La teca
da “Il Canto dell’eternità” di Francesco Conti
Eccomi, nel diniego
di un assenso taciturno
la luna mi deride
paradosso circense
dalla vuota cavea.
Aspide sui telamoni
scalai le teche insolute
i malleoli e il cuore
scandirono il precipizio.
Polpastrelli – ali d’avvoltoi
fu lo squadernare di cellulose,
lessi libri mai scritti
tradussi la chimera incatenata,
gli amanuensi mi odiarono
dai capolini dell’onciale:
Alessandria mi scacciò.
Ma luccicarono le ghiande
nella cera dell’oblio!
Ho invocato la notte
nutrito le sue meretrici
per i muti capricci del giorno
i vagiti barocchi dell’azzurro.
Minosse con me si aggira
ladri di ugule per zittire
un verbo che mai canterà.
E vecchiardo satirello
mi pianto bambino
per sbocciare sillaba.