Bootleg
di Giovanna Daddi
Sono uscito da lavoro che c’era ancora luce, non succedeva da molto tempo. Il capo mi ha concesso un permesso. A fine turno mi sono spogliato della divisa e l’ho ripiegata per bene, l’ho messa nell’armadietto e mi sono rimesso i vestiti con cui ero uscito di casa la mattina: una maglietta nera e un paio di jeans. Puzzavano di fritto come la divisa e come me, come al solito: quell’odore di hamburger sfrigolanti sulla piastra, di salsa acidula, di patatine, che mi porto addosso e che ormai mi sembra sia filtrato dentro di me. Sono convinto che anche i miei organi interni odorino di ketchup. Sono tornato a casa e i miei coinquilini mi hanno guardato stupiti, forse per un attimo si sono chiesti chi fossi – sono Ludovico, Ludo, per un attimo ho pensato di dirglielo – alcuni di loro non mi hanno mai visto alla luce del giorno, hanno visto solo la mia ombra che rientrava di notte, traslando il corpo dal pianerottolo alla mia stanza. Ma oggi dovevo passare dal bagno per farmi una doccia perché stasera esco, vado a un concerto. Il loro non aspettarsi di vedermi si è concretizzato in una tipa invadente che gironzolava per camera mia, ficcando il naso e scrutando le mie cose. Chi è questa? Che cosa vuole? “Hai un sacco di dischi” dice, scorrendone le costole con l’indice laccato e compitando i titoli degli album con voce atona, sbagliando anche la pronuncia. Vai via, penso ma non dico. Vattene dalle mie cose. “Devo cambiarmi, per favore puoi uscire?” dico. Lei mi guarda con occhi dementi e non si muove, non so cosa vuole, resta ferma e continua a toccare oggetti. La odio. Qualcuno direbbe che è carina, a me sembra un segugio irritante, tipo un cane molecolare ma meno obbediente. Prendo abiti puliti e vado in bagno, mi chiudo dentro, apro il getto della doccia e aspetto che il vapore abbia offuscato lo specchio prima di spogliarmi, non voglio vedere i tagli. So che ci sono, non voglio vederli con gli occhi. Poi mi spoglio e mi lavo, finalmente sento che il puzzo di fritto se ne va, uso il bagnoschiuma di Alina, la mia coinquilina meno stronza, che profuma sempre di felce o roba così. Mi metto l’accappatoio in fretta, mi asciugo, mi vesto prima che il vapore si dissolva, prima che lo specchio torni a riflettere qualcosa. Mi lavo i denti, a quel punto una porzione di specchio si è spannata il tanto che basta a restituirmi la metà della faccia, ma quella posso sopportarla. Dicono che somiglio a Ian Curtis. Esco dal bagno, sono a posto, non mangio, non mangerei mai con i miei coinquilini, Alina tanto non c’è e in compenso c’è la ficcanaso che, finalmente, è uscita dalla mia stanza, allora io entro, butto gli abiti sporchi in un angolo, prendo il portafogli, il registratore, esco da quella casa. Sul pianerottolo posso respirare, il cuore torna a battere normalmente, fuori finalmente è sceso il buio, non sono più a disagio. Mi incammino a piedi verso il locale, non è troppo lontano, saranno tre chilometri. Non ho una bicicletta, non ho una macchina, non ho un motorino. In effetti non ho molte alternative. Ma ho le sigarette e la notte dalla mia parte.
Arrivo al locale e mi metto in coda alla biglietteria, quando è il mio turno chiedo “Uno, grazie”. Tutti chiedono due, tre o quattro biglietti. Io chiedo uno, che è quello che sono. All’entrata un tipo grosso e dall’aria incazzata mi marchia, reagisco d’istinto scansandomi ma quello mi prende per un braccio, mi guarda minaccioso. Già, il timbro. Non ricordavo, era tanto tempo. Credevo volesse perquisirmi, non voglio che trovi il registratore. Così mi lascio timbrare sul dorso della mano. Entro. Il concerto non è iniziato, mi guardo intorno, devo trovare il posto giusto. Non va così male, la Signora dalle Squame Verdi oggi non si è fatta vedere, certo potrebbe essere in ognuna di queste persone, negli occhi di ogni ragazza che mi scansa nella bolgia, nella testa di ogni ragazzo che non mi degna di uno sguardo. Ma Lei sa quando non è il caso di venire a trovarmi, oggi non credo verrà, perché ho una cosa importante da fare stasera. Stasera Lei mi lascerà in pace perché farò durare la notte più a lungo possibile, senza dormire. Perché lei è nei sogni, è nella mia testa e devo cercare di mandarla via, lo dicono i dottori.
Dopo avere studiato lo spazio centrale davanti al palco, individuo un vuoto, sufficiente per uno. Che è quello che sono. Raggiungo quel vuoto, muovendomi come un serpente che striscia tra le frasche, sudo un po’ per la paura che qualcuno occupi quel posto vuoto prima di me. Ma ce la faccio e mi ci metto dentro a quel vuoto, saldo sui miei piedi. Tiro fuori il registratore, nel buio nessuno mi guarda, tutti guardano il palco. Ma la quiete non dura a lungo. Il fastidio mi nasce di punto in bianco nello stomaco come un grumo vischioso, si appiccica alle pareti dell’esofago e risale lento, l’acido arriva in gola ed esce in un sibilo “Vai via” al tipo ubriaco che si spinge in avanti a sussulti come un trattore ingolfato e si getta addosso a me – voglio solo ascoltare il concerto – con il bicchiere di plastica in mano, da cui la birra esonda al ritmo del suo ondeggiare. Lo respingo ogni volta che barcolla e si appoggia a me, mi alita troppo vicino, sento quell’odore nauseante e lui continua a fissare un punto davanti, lontano, chissà cosa vede, sguardo ebete, occhi acquosi, demenza. Spinge, perde l’equilibrio, sta per cadere, si riassesta, mi pesta i piedi. Divento violento quando succede, mi viene voglia di picchiare.
Mi sposto allora, cerco un altro vuoto, lo trovo. Ma un altro tipo parla di continuo, guarda fisso il palco e snocciola marche, anno di fabbricazione, particolari inutili di tutti gli strumenti che vede, parla di pedaliere, microfoni, equalizzatori. Poi inizia a sputare saliva come se avesse in bocca un gavettone bucato, mentre si trasforma nel catalogo della Marshall. Accanto a lui c’è il bersaglio immobile della sua tortura, non sembra infastidito, forse soffre di sordità selettiva.
Mi sposto di nuovo, mi divincolo dalla bolgia, allungo il collo, cerco un altro vuoto ancora, anche piccolo. Lo guadagno con fatica, mi fermo, pianto bene i piedi in terra, di nuovo, ora da qui non mi muovo. Ed ecco che inizia un “Ehi ciao! Anche tu qui” “Dai, quanto tempo!” “Il cantante è un mio caro amico” “Chi lui? Veramente?” ma il nome del cantante è uno di quelli tipo Mick Jagger, perciò il mio nuovo vicino è il mitomane che mancava all’appello.
Ho paura che la Signora stia giocando con me. Di nuovo l’acido corrosivo dell’odio risale l’esofago, questa volta più lento ancora. Il ronzio nelle orecchie è il segno che sta per calare il buio, sto per cedere, manca quel poco che basta, una goccia di sudore che si stacca dalla mia tempia bollente e finisce sul dorso della mia mano, che tiene stretto il registratore. L’ultima cosa che vedo è il timbro del locale, fluorescente sulla pelle.
Poi non ricordo: all’ospedale devono avermi sedato, sono inoffensivo, non sono veramente sveglio, ma neanche dormo, è più un coma vigile che una sensazione di realtà. Sento parlare sottovoce e colgo solo mozziconi di frasi “…di metallo conficcati…testa…perso l’occhio…polizia”.
Che cosa ho fatto? Qualcuno me lo dica. Ma nessuno mi sente, non escono suoni dalla mia bocca. Mi accorgo di avere un piccolo tubo trasparente infilato nella gola. Lo seguo con la mano per capire da dove arriva, c’è qualcosa accanto al letto, un macchinario, non ci arrivo, non riesco a girarmi. Un ago a farfalla è infilato nella vena del braccio sinistro, dall’ampolla della flebo vedo scendere un liquido, goccia dopo goccia. Hanno visto sicuramente i miei tagli. Sento forte quella corrosione acida, l’unico ricordo che ho. Dalla porta lasciata aperta intravedo la divisa blu, i pantaloni con la riga rossa, dentro la divisa c’è un uomo automa, i medici e gli infermieri si scansano, lo lasciano passare mettendosi di lato, l’uomo in blu ha la faccia scura e fissa, le gambe nei pantaloni con la riga stanno venendo verso questa stanza, e qui ci sono solo io, stanno venendo verso di me. Io volevo solo fare un bootleg.