Una bicicletta
di Elisa Agostinelli
Ne guardava la vernice laccata, che alla luce del sole quasi brillava. La tipica bicicletta rossa, la tipica domenica mattina. Spiava dal vialetto quel padre che s’arrabattava nel caricarla nel portabagagli, la sorreggeva, s’asciugava il sudore, incastrava le ruote e le copriva col telo. Ma ella s’era accorta di lei, di quello sguardo ostinato, non d’invidia ma di stupore. Ciao, le aveva fatto con la mano, prima di correre verso l’auto, mentre la madre la richiamava sistemando le ultime borse e il padre accendeva il motore. Unica nota stridente: il pianto ingiustificato del fratellino. Ciao, le aveva risposto sussurrando. Poi era scappata, s’era rifugiata in casa, senza neanche accompagnare con lo sguardo quell’auto che scivolava via, veloce sulla strada, con il vento ancora estivo di una domenica di settembre.
«Mostrami: come si fa?», chiese, con le mani già appoggiate al manubrio.
«Non sai andare in bicicletta?», domandò l’altro.
«No, nessuno me l’ha mai insegnato. Mostrami, come si fa?», richiese, mentre saliva in sella e misurava l’altezza dei piedi da terra.
«È solo questione di equilibrio,» spiegò «a patto che vengano poste le circostanze per garantirlo, questo equilibrio», sorrise. La sella era troppo alta, il cavalletto per metà ancora piegato, il manubrio rovesciato.
Si guardò le mani. Piccoli frammenti scuri le erano rimasti intrappolati nel sudore del palmo. Gli mostrò la mano. «È la prima che ho rimediato, Nadia. Le darò una mano nuova di vernice.»
«Rossa.»
«Come vuoi, rossa sia. Ora, sali di nuovo. Le ruote mi paiono gonfie abbastanza. Da’, fammi provare», disse salendo.
Lo guardò compiere qualche metro pedalando. E più s’allontanava, più le si mostrava la gaiezza di quegli attimi in cui tutto ancora doveva avvenire, in cui quella giovinezza che pure sentiva strapparsi dalla carne ancora doveva compiersi. Gli si parò davanti, per scherzo, costringendolo a frenare. «Salgo io», disse, con gli occhi fermi nei suoi.
Le porse la bicicletta. Salì, assestandosi a terra. Sollevò un piede nel pedale, l’altro lo lasciò titubante nel terreno. Inspirò profondamente. Era la sua prima volta. Strinse le mani nelle aste del manubrio e abbassò il piede sul pedale; l’altro lo seguì celere, premendo sull’opposto. Si sentì instabile, goffa. Senza ritmo. Senza equilibrio.
«Non riesco…», disse, fermandosi di colpo. «Non riuscirò a imparare da adulta.»
«Devi soltanto pensare a pedalare, un piede dopo l’altro», le suggerì «Solo testa, cuore e piedi, nient’altro.» Ed era come se avesse detto: concentrati sui piedi, che alla testa e al cuore ci badi già abbastanza.
Riprovò, ancora e ancora. All’ennesimo tentativo le parve di avercela fatta, iniziava a gareggiare con il turbinio del vento che la investiva, accelerò, e s’accorse che sì, era questione di mettere un piede dopo l’altro, così come nella corsa, così come nell’amore, così come nella vita. Finché il manubrio non oscillò di lato, perse il controllo e cadde. Egli la soccorse ridendo. Lo guardò, accigliata, mentre si strappava la pellicina della sbucciatura del ginocchio. «Mi avevi detto che era solo questioni di pedali.», gli disse corrucciata. «E di equilibrio – è la prima cosa che t’ho detto.»
Sbuffò. Se non fosse stato per il manubrio.
«Andiamo», disse allora egli, mentre alzava la bicicletta per sorreggerla.
«Dove?»
«Qua vicino, nella panchina. Siediti. Fammi vedere che ti sei fatta.»
La aiutò ad alzarsi porgendole una mano. Ella la rifiutò, guardandosi attorno. Si diresse verso una fonte che aveva intravisto, zoppicando un poco. Si pulì le ferite con quell’acqua limpida, intermittente. Non riusciva a comprendere come quella serie di azioni, il semplice salire su una bicicletta, pedalare alternando i piedi e orientare il manubrio, le riuscisse così complicato. È perché non ho imparato da piccola, si diceva. È perché Sonia aveva la sua bicicletta rossa scintillante, e andava con la famiglia nei prati verdi delle domeniche di settembre, mentre io aiutavo mamma a cucinare il tajin, e cucivo la stoffa che sarebbe divenuta il mio velo, e ascoltavo alla radio litanie arabe. E mio padre elencava, l’uno dopo l’altro, cos’era e cosa non era immorale per una donna.
Tra quelle impure, vi era il salire su una bicicletta.
«Che hai?», domandò, mentre conduceva le mani a conchiglia verso la fonte, per rinfrescarle la ferita.
«Tutti i bambini sanno andare in bicicletta. Io ho quasi vent’anni e non sono capace di farci qualche metro.»
«Non tutti hanno le stesse conquiste nello stesso tempo. E saper andare in bicicletta – aggiunse – per quanto scontato possa essere, ne è dimostrazione.»
Si alzò. Ebbe la tentazione di sfiorargli una mano, come a ringraziarlo, ma egli fu più pronto e sfiorò la sua.
«Torniamo», gli disse «Tu davanti e io dietro.»
E s’avviarono, sfrecciando insieme per le vie della città, su quella bicicletta scrostata di vernice, mentre ella rifletteva che le libertà più ovvie, come quell’attimo, loro due insieme, controvento su due ruote, sono le più audaci da rivendicare.