Una magra consolazione
Elena Gottardello
In tutta onestà, ho capito che certe esperienze sono cose da tenere per sé. Non parlarne in giro, non fare domande. Non sai mai come vada finire: tu chiedi chiarezza, e ti ritrovi che ne sai meno di prima. Ma molto meno, eh. Non ne vale la pena. In fondo, ve lo dico io, è questione di punti di vista che a volte, quando meno te l’aspetti, coincidono.
Per esempio, nel mio caso, meglio ritrovarsi a concludere che morte, Paradiso e Fede sono da prendere così: impacchettati col fiocco senza domande e commenti.
Ho saputo della morte di Giulietta la perpetua dieci giorni fa, e la notizia mi ha lasciata tutto sommato indifferente. In chiesa della morte si parla ogni giorno. Tra rosari, preghiere e funerali non si parla d’altro: forse per questo mi ha lasciata indifferente. Dopo la notizia, ho pensato che dovevo aver proprio maturato il concetto che la morte è la chiamata verso l’Altissimo e quindi non bisognava essere tristi, e via. Deve per forza essere andata così, perché ho saputo la notizia, non mi sono dispiaciuta, e poi ho passato il tempo a sentirmi in colpa per non essere dispiaciuta, e nello stesso tempo a compiacermi per aver scoperto di avere una fede così matura.
Ho pensato subito che avrei dovuto fare le condoglianze a don Carlo, essendo lui la persona più vicina a Giulietta la perpetua che io conosca. In fondo, lei gli preparava i pasti e gli teneva pulita la canonica e la biancheria, una specie di nonna a cui si deve rispetto e riconoscenza. Anche se non è la mia parrocchia, è pur sempre il posto dove lavoro, e don Carlo mi pare un giovane prete simpatico. Poi è finita che non l’ho incrociato.
Non la conoscevo bene Giulietta la perpetua. La vedevo quando parcheggiavo il fiorino davanti alla canonica e lei accostava le tendine della porta d’entrata, poi cambiava stanza, apriva la finestra del salottino del primo piano, rialzava sulla gola il colletto della camicia e posava le chiavi sul davanzale con un accenno di sorriso. È dove le rimetto io quando finisco di pulire la chiesa, quattro ore dopo, ogni lunedì e giovedì, sopra un foglio scritto con la matita che tengo in borsetta, punta ben fatta: orario d’inizio e fine delle pulizie e nomi dei detersivi da ricomprare.
Altre volte capitava che vedevo Giulietta la perpetua entrare nella navata della chiesa mentre pulivo, lucidavo, abbeveravo. Aveva le chiavi del portone centrale, un mazzo tenuto da un anello con una bella immagine di S. Rita. Andava ai portacandele, svuotava le cassette delle offerte dentro al sacchetto di velluto bordeaux scolorito, poi andava all’inginocchiatoio, diceva una preghiera o due, e usciva. Indossava camicie di ciniglia che variavano solo per il colore: stampe in rilievo di piccoli fiori bianchi, o azzurri, o gialli, con il colletto, e gonne di lana dritta, forse marroni, forse nere. Qualche volta, ma erano giorni che ghiacciava forte, metteva sulle spalle una mantella a scacchi che sapeva di minestra e strudel di mele. Portava delle pantofole grigie, con la gomma e il velcro, estate e inverno. Le sue rughe erano sfumate, indistinte; i capelli, tantissimi, erano bianchi e lunghi ai lati del viso. Un boccolo le cadeva dalla fronte bassa sugli occhi, così le era tipico il gesto di afferrarlo tra pollice e indice, fregarlo e buttarlo indietro, per rivederlo cadere sulla fronte, ma più compatto.
Sei giorni fa, ho trovato le chiavi già posate sul davanzale. Mi sono aperta la chiesa come al solito, sul lato della sacrestia, ho preparato il carrello con le scope e i detersivi. Teresa, la catechista delle quarte, è entrata dicendo permesso, possiamo usare l’auletta sul retro, la canonica è chiusa. Per me va bene, ho risposto. Tanto non dovevo pulirla quel giorno. Lei è passata dentro seguita da un gruppo di ragazzini in scarpe da ginnastica e mentre mi passava di fianco mi ha picchiettato sulla spalla e mi ha detto la Giulietta è morta due notti fa, e ha proseguito scuotendo la permanente.
Un’ora dopo, Luigi il campanaro girava per le navate silenzioso come suo solito, ma quel giorno mi ha chiesto se avessi preso manutergio, corporale e purificatorio per lavarli, dato che la Giulietta era morta e quelle erano cose di cui si occupava sempre lei, gli pareva, e intanto sbatacchiava il turibolo con un panno.
Il sabato dopo ho incrociato Paola, la direttrice del coro, alle casse del Grande Centro Commerciale, e mi ha detto che al rosario per la morte di Giulietta c’era mezzo paese, e come mai io non c’ero, e al funerale non fiori ma opere di bene, e intanto discuteva con la cassiera che la verdura e la frutta così incellofanate le facevano impressione. E si dimenticava che io sono di un’altra parrocchia e alla loro ci vado solo per lavorare, due volte alla settimana: mica so dei loro funerali.
Quattro giorni fa, giovedì, ho parcheggiato il mio fiorino davanti alla canonica di don Carlo chiedendomi se le chiavi sarebbero state sul solito davanzale o se avrei dovuto suonare il campanello. È stato lì che l’ho vista. Giulietta la perpetua ha scostato la tendina della porta d’ingresso, poi ha aperto la finestra del salotto del primo piano, si è alzata il colletto sulla gola, e ha posato le chiavi sul davanzale prima di richiudere i vetri. Mi sono avvicinata lenta al davanzale del salottino al piano terra, e ho preso le chiavi che le mani mi tremavano: era il mazzo di chiavi con l’anello grande e la medaglietta di Santa Rita. Ho camminato verso la chiesa continuando a voltarmi verso la canonica, mentre la testa mi girava come una giostra. Ho pensato avrò visto male. Di certe cose è necessario convincersi, e io quel giorno ci sono riuscita.
Ieri sono tornata a parcheggiare per il mio turno del lunedì, cercando di fare atto di fede e di non pensare che avrei visto fantasmi o anime, tutta roba da miscredenti. Ho trovato le chiavi solite sul davanzale, e nessuno è apparso dietro alcuna tendina. Doveva avercele messe don Carlo, ho pensato, doveva badare lui a certe cose finché non trovava un’altra perpetua.
Mentre facevo scivolare il panno della cera sulla navata di sinistra, con l’umore un poco sollevato dall’abitudine, Giulietta la perpetua si è aperta il portone centrale ed è entrata in chiesa. Ha spinto il battente, lo ha lasciato sbattere dietro di sé, e si è diretta verso i portacandele dell’altare della Santissima. Indossava una gonna marrone di lana, dritta, una camicia di ciniglia, quella con i fiori gialli, e le solite pantofole grigie con il velcro. Il cuore ha iniziato a battermi in petto che quasi pensavo uscisse e andasse a rotolare sulla navata. Giulietta la perpetua ha sfilato dalla tasca della gonna il sacchetto scolorito, e svuotato monete dalla cassetta delle offerte. Poi, con calma, ha chiuso il sacchetto con il laccio, e si è spostata verso il portacandele centrale di S. Martino, nella navata sinistra, a sei metri da me, dove ha ripetuto la solita operazione con il sacchetto. Allora ho posato la scopa a una panca e mi sono avvicinata tenendo la cera in mano, giusto per darmi una parvenza di normalità. Non volevo pensasse che la stavo osservando, meglio era se mi credeva intenta a pulire. Lei si era chinata sull’inginocchiatoio e si era messa a pregare, così ho cominciato a pulire il faldistorio, che poi è una roba lunga da lucidare. Tempo due minuti e Giulietta la perpetua si è alzata, mi ha guardata e mi ha fatto un cenno di saluto con la testa facendo dondolare il boccolo sulla fronte. Poi è andata all’entrata centrale, ha spinto la porta, ed è uscita nelle sue solite pantofole. Ho risposto alzando la mano e credo di aver mantenuto quella posizione un poco ridicola per qualche minuto.
Ma com’era possibile? Forse che le vecchie perpetue muoiono per metà e l’altra metà continua come niente fosse?
Data la straordinarietà della cosa, ho creduto giusto di dover parlarne a don Carlo, così questa mattina sono andata apposta alla sua parrocchia nell’ora in cui di solito inizia la colazione di un prete, cioè dopo le lodi. Don Carlo stava uscendo dalla chiesa con il vecchio frate Nicola. Andavano verso una macchina bianca sotto un ombrello che a mala pena copriva tutti e due. Per niente stupito di vedermi, mi ha sorriso e ha commentato il brutto tempo. Per entrare meglio in confidenza ho risposto che era vero, e ho raccontato dei danni all’orto di mio marito fatti da tutta quell’acqua, magari si fermava. O girerà in neve, ha commentato il frate correndo verso l’auto bianca e salutando con un cenno della mano. Don Carlo allora mi ha domandato quanto m’intendevo di orti, dato che in quello della canonica, che sapevo essere sul retro della casa dopo un cancelletto di ferro, ai cavoli e alle verze stava succedendo di crescere poco. Don Carlo mi ha chiesto se fosse normale, nel modo limpido di chi davvero non sa nulla di orti, anzi forse non sa neanche cosa distingue la verza dai cavoli, e io ho risposto “Dovrei vedere”. Così siamo arrivati al cancelletto che era accostato, lui sotto al suo ombrello, io sotto al mio, e mi sono trovata in un breve viottolo che la pioggia stava rendendo di fango, ai lati alcuni roseti spogli e gocciolanti e, nel fondo, cinque aiuole di verdure che schioccavano sotto la pioggia. Un poco contenta di avere del tempo per chiacchierare, e un poco innervosita per la voglia di farlo, mi sono fermata davanti alle verze con i piedi dentro a una pozzanghera.
“Ecco, vede” ha detto Don Carlo chinandosi in avanti verso le verze e facendo così scivolare acqua dall’ombrello alle foglie. “Mi sembrano nane”. A me, a dirla tutta, sono sembrate normali, così ho detto che la crescita delle sue verze mi pareva ottima, e lui, tutto contento perché mi crede un’esperta, si è piegato ancora sulla verdura, e ha sorriso. Poi mi ha ringraziata e siamo tornati verso il cancello, io a pensare come iniziare il mio discorso mentre saltellavo nel fango del viottolo.
Arrivati all’entrata della canonica e vicino al mio fiorino, gli ho allora buttato là: «sa una cosa? Le sembrerà strano, ma l’altro giorno credo di avere visto Giulietta la perpetua in chiesa.»
Don Carlo si è sistemato la sciarpa dietro le spalle, poi il berretto di felpa, poi i bottoni del cappotto. Ha guardato il cielo oltre l’ombrello, e con un’aria conciliante mi ha guardata e ha risposto: «non mi stupisce affatto, cara Lina. L’ho vista questa mattina uscire dalla canonica con il sacchetto bordeaux delle offerte.»
Poi mi ha rivolto un educato inchino ed è entrato in canonica dopo aver chiuso e sgocciolato l’ombrello.