Lingue straniere
di Fiorella Malchiodi Albedi
A Parigi sono arrivata in un giorno d’autunno, rigido e malinconico, che per me che venivo dalle ottobrate romane era già un inverno avanzato. Nel dormitorio studentesco avevo trovato alloggio in una camera minuscola, con lo spazio appena sufficiente per un letto singolo, uno scrittoio e un piano cottura con un unico fornello. Non conoscevo nessuno, alla Maison d’Italie della Cité Universitaire, e se le giornate passavano rapidamente al lavoro, o nei giorni festivi in giro per la città, le serate erano lunghe e noiose. Mi è capitato diverse volte, nel corso della vita, di passare periodi di studio o di lavoro all’estero. Le esperienze sono state molto diverse tra loro, per la durata, per il luogo in cui si sono svolte, per l’età che io avevo, ma nel ricordo sono tutte accomunate dall’insieme di emozioni che accompagnavano le fasi iniziali, il periodo di ambientamento. È un insieme di sensazioni contrastanti, un po’ belle e po’ brutte, come l’emozione della novità, il fascino del paese nuovo, ma anche il senso di sradicamento, la forzata solitudine iniziale. Se ora guardo indietro, man mano che il tempo passa, esperienze che poi si sono via via andate caratterizzando, quali più, quali meno felici, ma comunque profondamente diverse le une dalle altre, per il fatto di essere accomunate da questi simili sentimenti iniziali, ormai nel ricordo si fondono le une con le altre e perdono la loro identità. Un po’ come le estati dell’infanzia, che ormai formano un’unica lunga stagione in cui tutti i ricordi si ammassano, senza un prima, senza un dopo.
A Parigi, in quelle prime serate solitarie, avevo concepito un proposito bislacco, come a volte mi capita, devo ammettere, idee senza né capo né coda, della cui idiozia mi rendo conto solo a cose fatte. Volevo imparare il francese, e questo era una più che legittima aspirazione; nello stesso tempo mi ero convinta, e non so come mi fosse venuto in mente, che un uso più attivo della mano sinistra avrebbe stimolato la parte motoria destra del mio cervello, che, non essendo io mancina, era sottoutilizzata, e che di ciò avrebbero beneficiato tutte le mie facoltà mentali. E questo era già molto, ma molto più opinabile. Mi era poi venuto in mente che potevo in un sol colpo fare qualcosa per contribuire a entrambi i risultati: copiare un libro in francese con la mano sinistra! Adesso mi sembra incredibile che l’abbia veramente fatto, e me ne vergogno anche un po’, ma tant’è: ho passato le prime serate della mia nuova vita parigina a vergare con mano instabile un quaderno delle elementari con frasi allora per me incomprensibili, copiate da un romanzo in francese. Il romanzo, per inciso, l’avevo comprato senza neanche capire il significato del titolo, Sueurs Froides, solo perché conoscevo gli autori, Boileau e Narcejack, due scrittori francesi di noir. Solo in seguito avrei scoperto che al romanzo era ispirato “La donna che visse due volte”, di Hitchcock. Questa cosa di dedicarmi con partecipazione ad attività che solo a posteriori mi si rivelano del tutto insulse mi capita ogni tanto, e mi lascia incredula, perché, guardando indietro, mi accorgo che tutti gli elementi per rendermi conto della mia stoltezza erano davanti ai miei occhi, senza che io riuscissi a vederli, finché ad un certo punto, improvvisamente, mi si sono messi a fuoco. È una sorta di cecità selettiva e temporanea, che poi si risolve improvvisamente, e mi lascia basita: ma come ho fatto a non accorgermene prima? La consapevolezza di questa insipienza un po’ mi spaventa: se mi è capitato così spesso di imbarcarmi in un’impresa, che poi si è rivelata, ai miei stessi occhi, del tutto irragionevole, allora mi chiedo, quale scelta ho appena compiuto, della cui avventatezza non riesco ancora a rendermi conto e di cui prenderò coscienza magari domani, magari tra un mese? Lungo quale baratro sto camminando, proprio ora, del tutto inconsapevolmente? Per fortuna, in capo a un paio di settimane, feci amicizia con i visitatori della Maison d’Italie, cominciai a passare le serate in compagnia e abbandonai il velleitario progetto. Chissà che fine ha fatto quel quaderno! Di lì a poco rinunciai del tutto allo studio del francese, perché in laboratorio il mio inglese era più che sufficiente per comunicare; anzi, lo parlavo meglio degli altri, e questo mi creava una situazione di vantaggio: pur essendo io la straniera, erano gli altri che stentavano nella comunicazione, e così sono andata avanti a parlare nella lingua che conoscevo meglio, io a mio agio, gli altri un po’ arrugginiti. Ecco un altro esempio della mia sventatezza: se mi fossi imposta di imparare il francese, nel giro di sei mesi avrei fatto grossi progressi, sarebbe stata un’occasione unica da sfruttare, e invece eccomi lì, a pavoneggiarmi con il mio inglese da British Institute, ma quanto stupida posso essere a volte? E quanto l’ho rimpianto: alla fine dei sei mesi del mio stage, nonostante la mia scarsa collaborazione, il francese era riuscito a penetrare dentro di me e a lasciare un segno indelebile e un amore profondo, al punto che diversi anni dopo, a Boston, accanto al regolamentare corso d’inglese, mi sono iscritta anche ad uno di francese. Studiare il francese negli Stati Uniti, ma come ti viene in mente? E invece è stata una gran bella esperienza. Lì ho scoperto che l’amore per il francese era corrisposto: quanta fatica ho fatto (e faccio ancora) per districarmi nell’inglese, nonostante scuole, corsi, soggiorni infiniti all’estero, letture e film in lingua originale, due anni con un fidanzato madrelingua, e invece con il francese, quale facilità nell’apprenderlo, quanta naturalezza nella costruzione delle frasi, sarebbe potuta diventare la mia seconda lingua. Ricordo che l’insegnante di francese ci faceva comporre dei brevi racconti, i primi che abbia mai scritto. Erano delle mezze paginette molto sgangherate, eppure che soddisfazione nel trovare un piccolo intreccio, e buttarlo giù sulla pagina del quaderno, nel mio francese rudimentale. Ho preso un paio di “Excellent!” in questo esercizio: penso sia stata una delle soddisfazioni più grandi della mia vita. Certo, si dirà, un’altra lingua latina, è chiaro che risulti più facile dell’inglese. Eppure no, non credo che sia questo, mi diverto a pensare che tra me e il francese ci sia un’affinità elettiva, quale non c’è mai stata con l’inglese, che pure apprezzo, ma con il quale ho contratto, bisogna ammetterlo, un matrimonio di convenienza! E nella Lista di Cose da Fare nella Vita (prima che sia troppo tardi), tra tanti desideri velleitari, è forse l’unico realizzabile: iscriversi a un vero, regolamentare, appagante corso di francese.