Memoriale
di Marco Esposito
Non era ancora sorta l’alba quando Prisco e Valerio entrarono nel campetto. Ce l’avevano dietro casa, c’erano cresciuti in quel rettangolo.
Erano in tuta e scarpe da ginnastica, entrambi col cappuccio della felpa tirato sulla testa. Si posizionarono al centro, uno di fronte all’altro, e cominciarono a muovere il capo per sciogliere i muscoli del collo e il trapezio. Fu Valerio il primo a parlare. «Ormai ci siamo. Come ti senti?».
Prisco teneva la testa bassa e la faceva oscillare tracciando una U immaginaria. «Mi sento pronto. Tu?».
«Io vorrei sistemare le cose con Rita, prima di partire».
«Ancora non vi parlate?».
«Da una settimana».
Fecero ruotare le spalle.
«Adesso devi concentrarti solo su questo», sentenziò Prisco. «Non farti distrarre. Rita può aspettare, le Olimpiadi no».
Smisero di chiacchierare e passarono a mulinare le braccia; prima uno e poi l’altro, in senso orario e antiorario, generando un fruscio che tagliava l’aria. Saltellarono un po’ sul posto lasciandosi ciondolare, sciolti. Corsero lungo il perimetro del campo per un totale di dieci giri e ci aggiunsero dieci scatti alla massima velocità da una porta all’altra, intervallati da brevi pause da trenta secondi ogni due scatti. Si riposizionarono al centro e boxarono a vuoto per almeno venti minuti, muovendosi in cerchio, uno lo specchio dell’altro.
Quando lasciarono il campetto, la luce del giorno faceva capolino sui tetti dei palazzi e sulle promesse del giorno a venire.
È tardo pomeriggio e una banda di ragazzini gioca a calcio nel campetto.
Un addetto del Comune osserva l’uomo che sta affiggendo una targa commemorativa all’ingresso.
«Per chi è?», chiede uno scugnizzo. È arrivato a partita già iniziata e sta aspettando il momento per entrare.
«È dedicata a due ragazzi cresciuti qui come voi», risponde l’uomo che sta maneggiando la targa.
«Veramente? E chi erano?».
«Si chiamavano Prisco e Valerio, erano due pugili. Avevano vinto tutti e due i Campionati mondiali nella loro categoria e stavano per andare alle Olimpiadi».
«E poi?».
«Sono morti in un incidente stradale tre giorni prima di partire».
«Che sfiga! E li conoscevate?».
L’uomo è ancora di spalle, non si è mai voltato, e continua ad armeggiare. «Io sono il padre di uno di loro».
Un giocatore dà una voce al ragazzino, che non se lo fa ripetere e si affretta a entrare in campo.
L’addetto del Comune sospira, scuotendo la testa. «Questi non hanno più rispetto di niente, nemmeno della morte».
«Li lasci giocare», conclude l’uomo passando la mano sulla targa, a lavoro finito. «Magari in mezzo a loro si nasconde qualcuno che riuscirà a fare qualcosa di buono, noi che ne possiamo sapere».
Dal rettangolo di gioco giungono una serie di bestemmie.
«Ci credo poco», ammette l’addetto. «Ma tutto può essere».
L’unico lampione funzionante si accende nel crepuscolo e li ricopre di una luce surreale.
«Mi sembra che l’ho messa giusta, no?».
«Perfetta – risponde l’addetto.»
Danno un’ultima occhiata alla targa, poi si incamminano verso la fine della via. Quando si saranno stretti la mano per salutarsi sarà già calato il buio.