Il permesso
di Sara Maria Serafini
Jaidi non aveva mai imparato a guidare sulla neve fresca, ma al volante del pick up che le aveva prestato Tom sembrava una cosa facile da fare.
Tom. Il modo in cui l’ha guardata mentre le consegnava le chiavi. Maschi.
La neve cadeva in piccoli punti bianchi che si scioglievano a contatto con il parabrezza.
Aveva spento la sveglia un minuto prima che iniziasse a suonare, si era avvolta in una coperta marrone e, con una tazza di caffè in mano, si era fermata a spiare dalla finestra l’Oceano Pacifico. Respirava. Come un animale sdraiato.
Aveva guidato sulla Seward e la Nash per quattordici minuti, senza incontrare nessuno. Per prima cosa, apparve in lontananza la torretta di guardia, poi la recinzione. La costeggiò sul lato lungo, ricontrollò sulla cartolina il numero del cancello: 26C.
Spense il motore alle 23:00 esatte del primo sabato di dicembre.
Si soffiò sui palmi delle mani e li richiuse subito. Dalle labbra fuoriuscivano leggere nuvole di vapore che le solleticavano il naso. Si piegò in avanti. Lo Spring Creek era fatto di bassi edifici regolari, con le pareti dipinte di bianco, i tetti azzurri. Se non facevi caso alla rete ad alta tensione e ai fili attorcigliati in spire, poteva sembrare uno dei tanti villaggi appollaiati sulla costa. Spettrali, nudi. Essenziali. Ecco, l’aggettivo che Jaidi stava cercando era essenziale.
Una porta laterale si aprì e Ian apparve sulla soglia, occupando tutto il vuoto. Dietro la sua sagoma, Jaidi poteva vedere piccoli pezzi del dentro. Una luce verde, porte in fila.
«Hei.»
«Ciao sorellina.»
Le toccò una spalla. Per Jaidi era come uno di quei rettili rari, chiusi in teche illuminate artificialmente. In dieci anni era andata a trovarlo cinque volte. Per ragioni che c’entravano poco con la cattiveria.
«La piccola?»
«Sta bene. Domani la incontriamo direttamente lì. Hai tempo fino alle 17. Poi l’oceanario chiude.»
«Mmh.»
«Ian.»
«Sì.»
«Non ha la minima idea di chi tu sia.»
«Certo, certo. Prima di tornare a casa passiamo da Bear Lake.»
«Perché?»
«Metti in moto.»
Jaidi era rimasta indietro, appoggiata al cassone del pick up. Vedeva suo fratello, di spalle, inspirare ed espirare. Riempirsi i polmoni di un’aria diversa. Sostituire quella vecchia del dentro. Con questa del fuori.
La luna vomitava versi magici sulla superficie immobile del lago. Ian tornò indietro.
«Ha lo stesso odore di quella notte.»
«Lo sai che non ne voglio parlare.»
«Ha lo stesso odore di lei il lago.»
«Cazzo, Ian.»
«E la piccola, che odore ha?»
«Lo vedrai.»
La piccola procedeva lungo i corridoi, i palmi appoggiati alle vasche piene d’acqua dell’Alaska SeaLife Center. Pesci grandi, piccoli. Colorati. Sospesi, come se dormissero. Ogni tanto picchiettava con le nocche: «Pesciolino svegliati», si girava verso di loro per cercare approvazione. Se batteva troppo forte, un addetto con la divisa azzurra e la targhetta sul taschino le faceva segno di no con l’indice di una mano. Lei smetteva.
«Una bambina educata», pensava Ian.
Poi la piccola aveva appoggiato il naso sul vetro, boccheggiava imitando i pesci. Ian si è avvicinato. Si è abbassato un poco per respirare nei suoi capelli. Ha preso due boccate. Si è girato verso Jaidi e ha fatto cenno di sì. Lo stesso, identico odore.
La neve era caduta copiosa dalle 19 del pomeriggio fino alle 23. La luce si rifletteva ovunque secondo sfumature azzurrine. Vibranti. Che mutavano l’aspetto dello Spring Creek.
Ian guardò il display digitale sul cruscotto. Aspettò che il penultimo minuto della venticinquesima ora scattò. Domenica, ore 23:59.
Scese dall’auto, non una parola. Richiuse la portiera, definendo nuovamente il confine tra lui e la sorella.
Il dentro e il fuori.