Numero 56 – Ottobre/Novembre 2019

Il profumo del tempo

di Maurizio Melani 

 

Da quando avevo trasferito il computer dalla mia camera al garage, i freddi inverni erano diventati ancora più rigidi.

D’altronde era anche vero che le estati passate là sotto a suonare, ad ascoltare musica, a giocare e a scrivere erano diventate più fresche e più sopportabili. Sembrava quasi che fosse stato installato un condizionatore d’aria.

Ma ora non era estate. E non era caldo.

Si era in pieno novembre. Col passare dei giorni la luce diurna si era ridotta, così come la temperatura, che giorno dopo giorno, andava scemando. Anche la voglia di stare a smanettare al PC era venuta meno, complice il gelo incipiente e la fastidiosa e persistente umidità.

Erano circa due anni che papà era venuto a mancare, e quella casa stava diventando troppo grande, troppo silenziosa e troppo vuota per me, mia madre e mia sorella. Ci sentivamo come prigionieri in una gabbia dorata. Reclusi. Ora l’edificio lasciava solo intravedere la bellezza e la maestosità che possedeva un tempo. Come un cadavere in decomposizione, si stava sgretolando sotto i colpi incessanti dello scorrere inesorabile del tempo.

Il giardino, complice l’incuria, era oramai divenuto preda di bande di gatti randagi, che rivendicavano il possesso del territorio nelle lunghe scorribande notturne a caccia di roditori, oppure si affilavano gli artigli azzuffandosi e contendendosi qualche rara gatta in calore. Da ogni angolo arrivava forte l’odore di demarcazione territoriale felina. Mani amiche avevano spostato la vecchia falciatrice elettrica che ora giaceva abbandonata e senza vita all’ombra di un gruppo di cespugli. Un intrico irregolare di arbusti, erba ed alberi rendeva difficile anche il passaggio alla parte superiore del giardino. L’intonaco in alcuni punti si stava rigonfiando. Non era raro trovare al mattino, un po’ ovunque, pezzi di calcinacci caduti sul perimetro dei muri esterni a causa delle sferzate di tramontana che, in alcune giornate spirava gelida, tagliente e violenta dal nord. Le tegole del tetto, dopo anni di alternanza freddo/caldo, presentavano ampie e preoccupanti fenditure. All’interno la situazione non era delle migliori, in quanto la casa non era stata costruita con criteri da abitazione moderna. Faceva piuttosto freddo e l’umidità si stava facendo largo sui muri come una mostruosa pianta rampicante. Il riscaldamento non era sufficiente a scaldare un ambiente enorme come quello, e appena lo spegnevi, fosse stato acceso un’ora o anche un giorno intero, faceva ripiombare quasi immediatamente le stanze, nella morsa del freddo più crudele.

Mi arrotolai una sigaretta e decisi che l’avrei accesa sulla porta del garage, in quanto, già da un po’ di tempo, avevo preso l’abitudine di non fumare più davanti al computer. Sembrava quasi che il catrame e la nicotina fossero attratti più dal mio monitor 24 pollici che dai miei polmoni.

Una volta spento tutto e spenta la luce nella stanza, attraversai la porta che dalla cantinetta immetteva nel garage. Allungai la mano per arrivare all’interruttore della luce al neon, ma fui costretto a bloccarmi per un istante. Alle mie narici arrivò chiaro, netto e distinto, un profumo di carne alla griglia. Ero come impietrito nel buio quasi completo. La fioca luce dell’unico lampione stradale filtrava dai vetri sporchi della porta della rimessa. I rami d’ulivo che si agitavano davanti al lampione producevano spettrali, fantasmagorici giochi di luce sull’asfalto bagnato.

Non so quantificare quanto tempo rimasi immobile nell’oscurità. Dieci? Venti? Trenta secondi?

Appena l’odore si dissolse, quasi con la stessa rapidità con cui si era manifestato, mi precipitai verso l’uscita del garage, afferrai la grande maniglia di metallo e aprì con violenza il pesante portone di legno. Fuori era buio pesto. Faceva freddo. Si era alzato il vento e una pioggia sottile graffiava l’aria. Nessun rumore. Nessuna voce. Nessun segno di vita. Tutto il vicinato era immerso nel più completo silenzio. Come poteva essere possibile tutto ciò?

Chi poteva cucinare a quell’ora tarda e con quel tempo da lupi?  E come poteva l’odore essere penetrato attraverso la porta chiusa? Rimasi a pensare a tutto ciò per alcuni istanti come stordito. Inebetito. Richiusa la porta alle mie spalle, una ridda di pensieri, come frammenti colorati di un caleidoscopio, prendevano forma nel mio cervello. Le tempie pulsavano sempre più velocemente e potevo quasi sentire le vene sul collo pompare sangue e adrenalina.

Poi d’improvviso, prima timidamente, poi sempre con più forza, con più veemenza, mi raggiunse il ricordo di mio padre. Come sole che filtra nella nebbia. Come lama di luce che squarcia le tenebre, tutto mi fu chiaro e lampante.

Mi tornarono subito alla mente le domeniche durante i caldi mesi estivi, quando uscito di buon’ora, rincasava dal suo giro mattutino. Una puntatina al bar dai vecchi amici. Il solito caffè e la solita partita a carte. La sosta all’autolavaggio per il consueto servizio alla sua Alfa. Poi, un salto all’edicola per il quotidiano e l’immancabile giornale sportivo. Il pacchetto delle paste del bar Las Vegas in mano. Rientrava verso le undici e trenta, e presa la carne dal congelatore in garage, si metteva davanti alla piccola griglia con ruote, posizionata in un angolo appartato del giardino. Sistemava con cura le bistecche sulla brace calda ancora scoppiettante, assieme alle fette di pane da abbrustolire. Si armava di forchettone, di piatto, di sale e pepe. Ogni tanto dava una rapida occhiata alle pagine rosa della Gazzetta dello Sport, che aveva anche funzione di ventaglio per ravvivare il fuoco.

Ebbene, quella sera di novembre, non pensai più a niente. Mi abbandonai al flusso dei ricordi come risucchiato in un vortice impetuoso di colori, sapori, odori, abitudini dimenticate e immagini polverose e sbiadite. Chiusi gli occhi per un attimo e assaporai, per un lungo, interminabile istante, il profumo del tempo che fu.



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