Numero 55-Settembre 2019

L’onda lunga che ti ha portato qui

di Guido Landini

 

Il nome. La scatola di latta. I muscoli scuri. La frusta della foce. I tanti, troppi nomi.

Perché senti questo stasera? I carri sono fermi, non avrai di che pensare fino all’alba.
Ti agiti, non c’è bisogno. Rilassati. C’è solo il brusio intimo che sorge dalle luci tremolanti.
Guarda. Sopra una cassa si sta consumando una partita a carte, gli occhi degli uomini fuggono veloci, sotto sforzo per carenza di luce. Vorresti prendere parte anche tu, ma una voce ti trattiene, lasciandoti con la testa sulle spalle che diventa pesante, offuscata dalla stanchezza e da ragioni che non sai.
Sorridi ad una vecchia in vestaglia. La stoffa che indossa è così sbiadita da concedere spessore alle sponde più remote e umbratili.
Una figura incrocia le gambe, si siede affianco a te. La riconosci. La accogli.
Stringi in un abbraccio quel ragazzo dai capelli unticci. Lui si toglie dalle spalle il suo mantello, te lo porge, parlando senza tregua del futuro, del domani. Delle strade da prendere, di quelle da evitare. Il ragazzo si aspetta che tu lo sappia.
Un brivido ti attraversa il petto, e non è il vento.
Afferrando un lembo, liberi un sorriso, restando in silenzio.
Recupera dal fuoco una scodella fumante di gulasch: è per te, per riempirti la pancia prima di svuotarti di insegnamenti. Il ragazzo ha a cuore quello che hai da dire, non dimenticherebbe mai di sapere cosa pensi. Sulle stelle, sulle donne, sulla vita.
Ti ascolta affascinato dal giorno che hai tagliato la strada alla carovana facendo impennare il cavallo, intimando di deviare il percorso, gridando loro di abbandonare il lungofiume, da quando hai esposto, sicuro di te e non senza rischio, ogni ragione per una nuova, necessaria direzione, la salvezza di un gruppo affamato e malato, scavato dalle zanzare.
Hai rischiato, hai vinto. Conquistandoti tutta la loro fiducia, la stima, e un giaciglio prezioso.
Ti scuote un brivido perché sai che non è sempre stato così.
Mamma Osha conserva il tuo nome dentro la scatola di latta. Ma tu, l’hai mai letto il tuo nome? Dicono così: che nella scatola siano conservati tutti i nomi del popolo nomade. Sotto ad un giaciglio luccicante, dentro al suo carro corallino. Dicono che se pronunciati, quei nomi, insieme, riecheggino del gorgoglio di una foce, la sorgente da cui il popolo ha cominciato un lungo cammino.
Hai fatto tintinnare la coperta intessuta di monili, una notte, rimanendo vigile affinché i suoi occhi rimanessero chiusi. E cosa hai trovato?
Silenzio. Allora il ragazzo riempie il tuo silenzio con la sua voce, lasciandoti guardare la pianura che si stende intorno a voi. Potresti essere partito soltanto ieri, forse il giorno prima ancora, come non esserti mai allontanato da qui. Senti di essere appartenuto ad altre epoche, ad altre genti, come senti sfuggire il momento del distacco, dell’oblio.
Cos’è che ti ha spinto nelle loro braccia? Una passione bruciante? Una paura ancestrale, una nave affondata, un’ideale sconfessato? Una profezia nascosta in fondo ad una scatola di latta? Mettiti in ascolto. Adesso mettiti in ascolto. Concentrati. Impegnati. Ascolta cosa rivela l’insicurezza nelle parole del ragazzo, ascolta cosa ti rivela.
Avverti uno strascico, quasi un sonaglio. Si avvicina gattonante un uomo con la divisa da gendarme ridotta a brandelli: ha le spalline mangiucchiate e la pettorina imbrattata dal sugo.
Chi è questa gente che viaggia insieme a te? La conosci tutta quanta?
Il gendarme si arresta ad un palmo dal tuo naso. Puntella i pugni. Strappa un’asta d’ottone bruna. Arriccia le labbra. Preme l’estremità. Libera un lamento sporco, sordo e ammaccato. Tu rimani di sasso.
Esibisce un paio di gengive equine, e mentre rotola a terra, curvato da una risata, sbatte qua e là la sua chiarina annunciatrice agli angoli del petto. Tu guardi il ragazzo. Il ragazzo ti guarda: non sorride, ha gli occhi torvi. Scatta in piedi. Fai cenno di abbassarsi.
Il ragazzo non ascolta. Il ragazzo si alza e assesta un calcio a quel corpo dimenante.
Conosci davvero questa gente?
Allora guardi ancora la pianura e vedi un camposanto, le vite possibili che potevi avere se ti fossi fermato in un punto qualsiasi, se avessi arrestato il tritacarne dei passi. Tu guardi la pianura e vedi una distesa antropomorfa, un paio di spalle nude e scoperte, un passato troppo vasto da rivestire.
Guardi e vedi una gerla che un tempo poteva contenere qualcosa, non sai se i sogni o il cielo, e che ora è rimasta silenziosa e in attesa e in difetto, come un crepaccio che ha inghiottito tutta l’acqua degli oceani primordiali, che ha lasciato nascere e morire foreste dove una volta c’erano banchi di alghe, strade dove c’erano correnti, palazzi e città dove regnavano barriere coralline incontrastate.
Il ragazzo fa un cenno con la testa. È tutto apposto. Vuole che tu mangi, insiste. Inizi a stuzzicare lo stufato con il cucchiaio, lasciando mandare giù un boccone. Non perché hai fame: concedere uno spazio alla premura altrui nasconde un rito che celebra chi ha forza.
No, non è sempre stato così, da che ti trovarono prono con la sabbia incastrata tra i denti, le vesti schiantate dalla rabbia dei marosi, e ti raccolsero seminudo, larvale, eppure così orgoglioso: guai a lasciarti sfiorare dai suoi gendarmi, che l’annunciarono con squilli di trombe. Servì il tocco delle sue dita, mani del censimento che scesero dal carro e presero il tuo nome con le carezze, e che divenne il nome secondo cui appartieni a loro.
Che invano hai cercato, scheggiandoti le unghie sulle bande di latta, chino, rattrappito sotto un freddo giaciglio di monili. Ma tu, come fai a dirgli che senti questo, stasera?
Uno sbadiglio si disegna sotto quei capelli unticci, stendersi vicino al fuoco è ora il desiderio più vero del giovane. Rimane un compito tuo, soltanto tuo, che non puoi trascurare. Lo saluti con il triplo bacio su una guancia sola, e ti avvii non visto lungo il cerchio dei carri: a quest’ora le persone sono proiezioni dello loro emozioni più profonde e torpide, ed è facile passare attraverso. Una ruota assorbe la tua ombra.
Attraverso l’abitacolo, scorgi il profilo di una donna che si sta cambiando: la schiena velata, la curva dei seni. Senti un rogo nascere dentro, mancarti di colpo il respiro.
È a lei che appartieni? È per lei che ti sei messo in cammino? Per lei che sei rimasto?
Un altro passo e hai già scordato tutto. Forza. Il campo è alle tue spalle, così vicino e così lontano, i cavalli sono legati al silenzio della notte.
C’è l’odore manifatturiero del cuoio e quello caldo e agreste dello sterco.
Sei davanti al ronzino del ragazzo. Slacci il mantello che hai sulle spalle, lo leghi intorno al collo. Poi accarezzi una puledra, il destriero di Osha. Gli animali: un dono di quiete rivelatrice. Sui muscoli d’ebano, avverti scorrere il vento che taglia la pianura spingendo a perdersi chissà dove. Forza.

Forza.

L’onda che nessuno conosce. Un destino. Il tuo destino. L’onda lunga che ti ha portato qui.



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