Numero 55- Settembre 2019

Non toccare la cassapanca

di Daniele Bolognese

 

Foto di Massimo Cirili

Ogni tanto, nei pomeriggi in cui andava a trovare suo padre, nella grande casa con giardino dove aveva trascorso la sua infanzia, gli succedeva di piombare in un singolare torpore. Il bagliore del cielo primaverile, lo scalpiccio dei suoi passi, le ombre lunghe di caseggiati abbandonati, avevano su Francesco un effetto soporifero intanto che passeggiava per le viuzze del paese. Aveva sempre preferito, nei giorni in cui non era in caserma per lavoro, fare un pisolino subito dopo pranzo. Tuttavia, da un po’ di tempo a quella parte, prima di coricarsi, aveva preso l’abitudine di andare a farsi un caffè da nonno Mimì (in famiglia tutti lo chiamavano col diminutivo). C’era qualcosa in lui, come una triste rassegnazione nel modo in cui reggeva il bastone, nel profilo ossuto e nella voce, spesso ovattata e indistinta, che stimolava un’idea di solitudine, quasi fosse incapace di rapportarsi con gli altri.

Francesco si fermò e, mentre si frugava in tasca, contemplò la targa col numero civico. Alle sue spalle, una gazza ladra che saltellava sul bordo di un muretto imbiancato a calce, spargeva brandelli di un frutto maturo. La chiave girò nella serratura con uno scatto che pareva uno schiocco di lingua, e la porta si aprì con una leggera spinta. L’atrio era soffocante, angusto, con un soffitto grigio e polveroso come se si sbriciolasse. Numerosi ombrelli rotti stavano in un cesto all’angolo. Si sentì subito lo sgradevole rumore di una sedia tirata indietro, il tossire pesante, insistente, e un odore di sigaretta che gli fece storcere il naso. Con cautela Francesco si recò quindi nell’altra stanza, una sala da pranzo con battiscopa beige e maioliche alle pareti, e fece il suo ingresso accompagnato da un’espressione scocciata. Il nonno aveva una scatolina ingiallita in una mano, che batteva con un ritmo regolare contro il tavolo, con l’altra cercava il posacenere. Emanava quel sentore di vecchio che nemmeno il tabacco riusciva a nascondere.

«Ancora quelle carte» disse Francesco. «Ti ho comprato quelle nuove».
«A me piacciono queste».
«Sono tutte rovinate, a malapena riesci a mischiarle».
«Ci devi giocare tu?».
«Fai come ti pare».
«Certo».

L’anziano signore posò il mazzo: un tremore scandiva ogni sua piccola azione. Portava occhiali con lenti spesse che gli ingrandivano fin troppo gli occhi, tanto che facevano pensare che fosse sempre infastidito da tutto ciò che lo circondava. Pure il silenzio che seguì lo fece irritare non poco, finché non si decise a prendere la parola con una smorfia afflitta su una faccia grinzosa.

«Nicola e Tiziano non mi vengono mai a trovare».
«Tata ne abbiamo già discusso. Durante la settimana hanno scuola, piscina, judo» dichiarò Francesco con rassegnazione, come spesso accadeva ultimamente quando parlava con lui.
«Puttanate! Stanno sempre al bar quei mascalzoni».
«Dai su, non ricominciare».
«Invece ricomincio».

Quel breve dialogo aveva subito portato Francesco in uno stato di viva irritazione. Rimasero ancora zitti e lasciò che quel nuovo silenzio mitigasse la sua stizza. Prese poi la moca, preparò un caffè, e quella sgradevole sensazione scivolò via non appena si accomodò con una tazzina fumante.

«E a me?».
«Non puoi berlo, ti fa male alla pressione» lo ammonì Francesco. «Anche le sigarette».
«E che palle sta pressione. Sto benissimo».
«Non insistere. Anzi, chissà quanti te ne fai. Lo devo nascondere».
«Un goccio».
«Hai quello d’orzo».
«Fa schifo».

Francesco aprì la bocca e lanciò un sospiro prolungato, che pian piano si ridusse a un lieve soffio con le labbra serrate. I suoi occhi verdi e perplessi fissavano quella figura calva, con due grosse orecchie a sventola, sparire in cucina e ritornare poco dopo con una bottiglia. Dalla portafinestra con i vetri sporchi che dava sul giardino, la luce sembrava diffondersi a ventaglio nell’ambiente, con diversi livelli di oscurità dietro l’ingombrante credenza.

«Un bicchierino di vino almeno è possibile?».
«Fa quello che vuoi, che ti devo dire» replicò Francesco spazientito, e si abbassò per grattarsi una puntura di zanzara sulla caviglia.
«Non ho bevuto niente a pranzo».
«Certo, come no».
«E non credere».
«Senti, con la zona che vuoi fare?».
«La tengo».
«Tata, vendiamola meglio, sono pochi ettari. È inutile tenerla».
«Lo dici tu».
«Ma se gli ulivi sono secchi e tu non ci vai mai».

Certi scambi di opinioni, man mano che procedevano, si facevano sempre più accesi, e nonno Mimì gli riversò addosso la sua decisione col tono della persona capricciosa e insolente («no, non si vende» ripeteva e a tratti sputacchiava nello scandire le parole). Posò la mano aperta sul tavolo, con una smorfia di disappunto che gli creava delle pieghe intorno agli occhi e che indugiavano a lungo sulla faccia, anche dopo che si era rasserenato. L’altro uomo invece si sfregò con frenesia la nuca. Dacché ne aveva memoria, per Francesco suo padre era sempre stato segnato da un’irriducibile testardaggine, che era andata peggiorando dopo la morte della moglie. Il suo sguardo vigile si posò su una mensola e ai contenitori anneriti in terracotta (le pignate con cui cucinavano spesso i legumi), da lì si soffermò poi sulle crepe della volta ingiallita e al panaro di vimini che, sfilacciato, era gettato vicino al tinello.

«E per la badante? Che si fa?».
«Non si fa niente, ecco che si fa» replicò calmo nonno Mimì.
«Questo posto cade a pezzi. È una discarica. Ti serve qualcuno».
«Ma che discarica».
«Conservi tutto. Il giardino è pieno di zappe spezzate. In cucina non c’è spazio per una forchetta» sbottò Francesco. «Hai una cassapanca piena di cartacce».
«Non toccare la cassapanca».
«Non la tocco la tua cassapanca».

C’era stanchezza nel viso del vecchio. Si versò pertanto un secondo bicchiere e si esibì in un ghigno compiaciuto. Viceversa, Francesco aveva uno sguardo assente, ma si distingueva, tra i suoi capelli neri e la fronte solcata da impercettibili rughe, tutto il suo fastidio. Inflessibile, impegnandosi non poco nell’ostentare una fredda tolleranza, si lisciò con indice e pollice il baffo a ferro di cavallo; il contorno della bocca leggermente aperta disegnava un ovale perfetto.

«Perché sei contrario alla badante?».
«Mi rovina tutto» replicò il vecchio.
«Cosa ti deve rovinare».
«E non me la posso permettere tra l’altro».
«Tu mi devi spiegare come fai a stare senza soldi» disse Francesco e allargò le braccia. Sulla tempia una piccola vena pulsava. «Hai lavorato tanti anni in una fabbrica in Svizzera, dovresti avere una bella pensione».
«Ma chi te le dice tutte queste stronzate. Tua sorella?».
«Cosa c’entra lei adesso».
«A stento arrivo a fine mese».

Nonno Mimì diede un lungo sorso, si asciugò la bocca col dorso della mano per poi tossire e sollevare il capo. Il suo respiro era greve e solenne, il respiro di un uomo catarroso con i polmoni per nulla sani: inspirava ed espirava, gonfiava e sgonfiava il petto senza concedersi una pausa. Le palpebre flaccide, socchiuse sotto quegli occhiali dalla montatura pesante, incorniciavano uno sguardo abituato a fissare il vuoto. E Francesco a quel punto avvertì un brivido d’inquietudine che conosceva fin da bambino, e che nell’intimo gli attraversava tutto il corpo ogni volta che suo padre si alienava in quella maniera. Così, per pochi secondi, evitò di muoversi e trattenne un singhiozzo. Quegli atteggiamenti non lo avevano dispensato da un lento e irrimediabile timore nei suoi confronti, a cui seguiva una specie di contrazione energica, una scrollata di spalle, con cui provava a scacciare via l’insensata paura che provava.

«Che fine fa la tua pensione?» chiese timidamente Francesco.
«Mangio e pago le bollette».
«Abiti da solo e a volte fai un pasto al giorno».
«Che vuoi dire?».
«Per caso qualcuno ti truffa e ti ruba soldi?».
«Ma che cazzo dici. Non mi faccio prendere per il culo io».
«Va bene, non ti arrabbiare».
«Nessuno mi deve rompere per i soldi».
«Ho capito. Scusami».

Un’imposta sbattuta dal vento, l’abbaiare del cane del vicino e il ronzio continuo, insistente del frigo, per un lungo istante furono gli unici rumori che circolarono nella stanza. Preso da un tremito violento, il vecchio provò a mischiare le carte, ma rinunciò subito e si accese una sigaretta. Francesco invece ondeggiò la testa e provò come un senso di vertigine, uno sfinimento. Indossava una camicia stile safari, color cachi, con grosse tasche sul petto e, con un movimento rallentato, tirò con insistenza il colletto, quasi avvertisse fastidio alla pelle. Quando fissava il padre non riusciva proprio a scorgere una minima traccia di somiglianza: nel carattere, nel fisico, anche nel modo di esprimersi erano due persone completamente diverse. Controllò l’orologio al polso, accigliato, e posò il mento sulle nocche. La grossa escrescenza della pelle che aveva sul sopracciglio sembrava vibrare ogni volta che era assorto su qualcosa, e quel suo contegno prudente, quasi formale, deriva dalla consapevolezza che in fondo, su certi argomenti, con lui era inutile discutere. Da quando aveva memoria, lo aveva sempre considerato un tipo avaro, e nei periodi in cui tornava a casa per le ferie, dopo mesi trascorsi in Svizzera, erano stati rari gli slanci di tenerezza verso i figli.

«Lasciamo perdere per adesso» dichiarò Francesco e la sua voce era quasi un mormorio che fluttuava nell’ambiente, come una piuma. «Lasciamo perdere meglio» ribadì piano.
«Tu e tua sorella dovete scassare di continuo. Ma che è! Mai in santa pace».
«Tata basta parlare di soldi».
«Tu inizi. Io rispondo».
«Ok! Ora finiamola. Piuttosto serve qualcosa? Stasera vado a fare spesa».
«Una cassetta d’acqua».
«E basta?».
«Sine».

Dopo un breve intervallo, Francesco si avvicinò verso la portafinestra e con aria greve e calcolatrice guardò fuori. Il pozzo al centro del giardino, inutilizzato da parecchi anni, aveva ancora il secchio bucato con la catena arrugginita e una lunga pertica era poggiata sul bordo. Osservò una cassetta piena di patate buttate lì per terra, e tutto intorno l’erba era talmente alta che sul suo viso traspariva una vaga sensazione di stupore. I pochi alberi di mandarino erano malati, una resina nera attaccata a ogni foglia.

«Che porcile il giardino».
«Perché?» chiese nonno Mimì.
«Niente, niente».

Una certa condiscendenza filtrava dalle parole di Francesco; all’improvviso la sonnolenza gli disegnò sul volto una smorfia svigorita. E così, stanco, si girò verso il padre, lo salutò con fretta e gli scappò uno sbadiglio intanto che raggiungeva la porta. Rimasto solo, nonno Mimì ripeté nuovamente il gesto di mischiare le carte: la mano secca, cosparsa di macchie scure, non riusciva proprio a stare ferma. Ben presto però si stufò, si versò quindi dell’altro vino, ne bevve un sorso e andò alla cassapanca. L’accarezzò con tenerezza, quasi fosse un gesto propiziatorio, prima di aprirla. Lenzuola, carte e foto sbiadite erano mischiate in un disordine apparente. Eppure, sollevando una coperta ricamata, gli occhi del vecchio cambiarono espressione e si concesse un sorriso impacciato. Tra i libretti postali e le carte della banca, iniziò ad ammirare le banconote, talmente tante che oramai, da parecchi anni, aveva perso il conto.



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