di capire, non ha premuto il grilletto e forse si domanda se l’avrebbe fatto. Accasciato al suolo adesso vede il cielo senza nuvole, con l’asfalto cocente contro le spalle, e sente un mescolato vociare. «Resta giù», gli intimano. «Non sai quello che fai», lo ammoniscono. Sono i lavoratori del mercato, con i grembiuli sporchi e il fetore della fatica addosso, cani da guardia ben addestrati. Cambia mestiere, aggiungerei io.
Il vincitore del duello scende dall’auto con la semiautomatica tra le mani. È un gigante, non lo ricordavo così alto. Lascia cadere la pistola sul ventre del selvaggio preso in trappola e si china per osservarlo meglio. Quello nemmeno si dibatte, si è arreso.
«Ora tu sei mio, mi appartieni», tuona l’energumeno, e rapidamente rientra in macchina. Prima di invadere le narici di tutti, sgommando via, sussurra qualcosa a un macellaio lercio di sangue animale. Rimane solo la puzza di copertoni bruciati. E ci ha quasi tranciato i piedi.
«La Madonna ti ha baciato, ragazzo», gli dice il macellaio, un omone obeso che lo rialza e sottovoce gli comunica il nome dell’ape regina, di sicuro. Il randagio si divincola e si riassesta, raccoglie il telefono con cui stava ascoltando musica prima dell’incontro, e anche la pistola, congelata. Poi solleva il motorino ancora acceso e romba via con la marmitta che urla.
Ci allontaniamo, finalmente liberi, facendo lo slalom tra grassezze che tornano nei ranghi, mentre il randagio corre sui marciapiedi a tutto gas, per sfogarsi, tracciando un distruttivo percorso di strilla sguaiate, voli di ortaggi e dolci, carni e pesci morti, vino e sigarette di contrabbando, con frenate improvvise, sbandate e finte sbandate, accelerando tra la folla di delinquenti comuni e gente molle, motorizzando l’atmosfera.
Lei sembra esaltata, parla a una velocità snervante. Dice che è stato istruttivo assistere a un atto che definisce “di autentica vita delittuosa”, che sperava proprio di tastare con mano, motivo per il quale ha scelto questa città per il suo primo viaggio da sola, accumulare esperienze, immergersi in realtà differenti dalla sua, popolate da personaggi ai margini della società. Un turbinio di stronzate. Poi aggiunge di dover comprare alcuni ingredienti per prepararmi un eccellente salmone glassato al miele che, ne è certa,  mi piacerà tantissimo.

Appena siamo fuori dall’organico fermento del mercato sentiamo un frastuono, e noi, maledizione, dobbiamo proseguire proprio in quella direzione. A un bivio notiamo il randagio di nuovo per terra. Deve essersi scontrato con la saracinesca della bottega del barbiere, chiuso per lutto, perché ne porta i segni. Si rialza dolorante, con qualche escoriazione. La musica questa volta si è ammutolita. Il motorino è svenuto. Soltanto i panni stesi ai balconi hanno assistito allo schianto, e i cumuli di spazzatura che si estendono come dinosauri fossilizzati, a parte noi. E per la prima volta si accorge della nostra esistenza. Lei sta per dirgli qualcosa ma mi intrometto tempestivamente.
«Porca miseria! Credo di aver lasciato aperto il rubinetto dell’acqua in cucina», esclamo con enfasi, continuando a mentire su un fantomatico allagamento domestico che va scongiurato.
Riesco a trascinarla via dal ragazzino incazzato con la pistola nei pantaloni, e forse dovrei spiegarle perché l’ho fatto, ma non ne ho voglia. Chissà come mai l’unica cosa che mi viene in mente è che, distratto dagli eventi, non le ho detto che sono vegano, del suo salmone glassato al miele non so che farmene, e neanche di lei. Non so più che ci faccio in sua compagnia. Voglio soltanto farmi una doccia e dimenticare la mia vigliaccheria.



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