Numero 57 – Dicembre 2019

Bidibibodibibù

di Chiara Lecito

C’era una volta un Regno in cui sogni erano desideri e la realtà era un incubo.
In questo Regno viveva un Granduca, Venceslao, alto segretario di corte, che in quel momento osservava una ragazza impegnata a fargli la riverenza. Il Granduca teneva il gomito appoggiato a un bracciolo della poltrona, la caviglia sul ginocchio, il mento sostenuto dalla mano aperta. Era una posizione informale e scomposta, che lo aiutava a scaricare la stanchezza e a ribadire come funzionavano le cose: lui poteva stare seduto, lui aveva una posizione privilegiata, lui poteva fregarsene delle formalità.

La ragazza no.
“Quindi il vostro nome è Zezolla”
“Sì, signor granduca”
“Diamine, Cenerentola suona quasi meglio”
La ragazza non fece una piega, e s’inchinò di nuovo.
“Chiamatemi come più vi aggrada, signor granduca”
Il Granduca tacque, perché sapeva che il potere è nelle mani di chi parla meno: i discorsi pomposi vanno bene per il popolino, ma sono le frasi asciutte e le domande a cui è impossibile non rispondere la sostanza dell’autorità.

“Regina Zezolla suona austero e potente, Regina Cenerentola è aggraziato e gentile. Voi cosa preferite?”
“Quello che più vi aggrada, signor Granduca”
E, per la prima volta da che l’aveva vista, la ragazza sorrise.

***

Venceslao era soltanto uno scrivano quando la Regina ebbe la crisi di nervi che la condusse alla morte.
Il tutto avvenne la mattina dopo Natale, quando, da una porta socchiusa, la Regina vide il Re che si faceva sodomizzare dalla sua damigella di compagnia. La Regina, allora, scese alla foresteria, prese un fucile, un bel po’ di proiettili, e vagò per il castello, falciando ogni essere umano che le si presentasse davanti. Una volta giunta alle stanze del consorte, accoppò la  damigella e si sparò in bocca.
Il Re tenne il lutto il minimo indispensabile, per poi ricominciare ad inseguire qualunque cosa avesse una vaga parvenza di fica, fino a che non si prese la sifilide e rincoglionì; in quel momento Venceslao venne nominato alto segretario di corte, e gli fu dato il Granducato di Grestonia, un fazzoletto di terra paludoso e maleodorante in culo al Regno. Al novello Granduca era chiaro che la sua nomina era stata approvata perché lui, sveglio e capace figlio illegittimo (si vociferava) di sua maestà e di una istitutrice, non potesse trarre profitto dal suo granducato, e pertanto si comportasse da funzionario accondiscendente che sapeva stare al suo posto, ovvero assecondare le bizze dei potenti del momento impedendo loro di fare troppi danni.
Una vita tranquilla, insomma che a Venceslao sarebbe andata benissimo, senonché la vita aveva deciso diversamente.

***

Venceslao fece accomodare la ragazza, sempre tenendola d’occhio. Bella era bella, il portamento era elegante, le mani, nonostante la vita che aveva condotto fino ad allora, non troppo rovinate; i piedini, soprattutto, erano lisci e perfetti; le scarpine di cristallo, uguali a quelle che aveva indossato al ballo, le stavano alla perfezione, e valorizzavano la delicatezza delle dita e della caviglia. Venceslao, a differenza del Principe, non era un patito per questo genere di cose, ma doveva ammettere che immaginarsi la ragazza a inginocchiata, a piedi nudi, a pulire il pavimento con un abitino da lavoro di quelli che potevano essere strappati via con un soffio gli procurava un prurito al bassoventre quasi capace di fargli perdere lucidità.
La ragazza, la futura principessa, parve accorgersene, e tirò fuori una smorfietta ironica e maliziosa che strideva in maniera perturbante con lo sguardo docile e mansueto. Il Granduca ne dedusse, con un certo divertito sgomento, che la ragazza era perfettamente consapevole delle sue attrattive, e che, in qualche modo misterioso, era stata educata a sedurre; Venceslao tuttavia non si scompose, deciso a ribadirle le gerarchie.
“Riuscire a calzare una scarpetta, per quanto scomoda e raffinata, era l’unica credenziale che il vostro futuro marito richiedeva. Capirete che da una Principessa, e da una Regina, ci si aspetta ben altro”
“Naturalmente, signor Granduca”
L’uomo ebbe l’impressione che la ragazza non capisse sul serio ciò di cui stavano parlando; o, meglio, che non ne fosse minimamente interessata.
“Voglio essere chiaro. L’interesse che il Principe nutre nei vostri riguardi non è altro che un capriccio dettato dalle sue inclinazioni. Non è il primo, e dubito che sarà l’ultimo”
“Lo immagino, signor Granduca, e per me non è una questione importante. Per quanto in disgrazia, sono di nobili natali, e, senza falsa modestia, credo di essere in grado di essere una buona regnante”
La ragazza aveva fatto questo breve discorso con gli occhi bassi; fece una breve pausa, poi alzò lo sguardo e lo puntò dritto sul Granduca.
“E poi, in caso di difficoltà, posso sempre contare sulla mia madrina, la Fata Smemorina, che vi manda tanti cari saluti”
Venceslao trattenne il fiato: questa volta, mantenere la sua posa gli richiese un certo sforzo.

***

Venceslao aveva visto la Fata Smemorina una sola volta, quando permise a lei e ai suoi correligionari, in cambio di un modico affitto, di usufruire dei suoi terreni per costruirvi dei luoghi di culto; era un periodo in cui accrocchi mistici e settucole spuntavano come funghi, e a Venceslao non pareva vero che il suo granducato potesse fruttargli una qualche rendita, anche se questa superava di poco le tasse che doveva al Regno per il terreno.
“Vi ringrazio per la disponibilità” disse la fata Smemorina.
“Figuratevi, signora, sono a vostra disposizione per qualunque cosa” rispose lui.
“Vi prendo in parola” concluse la Fata, e al Granduca parve di scorgere una nota sinistra nel sorriso con cui la vecchia lo salutò; e se ne sarebbe anche preoccupato, ma a corte non era scoppiata un’emergenza: il Re, ormai incapace di regnare, si era incaponito a volere un nipotino, e il Principe, di conseguenza, si sarebbe dovuto sposare.
Per fronteggiare il problema, fu indetta una riunione segreta tra i più alti esponenti della nobiltà e i segretari più influenti, e mentre questi bisticciavano tra di loro Venceslao si lambiccò il cervello per trovare una soluzione che non mettesse a rischio la sua posizione. Che la sposa appartenesse a un altro regno era cosa da escludere, perché i nemici da tenere a bada si sarebbero spalmati in due corti invece di una; allo stesso modo, era da evitare una sposa appartenente all’alta nobiltà, perché i nobili erano notoriamente poveri in canna e indebitati per generazioni e inoltre la famiglia della sposa avrebbe acquisito un maggior potere rispetto alle altre, avrebbe magari avanzato pretese, e questo avrebbe potuto creargli problemi; per lo stesso motivo la futura sposa non poteva essere figlia di un funzionario. Una borghese? Poteva essere un’idea, anche per calmare il popolo schiacciato dalle tasse. E poi magari avrebbe portato una dote interessante…
“Un ballo!” dichiarò Venceslao a voce altissima.
Gli altri tacquero.
“Organizzeremo in ballo e vi inviteremo tutte le ragazze del regno. Tutte quante, dalle duchesse alle contadine. E in quell’occasione, con il benestare della corte, naturalmente, il Principe sceglierà sua moglie”

***

Venceslao era sicuro che la ragazza avesse notato il suo turbamento.
“Mia madre era una sua protetta…” sospirò lei.
“Ma la Smemorina non ha fatto nulla contro la sua bronchite…”
“Mia madre non è morta a causa della bronchite. Pare che le medicine che le somministrava mio padre le abbiano peggiorato il male. Che mistero”
Cenerentola, o Zezolla, fece uscire un sospiro venato di sarcasmo.
Il Granduca accavallò le gambe, poi le scavallò, poi le riaccavallò di nuovo.
La ragazza lo guardò con occhi comprensivi.
“Mio caro Granduca, voi credete che il castello in cui vivete sia il luogo dove si decidono le sorti del regno, o addirittura del mondo; ovviamente non è così”
L’altro cercò di rilassarsi sulla sua poltrona, ma gli sembrava di essere seduto su uno sgabello traballante sull’orlo di un abisso: si sentiva a disagio, inquieto, quasi impaurito, e il tentativo di non apparire tale era un ulteriore martirio per i suoi nervi già provati dalla ricerca della futura sposa.
La ragazza, da parte sua, parlava con un tono meditato, la voce bassissima e sicura.
“La direzione del mondo viene discussa in posti bui, oscuri, signor Granduca, inaccessibili ai più. Posti che necessitano di cura e protezione, perché potrebbero essere incapaci di accogliere le potenze che li scelgono come dimora. Posti forgiati dalla disperazione degli orfani, delle prostitute, della vera nobiltà ridotta a fare da sguattera a una borghesotta ignorante e sguaiata, accompagnata da due figlie molto stupide ancor prima che molto brutte”
La ragazza tacque, e abbassò lo sguardo.
Nemmeno Venceslao aprì bocca.
Poi la ragazza tornò a guardarlo.
“Di figli negletti che dovrebbero indossare una corona che invece si poserà sul capo di incapaci, mentre loro vagano per il regno a infilare scarpine di cristallo alle fanciulle”

***

L’organizzazione del ballo fu sontuosa, tutto si svolse da etichetta: il Principe parlò con ogni ragazza che gli fu messa davanti, fu cortese e squisito; il suo sguardo scivolava sempre alle caviglie, ma con discrezione; tutti gli ospiti cercavano di esaltare i pregi delle loro favorite, ma non scoppiarono liti, o scandali, e quindi l’evento fu, nel complesso, molto piacevole per tutti. Venceslao rifletté, con una sorta di tenerezza che non gli era abituale, che forse, per alcune di quelle ragazze, quel ballo sarebbe stato forse il ricordo più bello della loro vita, e si chiese quante delle giovani non appartenenti alla nobiltà fossero andate alla festa solo per divertirsi, senza mettere in conto la possibilità di diventare principesse. Una di loro, in particolar modo, sembrava mangiare con gli occhi tutta la sala da ballo. Era una biondina piuttosto graziosa, con un abito azzurro dal taglio semplice ma dalle stoffe talmente lucide che sembravano splendere di luce propria, e camminava con passo aggraziato e vorace, rivelando delle scarpette di cristallo anch’esse brillanti, che facevano intuire la delicata forma del piede nascondendolo però sotto i riflessi.
Lo sguardo di Venceslao si diresse subito verso il Principe, che in quel momento era da solo; e naturalmente questi aveva notato la ragazza e le sue scarpe, e lei stava andando proprio verso di lui, e Venceslao si accostò con discrezione, cercando con gli occhi colui che avrebbe dovuto introdurre la ragazza al Principe. Non c’era nessuno, la ragazza era venuta da sola, e il Principe non si staccò più da lei, mentre Venceslao vagava per la sala osservando tutti, e cercando di capire se qualcuno sapesse chi fosse.

***

La ragazza parlava con tono suadente e ipnotico, e il Granduca ascoltava, beveva le sue parole con lo stesso incanto che un bambino provava per la sua favola preferita, permettendole di condurre le sue orecchie e la sua mente in luoghi che mai sarebbe riuscito a concepire, terribili e affascinanti nello stesso tempo.

“…alcuni Lo chiamano l’Infero, altri L’Oscuro dai Mille Tentacoli, altri ancora Cthulhu; noi ci riveriamo a Lui come al Profondissimo…”

Venceslao obbiettò più per dovere che per convinzione.

“Potrei farvi imprigionare e processare, per ciò che mi state dicendo”
“Ma non lo farete, e non solo perché gli avete consacrato le vostre terre e vi siete messo a disposizione della Fata Smemorina, ma soprattutto perché anche voi appartenete alle Profondità, ve lo leggo negli occhi, leggo il distacco, il disprezzo per tutto ciò che è superficie, per ciò che sembra luce, per ciò che sembra giusto e corretto ma che voi, Venceslao, sapete benissimo che non lo è. La Smemorina vi ha riconosciuto subito, e vi ha scelto, e vi ha condotto a me”
La ragazza si protese verso di lui e gli afferrò la mano, con dolcezza e decisione, mentre Venceslao si accertò che nessuno stesse osservando.
E tenne la sua mano tra quelle di lei.
“Vuoi aiutarmi a regnare come voglio regnare, caro Venceslao? Mi aiuterai a far emergere le Profondità?”
“Lo voglio” rispose lui, con un filo di voce e il cuore in fiamme.

E nel dir questo tremava, ma senza avere paura.

***

Quello che successe dopo la fuga della ragazza, a mezzanotte, fu la follia: il principe che smaniava, i nobili che avevano perso il loro ascendente, Venceslao costretto a bussare a ogni porta del regno con una scarpa in mano. Da parte delle ragazze piovevano profferte di ogni tipo, disponibilità di cui Venceslao approfittò con prudenza: le figlie della più alta nobiltà tendevano ad avere le piattole se non qualche altra malattia più debilitante; e tutte volevano provare quella dannata scarpa, anche quelle che chiaramente non avevano il piede adatto.

Bussare.
Presentarsi.
Inginocchiarsi.
Infilare la scarpa.
Ricominciare.

Dopo solo qualche ora a Venceslao scoppiava la testa, e nella carrozza che lo conduceva da una strada all’altra, da un quartiere all’altro, da una porta all’altra, si concesse anche qualche lacrima di sconforto. Odiava il Principe, che aveva minacciato di ucciderlo a frustate qualora non avesse trovato la ragazza, odiava le fanciulle che gli facevano perdere tempo, odiava i genitori delle fanciulle che lo obbligavano letteralmente a perquisire le loro case perché gli nascondevano le servette, odiava la sua vita.
E quando poi, dopo tre giorni di ricerche pressoché ininterrotte, riuscì a trovare la casa giusta, fu il delirio: le due fanciulle arrivarono ad amputarsi le dita dei piedi per calzare quella maledetta scarpina, nella baruffa la fecero a pezzi, e fu allora che comparve la ragazza che fortunosamente aveva l’altra.

Venceslao s’inginocchiò.
Tutti ammutolirono.
La scarpetta calzava.
Il Granduca svenne.

***

La Principessa camminava verso l’altare con passo pudico e sicuro e la testa leggermente china; il Principe la guardava incantato, il re fece uscire un risolino.
Venceslao indossava un abito di gala che gli stava a pennello, e sorvegliava che tutto andasse bene.
Era stato un periodo faticoso, la vicenda era confusa, ma le prospettive erano incredibili, e abissali.
Con la massima discrezione, la Principessa, dopo essersi inginocchiata sull’altare, si toccò il ventre e gli strizzò l’occhio.
E il Granduca sorrise, felice e contento.



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