Anatomia di una crisi di nervi
di Paola Curia
Ore 5:30
Allarme sveglia.
Tiro fuori dal piumone la spalla nuda, allungo il braccio verso la mia destra. Il suo orecchio è gelido, lo sfioro, lo strizzo, non c’è verso il trillo non tace, cambio direzione. Obiettivo centrato o quasi: spigolo del comodino infilato nello spazio compreso fra indice e medio, dolore acuto ma non urlo.
Sfioro l’abatjour e vado oltre, quindi tre polpastrelli sul portagioie poi base del cordless e finalmente la sveglia!
Schiaccio quel coso, quel pulsante di plastica per spegnerla, sollevo la mano, accorcio il braccio, copro la spalla e torno a sonnecchiare. Dopo appena dieci minuti l’odiosa sirena riparte e non solo suona, ma adesso fischia, vibra e lampeggia.
Mi tiro su, perlustro la stanza nella semioscurità. In realtà non ricordo bene cosa stia cercando ma mi manca qualcosa. Con gli occhi socchiusi, arriccio il naso ed è più leggero del solito.
Dove li ho messi?
Gli occhiali giacciono lì, ai piedi del letto dove, qualche ora prima li avevo lasciati cadere. I vetri rigati fanno da ingrandimento alla prima lettera del titolo del solito mattone che non riesco a finire di leggere.
Mi chino per raccoglierli, tendo la mano, perdo l’equilibrio, con il mignolo colpisco l’astina e di colpo li riperdo di vista. Mi sdraio sul pavimento gelido, pancia in giù, gomiti larghi, allungo un braccio sotto il letto, la camicia da notte si tira più su del dovuto, scopre l’anca sbilenca e un brivido mi percorre dalla caviglia al gluteo flaccido. In prossimità della rete è più buio del previsto, percorro con la mano qualche centimetro di pavimento ma non li trovo, quindi avanzo.
Provo poi a strisciare all’indietro e, imprecando contro le varie avversità che la vita ci preserva, non riesco più ad uscire da quel tunnel di acciaio inox.
I capelli rimangono impigliati tra i ferri uncinati, li tiro, ti attorciglio e alla fine li stappo via delle grinfie di ferro auspicando tempi migliori, per sostituirlo con le doghe in legno. Mi tiro su, poggio una mano sul bordo del letto per mantenere l’equilibrio, mi siedo sulla poltroncina accanto, allungo la gamba fin sotto il piumone, frugo con le dita e non mi arrendo. Ecco, li sento, li acchiappo, con gli alluci prensili. Inforco le lenti unte e macchiate, non fa niente, mi dico, tra poco vado in bagno e le lavo con il marsiglia che sgrassa a fondo, ah già è finito, mi devo ricordare di aggiungerlo alla lista della spesa.
Mi alzo, infilo le infradito che anche in inverno sono niente male e fanno pure un po’ geisha, che in questo periodo di crisi non guasta. Sbaglio dito e il colpo netto per inserire il separatore nello spazio fra primo e secondo, finisce dritto tra quarto e quinto. Fitta acuta, ma non urlo, dormono tutti a quest’ora.
Arrivo in bagno, porta socchiusa, è occupato, aspetto fuori, accovacciata accanto al vaso cinese, regalo dei nuovi vicini del quarto piano. Lo osservo e sorrido laconica sospirando che “arriveranno tempi migliori per tutti”.
Mi risveglio, trattengo la testa che sta per ruzzolare giù dal collo e per un attimo, sconvolta dall’oblio, mi chiedo il perché della mia presenza in quell’anfratto! Ah già il bagno, santo cielo sarà tardissimo. Scatto in piedi, spingo la porta della toilette ed è libera! Era vuota già da prima, il mio compagno non si è ancora deciso a sistemare il rubinetto che perde un filino d’acqua e pensavo stesse orinando.
Sbircio sul cellulare prima di avviare la connessione, caspita le 6:15, tardi, tardissimo!
Svuoto l’intestino alle 6:25.
Lavo viso e denti alle 6:32.
Passo un colpo di pettine alla capigliatura messa in piega solo due giorni fa.
Non mi piace, sto male, ci riprovo con la spazzola super-lisciante pagata fior di quattrini.
Ore 6:45.
Attraverso il corridoio nella penombra, non vedo granché ma non posso accendere la luce, è sempre troppo presto.
Passo felpato, arrivo in cucina, schiaccio il pulsante dell’american coffee ma non ci sono tazze disponibili, tutto nella lavastoviglie il cui interruttore lampeggia ansiogeno in sincronia col ticchettio dell’orologio. Cavolo, la pompa si è bloccata di nuovo e non è partito il ciclo di lavaggio.
Ore 6:55.
Tra dieci minuti dovrei essere in viaggio verso il mio brillante futuro ma è tardi, mi ripeto.
È il primo colloquio, la mia grande occasione, voglio arrivare puntuale e indossare il mio abito nuovo. Rinuncio al caffè, scappo a vestirmi, dribblo sul camioncino dei pompieri, slalom tra una Barbie nuda e suo marito Ken, arrivo incolume fino alla porta della mia camera.
Mi spoglio e poi mi vesto, ah già, l’etichetta sotto l’ascella, l’acchiappo, la stringo, tiro e ritiro ma non viene via. Tolgo l’abito, afferro il cartoncino con gli incisivi a coniglio ma prima di infierire il colpo finale leggo il talloncino: taglia L, oddio da oggi a dieta!
Devo riavviare la lavastoviglie che se si alzano gli altri non possono fare colazione.
Ore 7:11.
Arriverò tardi, va bene, inventerò un guasto alla macchina. Corro in cucina mezza nuda, apro il portellone della lavapiatti, schiaccio il tasto A, parte uno schizzo d’acqua scura, e certo, la pompa è fuori uso.
Fradicia, con l’abito in mano, guardo l’orologio sulla porta.
Ore 7:19.
Non demordo ma un rigolo di moccio inizia a colare giù dalla narice arricciata e scende lungo il labbro in via di commozione. Richiudo il portellone, scappo nello stanzino e tiro fuori dall’asciugatrice i vestiti del giorno prima, li stiro con le mani alla meno peggio.
Indosso i jeans più scuri, calzini chiari e metto le scarpe basse.
Un altro colpo di pettine, sono pronta.
Ore 7:31.
Sì, posso farcela, credo in me stessa!
E come Rocky in preda all’euforia, inizio a saltellare sulle punte dei piedi fendendo colpi a vuoto e sussurrando: “Adriana, Adrianaaa”.
Afferro le chiavi dell’utilitaria, soprabito, borsa, cartella con documenti, via verso un sogno che sta per avverarsi. Gemiti dal corridoio, attendo due minuti prima di uscire. Adriana, mia figlia, si è svegliata, non posso fermarmi adesso ma l’istinto mi blocca. Rientro, m’infilo nello spazio tra il muro e la culla, prendo la piccola e la metto nel lettone con il padre, magari si riaddormenta.
Scendo di corsa, entro in macchina.
Dubbio atroce: non ho messo la spondina al bordo del letto, la bimba potrebbe cadere.
Spengo il motore, scendo dall’auto e rientro in casa, sistemo la retina e inizio la folle corsa.
Allo specchietto mi rendo conto di essere senza un filo di trucco, un mostro che alle 7:50 del mattino si sta dirigendo verso un importante colloquio di lavoro.
Ah… non ho segnato il marsiglia sulla lista, dovrei pure avvisare il tecnico della lavastoviglie chissà dove ho messo il numero.
Poca gente per strada, davvero strano.
Mio Dio chissà se la pupa si è riaddormentata e se scendesse dal letto gattonando, aprisse la finestra per cercarmi e…
Inchiodo di colpo.
Frugo nella borsa, cerco il cellulare che non c’è mai quando serve. Eccolo è mezzo scarico, faccio in tempo a chiamare a casa.
Uno, due, tre… dieci squilli, temo il peggio.
Ah ecco, adesso risponde, gli chiedo di controllare la piccola, mi dice che dorme accanto a lui, sono tranquilla ora, proseguo il tragitto.
Negozi ancora chiusi su entrambi i lati della strada semideserta.
Ore 8:15.
Arrivata a destinazione mi guardo allo specchietto, uguale a prima: un mostro! Non fa niente, magari apprezzano la mia naturalezza. Scendo dall’auto, desolazione assoluta. Aldilà della cancellata blu c’è un tipo, sembra un giardiniere. Mi guarda e si avvicina, quindi mi presento con un po’ d’affanno, gli spiego chi sono e cosa faccio lì alle 8:27 del mattino. “Dovrebbe aprire perché è già molto tardi e mi scuso per gli occhiali sporchi, unti e appannati ma non avevo il marsiglia a casa, anzi devo ricordarmi di aggiungerlo alla benedetta lista”.
Mi squadra, sorride, è anziano ma ha un fisico possente, tutto sommato sai che è niente male!
“Signora la domenica qui non fanno colloqui, ripassi domattina”.
Si permette di fare ironia dicendomi che ho preso un abbaglio e che lui, per le lenti sporche, usa salviettine speciali, quelle a base di aceto.
Lo fisso sbigottita mentre frugo nella borsa alla ricerca dell’agendina sperduta, perché subito dopo Indiana Jones, ci sono io in graduatoria.
Allora: fazzoletti, pacchetto di crakers sbriciolato, tettarella in silicone, tacco 13 della decolté rossa, oddio dov’era finito!
Ecco l’agenda, l’afferro, la sfoglio velocemente alla ricerca della terribile conferma.
Dunque: -lista spesa, ah… non devo dimenticare di aggiungere il marsiglia,
-domenica cena con ospiti cinesi
-lunedì appuntamento colloquio ore 8:20.
Non posso crederci, ieri non ho avuto cinesi a cena, quindi oggi non è lunedì.
Pertanto oggi: ho ospiti stranieri, devo fare la spesa, ci ho rimesso una ciocca di capelli, ho lasciato la casa sottosopra e il tecnico della lavastoviglie nei giorni festivi non lavora.
Ritorno di soppiatto alla realtà, eccolo che subdolo, s’insinua pure un tragico pensiero: oddio la bambina!
Saluto con un ambiguo occhiolino -che in realtà è un tic nevrotico partito con la crisi d’ansia del momento-, il tipo che a guardarlo bene è proprio niente male!
Mi rifiondo in auto, ingrano la retromarcia, parto a tutto gas e in men che non si dica infilo garage, portone e uscio.
Entro in casa.
Silenzio assoluto.
Respiro di sollievo.
Mi butto a peso morto sul divano.
“Tle, due, uno… tanti auguli a te, tanti auguli felici… tanti auguli a teeeeee!”.
Oddio ma che giorno è oggi?
“Il tuo compleanno” suggerisce un’eco straniera fuori campo.
Eccola la coppia di neosposi orientali che, dal quarto piano si è precipitata ansiosa di essere la prima, anzi, la plima, insieme alla mia famiglia, ad augurarmi:
“100 di questi giolni !”.
Oh santo cielo, avverto un mancamento, sì la vedo, è la luce alla fine del tunnel, la seguo, ma sul più bello arrivano a sorpresa le sberle del cinese che urla:
”Signola signola, la plego, apla occhi”.
La sua vocina acuta, mi riporta nell’aldiquà e infine, pallida e rassegnata, rinsavisco e mi domando:
“Ma altri 100 giorni così, non saranno mica troppi!”.