Manuale di istruzioni per non schiantarsi contro i muri
di Valentina Di Cataldo
È arrivata l’estate, Marianna l’ha capito perché è rimasta sola. Succede tutti gli anni, appena finisce la scuola gli altri bambini del condominio vanno a stare da nonni zii cugini o si rintanano in casa a giocare col telefono. Fuori fa un caldo che uno rischia di sciogliersi e la piscina costa uno sproposito, sua mamma lo dice sempre, Marianna vive in un quartiere dove non ci sono alternative. L’ha detto anche il telegiornale, qui in periferia non c’è niente da fare allora quest’estate faranno un progetto artistico con delle installazioni per recuperare il valore dei giochi sani di una volta. Marianna non ha idea di cosa siano i giochi sani di una volta, però in quartiere veramente si possono fare un sacco di cose, per esempio si può andare fino al sottopasso dei graffiti, oppure si può spiare dietro i palazzi a caccia di indizi come a chilavìsto, o anche si può stare alle panchine, però solo i più grandi come suo fratello Pietro che ha quasi otto anni, Marianna le panchine ancora no, sua mamma vuole che resti vicino a casa almeno può controllarla dalla finestra. Marianna ha quattro anni, tre mesi e nove giorni. Fino a ieri è stata solo la somma delle sue sbucciature, gli aloni di sporcizia dietro le unghie e le cicatrici delle croste che adora strapparsi via millimetro per millimetro sull’orlo tra il piacere e il dolore, con il gusto di quel prurito che le viene quando sono quasi pronte. Alle panchine vorrebbe andarci lo stesso, ha provato a convincere su fratello Pietro ma lui le ha detto che è troppo piccola e non capisce niente, quando avrà otto anni come lui magari la porta. Però non è sicuro, vediamo quando ci arriva. Marianna ha contato il tempo che le manca e sono un sacco di giorni, così ha messo il muso e quando riesce gli tira delle stecche potentissime per vendicarsi. Marianna ha quattro anni tre mesi e nove giorni ma non vuol dire che è deficiente, l’ha capito benissimo che suo fratello Pietro alle panchine non ce la vuole portare.
Nel frattempo deve accontentarsi. Adesso che anche Margherita è partita, a lei restano i giochi nel parchetto sotto casa, anche se sono rotti. Il parchetto non è molto di più che l’ultimo lato di un parcheggio a imbuto con le auto buttate di traverso, un rettangolo irregolare di asfalto e muri sbiaditi decisamente più vecchi di Marianna, con in fondo un’aiuola di verde spinoso e alcuni monconi di plastica e gomma colorata. A sua madre non piace che Marianna stia da sola al parchetto e nemmeno che si arrampichi, Marianna non capisce, sua madre non vuole che si allontani però non vuole neanche che resti troppo tra i piedi, mi sa. Comunque Marianna in casa proprio non ci sa stare, a lei il parchetto piace e poi adesso che è estate finalmente può giocare come le pare, non c’è nessuno a rovinarle le storie che inventa, può decidere di arrampicarsi o di volare come un’aquila, o anche di costruire un ponte per le formiche col bastoncino del gelato senza che qualcuno le urli addosso.
Sua madre ha paura che collassi, le ha limitato gli orari consentiti, mattina fino alle dodici e pomeriggio dalle cinque alle seiemmezzo. Marianna fa finta di confondersi e ci va lo stesso quando le pare. È una bambina indipendente, le piace prendersi i suoi spazi. Sfrutta ogni minuto di questa libertà inscatolata a distanza breve. La mattina si alza, fa colazione con il latte e i biscotti taroccati, va in bagno, apre al massimo il rubinetto della vasca e rovescia sul fondo un filo bavoso di badedas alla fragola confezione famiglia. Per fare prima, intanto che aspetta, afferra lo spazzolino da denti, spalma in giro un po’ di dentifricio, lascia passare un paio di minuti e poi rimette tutto com’era, chiude bene il rubinetto, si lega i capelli arruffati in una coda storta e va in cameretta a prepararsi. Le croste devono essere secche per grattarle via, sarebbe un gran peccato inumidirle a questo punto. Marianna sa infilarsi i vestiti da sola ed è perfettamente in grado di riconoscere un abbinamento calzini-maglietta ben riuscito da uno intollerabile. A volte sua madre si impunta per farle mettere qualcosa di sbagliato, ma Marianna non si lascia convincere, si butta a terra e fa opposizione passiva, alla fine esce sempre con la sua maglietta preferita, i pantaloncini strappati e le scarpe da tennis bianche senza stringhe che erano di suo fratello Pietro.
– Sei conciata una randagia – le dice sua mamma quando la vede, e storce il naso per l’odore di sporcizia accumulata, ma Marianna si piace così, con la maglietta gialla sbiadita appesantita dal sudore e le scarpe da maschiaccio, è uno spirito libero, non c’è verso di farle cambiare idea, ha i capelli lunghi da femmina ma per il resto non è una a cui manchi il fegato.
Stamattina quando è scesa al parchetto c’era il signore dei colori, disegnava delle linee per terra. Marianna non conosce bene i giochi sani di una volta, però ha capito che quella è una versione più precisa del gioco campana o gioco del mondo, come lo chiama la mamma di Margherita, che è sudamericana, che è un gioco a cui in quartiere si gioca poco però ogni tanto è capitato che qualcuno dei più grandi rubasse un rimasuglio di gessetto da scuola, di quelli storti che ti grattugiano le dita contro l’asfalto, e disegnasse le caselle irregolari da saltare a piedi pari o su una gamba sola, per farci giocare i piccoli, almeno non rompono. Suo fratello Pietro la prende in giro, però a Marianna il gioco campana o gioco del mondo un po’ piace. E poi adesso non c’è nessuno a dirle cosa deve o non deve fare. Marianna sorride al signore dei colori, pregusta già il momento quando oggi pomeriggio potrà venire a giocare per conto suo al gioco campana o gioco del mondo che lui sta costruendo proprio per lei proprio sotto casa, che poi è ancora più bello di quelli normali, si vede subito, ha un sacco di colori. Il signore dei colori si accorge di lei e la guarda con una concentrazione particolare, poi si rimette a disegnare. Marianna rimane incantata a guardare le linee diventare caselle, i numeri che per adesso sa solo intuire prendere forma uno dopo l’altro, bellissimi, pieni di sfumature. Dev’essere questo il progetto artistico che diceva il telegiornale. Il signore dei colori è molto bravo.
Quando la madre la chiama dalla finestra per il pranzo, Marianna fa finta di non sentirla. Due minuti, pensa, solo il tempo che finisce. Sua mamma le grida che conta fino a cinque e Marianna quel tono lo conosce fin troppo bene e poi il signore dei colori la guarda di nuovo e Marianna capisce che è meglio se va. Almeno quando torna trova tutto pronto.
Marianna pranza più veloce che può, non vede l’ora di essere la prima a giocare al suo gioco campana o gioco del mondo, pensa, il più bello di tutto il quartiere, il più bello di tutta la città. Marianna aspetta le due, le tre, le quattro, alle quattro e venti non sta più nella pelle, imbroglia sua mamma sull’orario e scende. Il signore dei colori è andato via. Marianna si ferma di fronte al muro, un po’ a distanza, per contemplare le caselle colorate dove prima c’era solo l’asfalto grigio scuro. Lì per lì non capisce. Con lo sguardo conta i passi del gioco del mondo intuendo i numeri scrittiche ancora non è in grado di leggere, casella dopo casella, uno, due, un’altra, un’altra, un’altra. Alla casella sei c’è la bambina.
La bambina è di spalle, se ne sta lì tutta perfettina coi capelli biondi mossi dentro il salto. Sta oltrepassando la casella, salta molto in alto. Immediatamente Marianna prova un moto di antipatia per quei vestiti precisi, il giubbetto di jeans come i grandi, le scarpe fucsia. Marianna inclina la testa e fa una boccaccia alla bambina. Le ha copiato la pettinatura. Le ha rubato anche il gioco del mondo. La bambina se ne resta sospesa a mezz’aria senza sforzo. Non sembra abbia intenzione di spostarsi.
– E adesso come si fa?, pensa Marianna mentre si rende conto finalmente che questo gioco non potrà mai finirlo, perché ci sono solo le caselle dalla uno alla cinque e un pezzettino della sei, ma il resto, chissà perché, il signore dei colori non ha finito di disegnarlo. Per sicurezza Marianna riconta le caselle col suo metodo di quattrenne, una, due, un’altra, un’altra e ancora un’altra, del sei si vede solo un pezzo prima della linea del muro di fondo. Sulla sei sta saltando la bambina, poi c’è il muro, niente da fare. E poi capisce. Non è che non ha finito il disegno. È che ha finito lo spazio. Forse non aveva calcolato bene le distanze, che scemo. Marianna sente un senso di trionfo perché ha scovato l’errore, però ci resta male, per una volta che aveva un bel gioco tutto per lei gliel’hanno rovinato. Poteva anche pensarci meglio prima, se era così tanto un artista, pensa. Marianna fa un verso spazientito per ribellarsi alla situazione, ma piano piano, quasi avesse paura di farsi sentire dalle macchine parcheggiate.
La bambina sta ancora saltando sospesa nel gesto interrotto come se fosse la cosa più normale della terra. Marianna si ritrova a invidiarla. La bambina può finire di giocare. Se le pare, la bambina può girarsi e ricominciare, tornare indietro, ripercorrere il gioco a ritroso oppure di nuovo daccapo. E poi da dove è lei, la bambina può vedere le ultime caselle, la sette, la otto, la nove e la dieci. Marianna non può. Non sarà mai capace di eguagliare quello che sta facendo l’altra. Non potrà mai decidere tra più soluzioni, in questo quartiere non ci sono alternative, lo dice sempre anche sua mamma. Marianna si ritrova a pensare che vorrebbe essere la bambina, per poter scegliere come le pare. Tranne che la bambina non si gira non corre e non ricomincia daccapo, sta solo lì sulla casella sei a contemplare il resto del gioco, quello che Marianna non potrà mai vedere.
Alla fine della giornata, Marianna torna a casa con un sassolino dentro i pensieri. Quella notte fa dei sogni brutti, sogna il gioco del mondo con le uniche caselle che ricorda, dalla uno alla cinque e mezza, e la bambina che salta perfetta, senza sforzo, e le dice: Perché tu non giochi?
Marianna la prende come una provocazione. Al mattino quando si sveglia ha un piano chiaro in testa. A colazione è così agguerrita che sbrodola il latte sulla sedia, quando la mamma la rimprovera molla tutto a metà, non passa neanche dal bagno a far finta di lavarsi, si veste veloce, fa la coda senza neanche guardarsi e scende sparata al parchetto. Quando arriva, il disegno per terra ha già i colori sbiaditi, nel sogno erano più belli, in questo quartiere si rovina sempre tutto. Marianna si ferma a distanza e conta i saltelli ormai familiari. Uno, due, un altro, un altro, un altro. La bambina è ancora lì, perfetta che sembra finta, con la coda ondulata copiata da ieri, il giubbetto di jeans e le scarpe da femmina, affacciata sulle ultime caselle. Marianna sbuffa piano e si avvicina all’inizio del gioco. Deve riuscire a saltare in alto quanto la bambina. Se vuole diventare più brava di lei, dovrà allenarsi. Marianna è pronta. È disposta a passare tutto il giorno, tutta la settimana, se necessario anche tutta l’estate a fare salti da ferma per diventare fortissima. Vuole proprio vedere se alla fine non sarà in grado di arrivare alle ultime caselle. Le ultime caselle sono quelle più incredibili, gliel’ha detto stanotte la bambina nel sogno.
Dopo tre ore di salti, Marianna si arrende. Ha male alle gambe e ha finito il fiato. Per oggi basta. La mamma la chiama dalla finestra e Marianna schizza via per il pranzo.
Quel pomeriggio Marianna non scende. La delusione punge troppo e anche le sbucciature al ginocchio e al gomito che si è fatta quando ha perso l’equilibrio ed è finita contro il muro. Alla fine è soltanto un gioco. Se vuole, quando torna Margherita dal mare, ne disegnano uno loro coi gessetti come hanno sempre fatto, non sarà bello come quello dell’artista, ma almeno può giocarci finché vuole e la bambina non può venirci, al gioco che disegnano lei e Margherita, non ci può proprio giocare, al gioco suo e di Margherita, così impara a vestirsi da scema e a copiarle le pettinature.
Quella notte, la bambina le ritorna dentro i sogni.
Peccato che non sei riuscita, le dice. Dovevi proprio vedere che belle le caselle finali. Non ti immagini nemmeno quante cose incredibili che ci sono sulla otto e sulla nove. La dieci poi non ne parliamo, sulla dieci si sta a piè pari, è così comoda e grande che ti ci puoi perfino sdraiare, se ti pare. Non sai da lì il cielo che si vede.
Puoi dormirci dentro?, chiede Marianna.
Certo, annuisce la bambina compiaciuta. Sulla dieci puoi farci quello che ti pare. Tanto è l’arrivo. Peccato davvero che non sei capace.
Marianna ha gli occhi a fessura e la bocca spalancata. Le viene un’invidia che non l’aveva mai sentita. Wow, pensa nel sogno come una sfida, ma forse lo dice nel tono sbagliato.
Il giorno dopo Marianna si alza già vestita, non fa nemmeno colazione, a sua mamma che le chiede se abbia male alla pancia risponde con una parola smangiucchiata che non si capisce bene. Suo fratello Pietro dice solo: è scema, e nessuno fa altre domande. Marianna arriva al parchetto a passo di parata e si piazza davanti alla prima casella.
– Ciao, fa alla bambina.
La bambina non risponde.
– Ti devi levare, fa Marianna.
La bambina non risponde.
Non fa niente, pensa Marianna, e le sale una rabbia che è proprio una voglia fisica di andare dalla bambina e scuoterla e strattonarla e farla cadere male, lasciare che si rompa una gamba anzi tutte e due e magari pure le braccia, così la smette di saltare così in alto, con quella coda storta che le fluttua tutto intorno come a un’eroina dei cartoni.
Marianna spalanca la bocca e riempie i polmoni come se dovesse tuffarsi dentro l’acqua, l’ha visto fare una volta a Margherita, l’unica volta che sono andate in piscina, perché poi Margherita è partita e la piscina costa troppo e poi i maschi ci fanno la pipì dentro, l’ha detto sua mamma, e poi Marianna non sa nuotare e poi tanto è sua mamma che decide allora si accontenta del ricordo. Marianna prende fiato poi prende la rincorsa e salta tutte le caselle nel tempo di mezzo respiro, velocissima, con una foga sempre più grande, sempre più in alto, uno, due, un’altra, un’altra, un’altra. Alla sesta va a schiantarsi contro il muro.
Il muro fa male. Le croste sulle ginocchia si riaprono e cominciano a sanguinare. Marianna si rialza, torna all’inizio e ricomincia. Vuole proprio vedere se non ci sono alternative. Ingoia una sorsata d’aria e uno, due, un’altra, un’altra, un’altra, sempre più in alto, sempre più veloce. Al sei si schianta di nuovo, il muro è sempre lì, la bambina non dice niente. Le altre caselle sono quelle più incredibili, ma Marianna ancora non riesce a vederle. La bambina sì, certo, la bambina ce la fa senza fatica, passa oltre la casella sei e di sicuro lei il gioco lo finisce, ma pure se sei normale, pensa Marianna, pure se non sei bella e perfetta come la bambina, una chance ce la devi avere, di passare alle ultime quattro caselle.
Al quarto tentativo, disperata, Marianna si butta di testa. Magari è così che bisogna fare. Per un attimo sente solo un rumore di ossa che sbattono, poi vede tutto bianco e poi il mondo si fa nero. Il dolore è un martello che le sbatte tra i denti e il cervello. Marianna cade con la schiena per terra. Tiene gli occhi strizzati. Adesso li riapro e sono stesa sulla sette, pensa, anzi magari sono già arrivata alla dieci e neanche me ne sono accorta. Sulla dieci ti puoi sdraiare, l’ha detto la bambina nel sogno, sulla di dieci puoi farci tutto quello che ti pare, anche riposarti un po’ per riprendere fiato. Marianna si lascia andare, ma non dorme. È solo sprofondata in un altra dimensione. Quando riapre gli occhi, sua madre la sta guardando dall’alto, con una faccia che Marianna non le ha mai visto. È arrabbiata, pensa, ma poi capisce che non c’entra, quest’espressione di sua madre adesso mentre la raccoglie da terra, non è di rabbia, è qualcosa di diverso. È più come quando lei pensa che in fondo al corridoio ci sono i mostri e sa che dovrebbe correre a chiudersi a chiave in cameretta ma poi si ricorda che la chiave l’ha nascosta sua mamma perché dice che i bambini non devono giocare con le cose da grandi. È più quell’espressione lì, che ha sua mamma in faccia mentre urla qualcosa e la solleva in braccio, e Marianna pensa che ha di nuovo sbagliato tutto.
Mentre la mamma la porta via, Marianna sbircia in basso, per vedere se davvero era stesa sulla dieci, ma la vista le si è annebbiata, non distingue bene. Potrebbe essere un sette, o forse è cinque, ma forse è sette, sì, mi sa che è sette, pensa Marianna che i numeri ancora non li sa leggere, e sorride piano piano mentre arriva l’ambulanza e qualcuno chiede alla mamma se ha visto la dinamica e poi dov’era mentre sua figlia si schiantava a ripetizione contro il muro.
Dopo tre giorni, Marianna è di nuovo a casa, il dottore le ha ordinato riposo assoluto e ha scritto che non può più scendere a giocare almeno fino alla fine dell’estate. Suo fratello Pietro l’ha presa in giro, ma sua mamma gli ha detto di stare zitto e l’ha messo in punizione perché non era lì a controllare che sua sorella non si facesse male giocando, come se fosse una cosa che ha mai fatto. Mi sa che sua mamma è arrabbiata perché dovrà stare tra i piedi tutto il tempo. O forse l’hanno sgridata. Magari hanno trovato anche le croste vecchie, pensa Marianna, o hanno fatto storie perché è un po’ grassottella, o magari si sono accorti che era due settimane che faceva solo finta di lavarsi e hanno pensato che sua mamma non è una brava mamma. Chissà. Marianna si sente quasi in colpa.
Tutto per un gioco. Fa niente, pensa Marianna, tanto non ne aveva più voglia. La bambina è una stronza, pensa Marianna. È un termine che non sa bene cosa vuol dire, l’ha sentito dire a suo fratello e ha capito che è una parola da grandi, mi sa che lo usano alle panchine, secondo lei ci sta proprio bene adesso anche se non può esserne sicura.
All’inaugurazione c’è un po’ di gente, non tanta, ma sembrano tutti molto contenti, c’è il sindaco del quartiere e alcuni abitanti, ci sono quelli del telegiornale con le telecamere. Bambini non ce ne sono, ma bambini in questo quartiere, a quest’ora e in pieno agosto, non ce ne sono mai. Marianna sarebbe scesa ma il dottore ha detto che non può. Invece c’è l’uomo dei colori. Gli fanno un sacco di domande, parlano di contesto difficile, di periferia, di degrado sociale.
– Con questa mia installazione – dice lui – voglio portare un messaggio positivo,l e ricordare che grazie alla fantasia si possono immaginare mondi migliori.
– Come mai ha disegnato una bambina dentro il muro?, gli chiede una giornalista.
– Volevo che l’impatto fosse forte. Mi sono ispirato auna giovane abitante del quartiere. Mi piace pensare che la mia opera cambierà qualcosa nella sua vita. È anche un augurio a non arrendersi di fronte agli ostacoli.
– Sembra proprio realistica.
Marianna fa un verso dalla finestra, ma piano piano, per non far arrabbiare sua mamma. L’uomo dei colori non la vede, è troppo preso dall’applauso. Va a mettersi in posa vicino al suo gioco del mondo, sale sulla prima casella, fa finta di saltare, poi si avvicina alla mezza casella sei e si gira verso l’obiettivo. La bambina è sempre lí dentro il muro, odiosa, perfetta, falsa e irraggiungibile come un ideale distorto, con i capelli colorati di giallo, il giubbetto di jeans e le scarpe fucsia. Poco più in basso, sul cemento c’è ancora lo sbafo del sangue di Marianna. Nessuno ha pensato di pulirlo, ma forse se sono fortunati nelle foto non si vede.