Chicchi d’orzo tra le dita
di Chiara Marena
In genere mi trovavo lì per le due e mezza. Quel giorno però ero in ritardo.
<<Sono già le quattro, lo sai?>>.
Mi accolse con poca enfasi.
<<E’ colpa del corteo…>>.
Mi ritrovai con disinvoltura in quell’approccio alla giustificazione.
<<Riuscivo a camminare a malapena…poi ha iniziato a piovere…>>.
Ma non gli stavo raccontando tutta la verità.
<<Mi sono precipitata qui appena la pioggia è diminuita d’intensità>>.
<<Asciugati bene allora, altrimenti ti prenderai un malanno>>mi disse con benevolenza.
Non mi capitava spesso che qualcuno prediligesse me e mi chiedevo se si trattava ora di un errore di prospettiva. Fuori le foglie, percosse dalle gocce di pioggia, danzavano nell’aria concentrata e satolla. Ma sentivo dentro di me che era pronta a graziarmi.
Era da un anno che passavo tutti i miei pomeriggi in quel negozio di fiori. Mi facevano comodo quei pochi soldi alla fine del mese. Appena uscivo da scuola mi precipitavo sotto la veranda, che rimaneva aperta. La proprietaria era una signora di ottantotto anni, la signora Odessa, da tutti chiamata la signora Ode per via della sua singolare capacità di ascolto. La sua scriminatura dei capelli, puntuale all’attaccatura della cute, era bianchissima e soffice. Quando arrivavo in anticipo e il negozio era ancora chiuso, mi veniva ad aprire con una retìna intorno alla testa, di quelle per tenere la permanente, ovvero pochi piccoli morbidi ricci per una testa di quella età. Ma appena entravo, se la toglieva. Rimaneva solo quella nuvola soffice e spiritosa. Veniva voglia di metterci un dito dentro e di assaggiarla, come si fa con le torte per vedere se sono buone.
Le offrii quel che restava del giorno, alcuni biscotti, per scongiurare ulteriori incomprensioni.
<<Li hai fatti tu? >>mi chiese.
Le gocce di pioggia lungo la grondaia avevano ora un ritmo serrato e a stento riuscivamo ad intenderci.
<<No, li ha fatti mamma>>
<<Sono buonissimi>>. E si strinse in vita la cinta sottile, nel suo vestito di flanella leggera ricamato a fiori. Aveva la pelle bianchissima e gli occhi un po’ cerchiati da occhiaie. Le sue caviglie invece erano ben tornite. <<Eh sì…sono proprio buoni…Ce ne siamo fatte una bella mangiata, non è vero?>>esclamò togliendosi le briciole di dosso e accompagnando la mia mano sul recipiente per aiutarmi a chiudere bene. Poi mi sorrise.
Era un mondo il suo di movimenti singoli, sezionati, elegantemente divisi l’uno dall’altro. Era gradevole, gradevole ed essenziale.
La veranda era ornata di biancospini. Un leggero vento ne raccoglieva il profumo e lo trasportava all’interno, al di là della porta lasciata aperta. Un ballatoio sporgeva dall’alto, lungo le quattro pareti. Dal parapetto di protezione si riversava, fin quasi a toccare terra, distribuita su più vasi, una pianta da interno della specie delle Rusticae. Per procedere nella sala attigua del negozio bisognava scostarla, come fosse una tenda.
Ad un esame preliminare mi era sembrata quella una disposizione un po’ eccedente rispetto allo spazio circostante, ma con il tempo avevo scoperto che nel disporre le piante il suo intento era stato quello di creare un affresco. Ed era proprio questa capacità che i clienti acquistavano da lei, non i semi, né il tipo di esposizione consigliata, ma l’affresco. Ed ammesso che l’affresco fosse appropriato all’occhio dell’acquirente, doveva sempre essere fresco. Era per questo che incastonato ad un angolo, come un piccolo diamante, si trovava un lavandino. Alla sua destra un lavello per tagliare gli steli dei rami. Un piccolo specchio un po’ inclinato, gli ballonzolava sopra. Oltre lo specchio, una lampadina da 50 Watt attorcigliata ad un chiodo. Sopra c’era scritto:
Se si tiene accesa
senza necessità
se ne risente.
Certe preghiere come si faceva a non esaudirle…
<<Che cosa ti stai mangiando?>>mi chiese l’anziana donna.
<<Una gomma da masticare>>.
Me l’ero messa in bocca tanto per rinnovare il sapore al palato.
<<Ne vuoi provare una?>>le chiesi.
<<Uhm…>>
<<Non la devi ingoiare però, la devi solo masticare>>aggiunsi, un po’ preoccupata per lei.
<<D’accordo>>
Dopo un po’ la vidi che ruminava tranquillamente.
<<Ti piace?>>
<<E’ un sistema simpatico. Mi piace, sì>>poi aggiunse<<Dopo un po’ però non sa più di niente e la devi buttare>>.
Le gocce scivolavano gradualmente dalle foglie, una ad una, in fila. Sembravano eseguissero un ordine. Ma ormai aveva smesso di piovere. L’asfalto bagnato era illuminato dal sole e c’erano riflessi ovunque.
Per farmi perdonare, senza esitare ulteriormente, srotolai due sigarette, riversai il tabacco in una casseruola piena d’acqua e lo lasciai lì a bagnomaria. Ci sarebbe rimasto ventiquattr’ore. Era un’insetticida naturale, me lo aveva insegnato lei. Con quello che era avanzato del preparato precedente feci piccoli cerchi intorno ad un ficus benjamin, verdissimo, maestoso, eretto di fronte a me.
Poi mi dedicai ad una piccola nicotiana dai fiori bianchi. Era una pianta dal terriccio salmastro, veniva da una serra vicino al lido. Del mare aveva ancora il rantolio delle onde, quell’alternare rutilante di schiuma bianca e sabbia sottile. Con la coda dell’occhio la intravedevo, mentre sbozzacchiva delle rose con delicatezza e precisione. Le sue mani erano ossute, raggrinzite e agilissime. Testimoniavano la quantità di cose che potevano fare nell’arco di cinque minuti.
<<Le rose sono facili a riprodursi per talea?>>le chiesi.
<<Sì, tagli un ramo e lo pianti nel periodo in cui si riproducono, in genere vengono su facilmente. Ma è importante che il terreno sia fertile e la buca ampia, perché se i nuovi piccoli capillari incontrano un terreno duro come la roccia, la pianta si fermerà. Vengono su anche tanti insetti con loro>>.
Le sue rose incantavano per tonalità dei colori, profusione dei boccioli, durata delle fioriture. Come tante signore presenti ad una stessa festa, offese dopo aver scoperto di non essere state invitate per prime, che storpiano per ripicca i nomi dei mariti delle altre, quei floridi boccioli facevano di tutto per accaparrarsi le sue attenzioni, perché in cuor loro la tenevano in gran considerazione.
<<C’è sempre una fioritura principale seguita da una secondaria, più tarda e meno abbondante>>aggiunse.
Dalle sue mani gli oggetti passavano su una sedia che usava come tavolino, la sedia essendo più bassa rispetto ad un vero tavolo, permetteva di raggiungerli con maggiore facilità. Piegandosi così un po’ sulle ginocchia, come intorno a un fornellino da campeggio, trovava per un abbassamento del bacino, l’equilibrio di un corpo grosso su di una piccola superficie.
<<Per i trapianti ai miei tempi si usava l’orzo, lo sapevi? >>
<<L’orzo? >>
<<Sì l’orzo, perché germina facilmente. Vedi, si tagliava il ramo in questo punto, dove il tronco ha una sezione più ampia, così. Si infilava un chicchino d’orzo all’estremità e poi si piantava nel terreno. Il giorno dopo si vedevano spuntare le radici>>.
<<E’ incredibile>>dissi io.
Fece una lunga pausa. <<Oggi si adoperano solo ormoni>>. Poi aprì un sacco e mi diede una manciata di chicchi d’orzo. <<Provaci anche tu, poi mi racconterai>>.
Li misi in tasca. Erano tanti e facevano un certo peso. Io e il mio peso ci rimettemmo al lavoro.
<<Un seme di fagiolo, per esempio, lo avevo piantato intorno al fusto di quel limone, nel suo stesso vaso. Era una situazione d’emergenza. Durò una stagione>>
L’abitazione dell’anziana signora si trovava al piano di sopra, come era in uso nelle botteghe del centro parecchi anni fa, e questo permetteva di avere tutto a portata di mano.
<<Oggi sono proprio contenta. Vedi che bel sole che è uscito adesso…>>.
Quell’anziana donna aveva compiuto le scuole fino alla terza elementare, ma parlava molto bene. Tuttavia quell’oggi era profondamente sbagliato. Perché tutti i giorni lei elogiava qualcosa per cui era contenta.
Godeva delle cose che aveva, e quanto alle cose che aveva, queste erano un’infinità: un astuccio ben conservato, la busta di una lettera chiusa in modo perfetto, l’odore della pellicola che protegge la parte adesiva…
Su un tavolino dove poggiava gli occhiali conservava la foto di suo marito. Quando l’aveva conosciuto, nel ’43, lui faceva parte di una compagnia di attori ambulanti. Scappavano dai territori occupati della bassa Emilia. La notte che erano arrivati in paese, lui era sceso dal carro per rubare un maiale, ma sorpreso dall’anziana signora (che all’epoca non era ancora così anziana), si era ritrovato confinato tra i suini per una intera settimana, per via di quella loro certa reputazione di poca pulizia che evidentemente li accomunava…
Ma da quella posizione aveva potuto ammirare i bouquet sempre fioriti che lei portava ogni mattina assieme al mangime. E deve esser stato così che lui aveva deciso di abbandonare le scene.
La loro unica figlia era stata battezzata nell’acqua del fiume in cui scorrevano cadaveri di decine di soldati, riuniti insieme, seppur divisi nella divisa.
<<Sono meravigliose conchiglie chiuse per sempre>>disse lei quel giorno riferendosi ai soldati. Mentre la loro piccola conchiglia si apriva proprio allora.
Mi sembrava che la vita si rinnovasse in modo poco spontaneo. Mi strinsi i miei chicchi d’orzo nella tasca.
In quel momento entrò una signora molto bassa, che a guardarla da dietro, nascosta com’era dal tavolo, sembrava stesse seduta, perché emergeva solo la testa.
<<Vorrei dei fiori. Sono per mia sorella>>
<<Dei bei gladioli, che ne dice? Ne abbiamo in varietà ornamentali di diversi colori.>>
<<Bianchi, a lei piacciono molto i fiori bianchi>>
<<Allora forse delle belle petunie potrebbero piacerle?>>
<<Hanno bisogno di molta luce?>>
<<Certamente. Una piena esposizione è la più adatta>>
<<Dove sta lei è talmente basso che non arriva mai la luce>>
Un problema di famiglia, sorrisi ironicamente io…
La testa della donna si ritrasse un po’.
<<Quella zona del cimitero è un po’ tetra…>>.
L’anziana signora scostò la pianta simile alla tenda e si ritirò nella sala attigua, mentre la donna continuava a parlare, come ipnotizzata.
<<Mia sorella non è sepolta nella terra, i suoi fiori hanno sempre poca luce>>.
Dopo un po’ l’anziana signora era di ritorno con una teiera e le porgeva una tazza di tè. Poi le consigliò di metterlo anche nei fiori, si sarebbero mantenuti più a lungo, nonostante le condizioni non favorevoli. Aveva un animo gentile quell’anziana donna, abitato dalla grazia, distribuita attraverso un’infinità di gesti minimi e riconoscenti.
La cliente la ringraziò, scomparendo con un inchino per un attimo sotto il tavolo e riemergendo con quella sua testa prima di salutarci.
<<Perché non possiamo separarci dalle persone che amiamo?>> le chiesi allora io smorzando a stento l’emozione<<Per le piante non è così, loro vivono bene anche da sole!>>.
<<Se prendi il Kiwi no. Maschio e femmina, ad esempio, se non sono vicini non si riproducono>>e aggiunse subito dopo<<E’ per questo che hai fatto tardi, vero? Hai litigato con qualcuno che ami?>>.
Annuii con la testa, confessando la vera ragione del mio ritardo. Alla mia età si cede subito…
<<I sentimenti sono così forti quando si è giovani, hai solo sedici anni.>>.
Fu allora che mi disse di cantare, disse che faceva bene alle piante e che avrebbe fatto bene anche a me. Io però ebbi un inizio incerto. Perché a leggere l’insieme di quelle composizioni floreali, mi sembrava di perdermi, non trovando mai la pagina a cui ero arrivata. Perciò di tanto in tanto stonavo, anche grossolanamente. Alla fine, come aprendo a caso, le chiesi.
<<… quali nomi?>>
<<Il gladiolo, per esempio. Vuol dire piccola spada. Per allusione alle sue foglie taglienti. Oppure il glicine, che viene su in grappoli penduli molto profumati. Il tubero di questa pianta ha un sapore dolcissimo. Glykys infatti dal greco vuol dire dolce>>
<<Dove l’hai imparato?>>
<<Quando ero un po’ più giovane leggevo ogni giorno una pagina del vocabolario, cercando di memorizzare le parole. E quando non capivo chiedevo al Signorino, il figlio del Sindaco, che aveva studiato fino alla terza Liceo. L’italiano non lo sapeva parlare nessuno a quei tempi. Era una cosa da ricchi. Oggi voi fate del dialetto un motivo d’orgoglio, ma noi ci vergognavamo a parlare in dialetto con la gente di città>>.
La sua idea di bellezza mi calava in un rapporto non più generico con il presente, perché lo nobilitava, vivendolo.
<<Signora Ode?>>.
Il calzolaio si stava sporgendo dalla veranda. La sua bottega era adiacente alla nostra. Aveva addosso l’odore del cuoio e del lucido da scarpe.
<<Le ho riportato le scarpe, Signora Ode>>.
Ma appena entrato era divenuto un po’ maldestro, si muoveva come un ranocchio in uno stagno.
<<Le suole erano nuovissime e non le ho toccate>>.
Un ranocchio miope, i suoi occhiali avevano spesse lenti da imporre autorevolmente agli occhi la messa a fuoco.
<<I tacchi invece erano da rifare. Gliene ho messi due nuovi che farà invidia a tutte le sue amichette. Quelli vecchi li ho regalati alla signora Lina, solo Dio sa che cosa ci ricaverà!>>
<<Che cosa? Ma Renzo, cosa mi ha combinato? Con quei tacchi nel ’44 avevo dato un gran calcio ad un tedesco!>>
<<Ma signora Ode, non era proprio possibile…>>
<<Come non era possibile? L’ho preso e buttato fuori dal mio pagliaio. Altro che no! Più o meno come facevo con le zolle di terra nei terreni da semina. Era talmente ubriaco che credeva di essere alleato degli americani! Confusione che abbiamo avuto in tanti all’epoca…>>
<<Volevo dire che non era possibile tenere i tacchi più a lungo. Si erano consumati troppo>>
<<Ma se erano buonissimi>>
<<Ma signora Ode, con quei tacchi lei pendeva come la torre di Pisa, non se lo ricorda?>>
<<Mi ricordo benissimo>>
<<Insomma, che devo fare?>>
<<I miei tacchi rivorrei…>>
<<Signora Ode…beh insomma, io vado e glieli riporto, ma se pensa di insegnarmi come si fa il mio mestiere, bah…faccia un po’ come vuole! Vedrà lei quello ci farà!>>.
Il calzolaio ora parlava con foga, senza virgole e pieno di accenti.
<<Vada a chiederlo alla signora Lina>>gli suggerì ironicamente l’anziana signora.
<<Ma forse aveva ragione?>>accennai un po’ timidamente io, non appena fu uscito.
<<Certo che aveva ragione>>mi rispose lei.
Mi sentii importuna come un’indiscrezione.
<<Per questo ci discuto. Così capisce che la ragione non sempre serve. E poi lui ha bisogno di sentirsi utile perché non ha nessuno. Vedrai che il suo orgoglio non ne avrà risentito. Con mio marito ci discutevo ogni cinque secondi…lo sai come finiva? Che lui aveva ragione e che poi si faceva quello che volevo io>>.
Ora aveva gli occhi come nidi di rondine, i ricordi vi giacevano accovacciati, come covati dall’età.
La signora Lina abitava di fronte. Esponeva al davanzale cestelli di piccoli fiori a grappolo. Glieli aveva disposti lei con precisione. Quando tra il bianco delle tendine si individuava un piccolo triangolo nero, la si poteva immaginare lì da ore ad osservare i movimenti in strada o nei negozi di fronte.
Il calzolaio arrivò nel momento in cui una delle due tendine si stava spostando. La signora Lina si era appena sporta sul davanzale a civettare con il marito.
<<Ehi, raccogli un po’ quella locandina da terra. Sì quella, bravo. E’ proprio il film che volevo andare a vedere ieri>>.
Il calzolaio non aveva tempo da perdere, ma la signora Lina continuava.
<<Perché non mi ci porti eh?>>.
Aveva i capelli neri come la pece, con un fiocco rosso a tenerli su per gioco, ma erano tinti grossolanamente.
<<Aspettiamo che lo facciano in tv>>le rispose il marito.
<<Ma prima che lo fanno in televisione chissà il tempo che passa…>>.
Era un’adolescente la signora Lina. Un’adolescente di settantacinque anni. Il marito annuì. Il calzolaio poté finalmente suonare il campanello e salire da lei.
Mi attardai sulla soglia a sbirciare un uomo che gettava sacchi vari di spazzatura, sbuffando, un po’ compreso di sé. Ma il calzolaio era già di ritorno.
<<Abbiamo risolto tutto, Signora Ode. La signora Lina gradiva un paio di suole nuovissime, in cambio mi ha ridato i suoi vecchi tacchi>>.
I suoi occhiali ora erano adagiati in punta di naso.
<<Devo sempre risolverle tutto io, ma ho piacere che lei cammini bene. La terra sa… non è mica gentile come lei>>.
<<Grazie>>.
L’anziana signora gli diede un bacio affettuoso sull’avambraccio. Era la massima escursione che poteva permettersi in altezza.
Abbandonai quella scena un po’ come si fa con l’introspezione, momentaneamente per poi ritornarvi.
Aprii i battenti della finestra e mi sporsi a guardare fuori. Alcuni petali di rosa erano caduti in strada con la pioggia, e bagnati rimanevano ora attaccati all’asfalto. I riflessi del sole li rendevano luminosi, luminosi come petali di stelle.
Ma più che una strada sembrava di stare in un condominio. Un uomo ad una finestra dipingeva una ringhiera, un altro in strada dipingeva un’aringa, un’aringa imbalsamata.
<<E’ per l’esposizione ittica>>mi disse Aldo.
Aldo era il pescivendolo. Da ragazzo voleva fare il pescatore. Era uno di quei mestieri che da sempre gli erano sembrati esotici, ma la distanza massima dalla costa a cui lo faceva arrivare la sua nausea era di circa dieci metri (con il vento a favore…). Perciò il pesce lo vendeva solamente.
<<Ma gli è rimasto il senso artistico>>diceva ammiccando lei.
Alle sei ogni pomeriggio, prima di andare a dormire, passava da noi.
<<Signora Ode, come stiamo oggi?>>
<<Bene Aldo mio. Ma fatti vedere un po’…Ti sei asciugato troppo. Sei diventato come le tue acciughe. Ti devi riposare un po’. Tu lavori troppo>>.
<<E se mi riposo alle mie acciughe chi ci pensa?>>
<<Ci pensano da sole. Sono mica animali scemi>>.
Lui se la guardò con il naso all’insù. In procinto di parlare sembrava sempre che gli si arrossasse.
<<Le ho portato una stiancia>>.
La stiancia era una pianta palustre, apparteneva alle Tifacee. Era caratterizzata da un rizoma strisciante e da lunghe foglie lineari che venivano usate per lavori di intreccio. Il fusto orizzontale, con squame in luogo delle foglie, costituiva un organo di riserva perché da esso si staccavano le radici.
<<Non l’avrai mica presa alla riserva, vero?>>
<<Beh…era un’occasione. E l’occasione fa l’uomo ladro signora Ode…che non lo sa?>>
<<Sì, ma il ladro è sempre in cerca di un occasione…>>.
La signora Ode prese la pianta e con il corpo piegato, un po’ rivolto su se stesso, la sistemò tra una petunia dai fiori viola ed un gazzarro. Poi tornò da noi con un passo lento un po’ ondeggiante, come scosso da raffiche di vento. Era il vento dell’età.
Il pescivendolo ci salutò. E salendo quei due scalini che lo separavano dal livello del marciapiede, sembrò che emergesse sopraccoperta dal fondo di una stiva.
Nello stesso momento si infilò nel negozio un vecchio dalla complessione debole e delicata. Aveva un organetto a tracollo e un gatto al seguito. Stava in silenzio in un atteggiamento di fiduciosa aspettativa. Quando l’anziana signora lo ebbe squadrato con sguardo sollecitatore, lui fece un passetto in avanti e le chiese:<<Me lo darebbe un fiore da mettere vicino al mio organetto? Oggi è il nostro anniversario…>>.
<<Il vostro anniversario? Ah…bene, ma allora siete fidanzati! E le ha già chiesto la mano?>>.
<<No, ma credo che gliela chiederò un giorno>>.
Il vecchio estorse quell’espressione giudiziosa da sé e fece un nuovo passetto in avanti, accettando da lei una piccola rosa. Poi si sottrasse ai nostri sguardi, fissò la rosa all’estremità della tracolla ed uscì suonando una melodia malinconica.
E accadde tutto in un istante. Un istante in cui non capii più niente. La signora Ode vacillò cessando di parlare, senza un’attività secondaria del mento, né un movimento d’accompagnamento. Mi resi conto di guardarla a fondo. La sua testa si afflosciò senza direzione, mentre il corpo restò immobile. Corsi da lei per sorreggerla.
<<Renzo! Aldo!>>gridai a gran voce, mentre la adagiavo vicino ad una felce enorme, ma mi resi subito conto che le avrebbe tolto l’ossigeno e che io non ero più in grado di sostenerla.
<<Fate presto! Correte!>>.
Non ricordo bene. Ricordo solo che il suo corpo era pesantissimo e che ormai se ne stava andando.
<<Qualcuno mi aiuti!>>.
La legge del Signore era venuta a prenderla, avrebbe detto lei, se avesse potuto.
<<Ma cosa urli…?>>disse riprendendosi improvvisamente, con una voce calma, mentre si portava l’indice a un orecchio per suggerirmi un volume più adeguato. <<Guarda che ci sento benissimo…>>.
<<Tutto bene?>>le chiesi io in fibrillazione.
<<Sì…è tutta colpa della patata…>>.
Due secondi dopo le calosce del pescivendolo avevano invaso il negozio. Dietro di lui il fiato pesante del calzolaio.
<<Che succede?>>domandò Aldo con gli occhi lustri.
<<Signora Ode, che succede?>>incalzò l’altro, come alla proda del capezzale.
<<E che è ‘sta fanfara. Calmatevi un po’ tutti.>>.
A un tratto divenne come una bambina tra due angeli, indecisa a quale dei due chiedere.
<<Ciò che mi uccide non sono le cose che perdo, ma le cose che ritrovo. Non so mai dove metterle. Questa patata deve stare nel suo vaso, ma non ricordo più in quale>>.
I due si guardarono interdetti. Era come se le avessero tolto un quadro dalle pareti della sua memoria, e lo spazio sottostante lasciato ora libero era più chiaro di tutto il resto.
Dopo quella parziale e momentanea afasia l’anziana signora si mosse, sporgendo la testa come da sotto una coperta quando fa molto freddo.
I due invece mi squadrarono. Erano giunti sin lì solo per una patata…io d’altronde ero intenta a raccogliere i miei chicchi d’orzo, che nell’agitazione del momento si erano sparsi tutti sul pavimento.
Dopo che se ne furono andati, lei affondò la sua mano grinzosa sulla mia gamba accovacciata.
<<Mi raccomando…>>mi disse<<un giorno, ricordami ai tuoi ricordi>>.
I suoi occhi erano sospesi sul mio silenzio.
L’aria dolce di maggio avvolgeva tutto.
La felce trasudava piccole goccioline, per effetto del sole, una sorta di sudorazione, come avviene per noi.
<<A che ora vai via stasera?>>
<<Alle sette e mezza. Mi viene a prendere mamma con la macchina>>. Questa mia frase accrebbe in lei la certezza che sarebbe rimasta sola.
<<Ah…eccola che arriva proprio ora>>dissi io a malincuore.
Mia madre entrò e mi diede un bacio.
<<Ciao mamma>>disse rivolta all’anziana signora<<Ti ha fatto perdere tempo come al solito o ti ha aiutata almeno un po’?>>
<<Sì, siamo state bene. Abbiamo fatto un sacco di cose. Ci siamo divertite proprio>>e sorrise, trattenendo qualche piega del viso come a tenere un segreto.
Sei mesi dopo quel giorno, io avevo un occhio nero e un bernoccolo in fronte. Erano dovuti entrambi al recipiente contenente l’insetticida al tabacco. Dall’alta mensola dove l’avevo lasciato a riposare, il recipiente aveva poco apprezzato la mia fiducia nella gravità e mi aveva ripagata cadendomi direttamente sulla testa. Gli scarsi meriti della mia destrezza e la mia assenza di motivazioni avevano fatto il resto. Il risultato era quella piccola protuberanza cranica…A parte questo il negozio andava bene. C’era sempre qualche ricorrenza da festeggiare con la vita dei fiori. Finalmente avevo imparato a fare le talee e le rose erano divenute una gradevole presenza in molti balconi del quartiere.
<<Hai visto mamma quanta acqua hanno preso quei tageti?>>
<<Hanno riacquistato vigore sì, però stai un po’ ferma adesso>>mi disse premendo lievemente una patata sul mio bernoccolo.
<<Questa patata non dovrebbe stare nel vaso?>>
<<Beh…questo bisognerebbe chiederlo a tua nonna, lei e le sue patate…si sarebbe fatta proprio una bella risata davanti al tuo bernoccolo. Peccato che non ci sia più…>>.
Io sfregai tra le dita i miei chicchi d’orzo.
Ma era proprio vero che non c’era più?