Bestie
di Elena Ramella
Oggi Giulia non è clemente con me, complice l’arrivo della primavera, l’aria calda, le giornate più lunghe, la fine prossima della scuola e tutto quello che può occupare i pensieri di una ragazzina di dodici anni. È appollaiata sulla sedia della cucina con lo sguardo fisso su di me ma perso nel vuoto; siamo qui da un’ora e mezza, una davanti all’altra, tra di noi il libro di storia aperto, stropicciato, sottolineato ed evidenziato. Una piccola miniatura di Carlo Magno mi rivolge uno sguardo anonimo e piatto.
«I cavalieri, Giulia. I cavalieri. Chi erano? Cosa facevano?»
Mi guarda con occhi vacui.
«Combattevano.»
«Sì, esatto. E…?»
Silenzio. Bevo un sorso d’acqua, appoggio i gomiti sul tavolo, tiro un lungo sospiro.
«Erano buoni o cattivi, i cavalieri, Giulia?»
«Cattivi.»
«Sì, perché, che cosa facevano?»
«Ammazzavano le persone, versavano sangue e facevano la guerra.»
Sospiro di nuovo. Per oggi abbiamo finito così, va bene così. La guardo: ha la testa persa fra le nuvole, sta fissando un punto alle mie spalle, il frigo probabilmente, ma non è all’oggetto in sé che sta pensando. È distante, lontanissima. Chiudo il libro.
«Fai merenda» le dico, «ci vediamo la prossima settimana. E ripassa le date, mi raccomando.»
So che non lo farà mai. Perché ad una ragazzina di dodici anni dovrebbero importare delle date? Il tram inchioda e spalanca le porte davanti a me.
È pieno. Mi faccio largo tra la gente, raggiungo una maniglia a cui aggrapparmi prima che il tram riparta. Non me ne accorgo subito; ho le cuffie nelle orecchie, lo zaino in bilico tra le caviglie, lo sguardo fisso oltre il finestrino, sono infastidita dal caldo pesante e opprimente, dalla ciocca di capelli che continua a cadermi davanti agli occhi, dalla giacca che non riesco a sbottonare, dalla fatica che mi ha fatto fare Giulia, dalla gola secca e dagli occhi che bruciano per via dell’allergia.
Quando me ne accorgo rimango per un attimo pietrificata: seduto su uno dei sedili gialli, un uomo tiene tra le mani un pacchetto di carta e vi affonda il viso con ferocia. È quel tipo di carta che usano i macellai, con i disegnini dei prosciutti da un lato, e uno strato di politene dall’altro. Metto a fuoco la vista, allungo leggermente il collo. È una bistecca quella che sta morsicando con tutta la forza che ha nella mascella. Una bistecca cruda, con tutto il corredo di osso, cartilagine e nervi. Il succo della carne gli cola tra le mani, meno rosso del sangue, più annacquato. Mi giro verso di lui per guardarlo meglio mentre tutti gli altri passeggeri, con i volti contratti dal disgusto, fanno finta di niente.
Fissa la bistecca, la tiene vicina alla bocca, la stringe tra le mani con gelosia. È sua, solo sua. La fissa. Sceglie un punto. Affonda i denti. Tira. Strappa. Mastica. Fissa ancora. Sceglie un altro punto. Affonda. Tira. Strappa. C’è un qualcosa di primitivo e animalesco nel modo in cui stringe la carne, quasi avesse paura che qualcuno potesse rubargliela. Mastica in fretta, è ansioso e sospettoso. Stacca lo sguardo dalla bistecca solo per qualche istante, per guardarsi intorno, per controllare che non ci siano nemici contro i quali combattere per difendere il suo bottino.
Nel frattempo il tram continua ad andare avanti, ad inchiodare quando arriva alle fermate, a riempirsi di calore e, soprattutto, dell’odore della carne cruda. Il succo rossastro cola sul pavimento di gomma nera antiscivolo ai suoi piedi. Starnutisco, per l’ennesima volta, mi porto il fazzoletto al naso con una mano sola, sento qualcosa di caldo scendermi verso le labbra. Guardo il fazzoletto: una macchia rossa. Rosso vivo, non rosso annacquato.
«Merda» sussurro. Chiudo la narice incriminata tra il pollice e l’indice, nel fazzoletto, guardo in alto. So che non dovrei farlo: alle elementari, ogni volta che mi sanguinava il naso, ovvero quasi ogni giorno, tiravo indietro la testa, pensando che così avrebbe smesso. Fino a quando una maestra mi disse «non farlo! Non lo sai che così il sangue ti va in gola, e se ti va di traverso, ti soffochi?» Da quella volta ho smesso. O quasi.
Così ci siamo noi, sul tram: l’uomo che continua a sbranare la sua bistecca cruda come una iena, ed io che perdo sangue dal naso, in una calda, soffocante giornata di fine aprile.
Cosa fanno i cavalieri, mi chiedo mentre sposto lo sguardo fuori dal finestrino, per distrarmi. Versano sangue. Razziano. Violentano. Uccidono. Vanno a caccia e mangiano la selvaggina che abbattono. La cuociono sul fuoco della sala reale del loro Signore e poi la divorano come se non ci fosse un domani, fino a stare male, con le mani sporche del succo della carne al sangue.
Il tram si ferma. Vedo un uomo alto e grosso correre a più non posso con sguardo speranzoso. Viene nella nostra direzione. Il tram sta per chiudere le porte. Lui riesce ad infilarsi in uno spiraglio, una frazione di secondo prima che il tram riparta. Riesce a riaprire le porte con una forza bruta: è sopra. Butta lo zaino per terra, si asciuga il sudore con un lembo della camicia: è tutto nella norma. La gente lo guarda di sottecchi, leggermente urtata dalla sua violenza. Io mi stringo la narice tra il pollice e l’indice. L’uomo seduto sul sedile giallo continua a guardare la sua bistecca come se fosse la cosa più bella del mondo, e a mangiarla come se non vedesse cibo da mesi.
Siamo sempre stati solo animali, in fondo.