Numero 54 – Luglio/Agosto 2019

La terra non è piatta

di Alice Scuderi

 

Chiudo gli occhi per un attimo. Inspiro e ripeto quel mantra assurdo, com’era? Oh namah sci…cri…sti..
Gesù, ho bisogno di bere. Perché voglio essere una persona razionale, quando il mio istinto, quello primordiale che Santa Madre Natura ci ha messo nel DNA per salvarci la pellaccia, mi urla: ma dove vai?
Anita non avrebbe sentito la mia mancanza, in mezzo a questa orda barbarica, ma sembrava ci tenesse così tanto che io venissi. In effetti da quando ha partorito non ci siamo viste molto e le poche volte i nostri incontri mi hanno lasciato addosso una tristezza ispida, che non sono riuscita a togliermi di dosso nemmeno col guanto di crine.
Ma non ti vergogni? Essere invidiosa di una creatura lunga ottanta centimetri che vive attaccata a un capezzolo? Sì, ma è il capezzolo della mia migliore amica.
Ci ho messo un po’ a riguardarmi allo specchio, non avevo voglia di sentire ogni volta la dannata vocina che mi ricordava la mia estrema immaturità.
Di questi tempi non posso più parlare nemmeno col mio riflesso. Ecco dove ti portano le cattive abitudini, come avere una coscienza.
Sono qui da dieci minuti e Anita l’ho vista solo di sfuggita, un bacio sulla guancia un po’ secca. Pensare che ci teneva tanto alla sua pelle, non si perdeva svendite o saldi nelle profumerie per comprare le migliori creme idratanti. Evidentemente sono cambiate le sue priorità.
Non avevo nessun pregiudizio, giuro, quando ho aperto la porta della sala e l’ho trovata invasa da striscioni arcobaleno, palloncini a forma di unicorno e tante, tante grida. Che poi, a essere sinceri, io adoro gli unicorni, ma non credevo che lei fosse tipo da animali fantastici.
Ho teso le braccia aperte verso Anita, e stavo per stringerla alle spalle, forte, quasi a soffocarla, rideva sempre quando l’abbracciavo così, ma per fortuna mi sono fermata in tempo: in braccio teneva un’escrescenza che non aveva alcuna intenzione di essere estirpata.
Dio mio… ho chiamato escrescenza una bambina di un anno, ma che razza di persona sono?
È solo che sta sempre là, abbarbicata alle sue braccia come un dente di cane sulla chiglia di una nave! La saluti “Ciao Martina!”, le sorridi, e lei per tutta risposta tuffa la faccia nel collo di sua madre e se la stringe più forte: giù le mani, questa è roba mia.
E in effetti non l’ho potuta abbracciare come avrei voluto. Anita ha allontanato un po’ la nanerottola, porgendomi poi una guancia, fredda come la sua bocca. Dì ciao alla zia Virginia.
Io non sono sua zia, e pare saperlo anche lei, visto che mi fa una bella pernacchia.
Però, che caratterino! Avrai un bel da fare con lei eh?
Ma no, è dolcissima, solo che gli estranei la intimidiscono un po’.
Bum. Un cazzotto in piena faccia. Io, un’estranea? Non ti ho vista forse nelle peggiori situazioni, non ti ho tenuto la testa mentre vomitavi sulle scarpe di Tony, che amavi alla follia?
Non sono stata forse io a chiedere il numero di casa a Lorenzo di Paola e a chiamarlo dalla cabina telefonica per dirgli che c’era una mia amica che voleva uscire con lui?
Io, la tua testimone di nozze, che ti reggevo l’abito mentre facevi la pipì.
Per un attimo lei mi legge addosso la delusione, guarda il sangue cominciare a colare dalla ferita e sta per tendermi una mano, le vedo già sul mento la sua ruga del senso di colpa. Ma Martina reclama anche quel minuscolo spazio che era nostro. Con la sua manina piccola, che a malapena contiene una noce, le tocca la guancia, il volo di una farfalla, eppure l’incanto è potente: Anita si gira, le dà un bacio e mi lascia lì, al buio, in quella stanza piena di persone.
Vorrei trovare qualcosa di intelligente e spassoso da dire per rompere il permafrost che si è formato fra noi, invece comincia a diventare l’habitat per orsi polari e foche. Almeno loro sembrano felici.
Vado a prendermi qualcosa da bere, butto lì, più per me stessa che per lei. Arrivata al tavolo dei beveraggi mi si apre davanti l’orrore: è la festa di compleanno di una bambina, non ci sono alcolici.
Dentro di me cala un silenzio glaciale, persino gli orsi tacciono, gli albatros se ne stanno ad ali chiuse e aspettano che un mio grido disperato tagli l’aria. Invece me ne rimango lì, a fissare il tavolo pieno di bottiglie di stramaledetta acqua Sant’Anna e succhi di frutta biologici. Neanche una coca.
C’è mica qualcosa di frizzante? Sai, una botta di vita.
No, le bibite gassate e zuccherate fanno malissssimo ai bambini.
Ah già, i bambini.
Perché tu ai tuoi figli gliele dai da bere?
Io non ho figli.
Silenzio. Sguardo compassionevole. Occhi con un velo di trucco, sicuramente senza nichel o parabeni, che sfarfallano di lacrime trattenute. E la mano, con l’anello di Cartier e il suo carico di segreti coniugali, che mi appoggia sul braccio. Ah, mi spiace…
E la vedo che davanti a sé sta guardando il film della mia vita con lo stesso trasporto che dedica alle puntate di Un posto al sole, e mi vede nelle sale d’aspetto delle cliniche, mio marito che mi tiene la mano, io con il viso rigato di dolore appoggiato alla sua spalla, che aspettiamo di sapere se la fecondazione è andata a buon fine. E poi i referti del ginecologo, gli aborti, le porte dei bagni sbattute, le camerette con le pareti dipinte solo a metà e i lettini ancora incellofanati.
No, è che non ne voglio. Ho dovuto interromperle il film sul più bello. E lei ci rimane male, è evidente.
Niente più pietà. Ora mi riserva lo stesso sguardo che ha buttato a una delle torte sul tavolo: confezionata, piena di terribili sostanze chimiche, un artificio un po’ patetico. Tu non sei una vera torta, nessuno ti ha impastato con amore, sei il frutto insipido di meccanica di precisione e ingredienti di scarsa qualità.
Ah beh, scelta tua. È in difficoltà, forse in vita sua non si è mai trovata di fronte a un tale sconvolgimento delle normali convenzioni sociali. All’improvviso lei, sempre vissuta in una terra piatta, si è trovata di fronte all’idea di un mondo sferico. Panico. Stavolta vorrei toccarle io il braccio per rassicurarla. Non avere paura, non si tratta di un morbo infettivo, potrai continuare a credere che è il sole a girare intorno alla terra e che le donne siano programmate per fare figli.
Le sorrido, ma lei non ricambia. Si allontana sulle sue ballerine di Alviero Martini.
C’è una ragazza che mi sorride dal muro in fondo. Ha visto tutta la scena e dalla borsa mi lascia intravedere una bottiglia di Fanta. Si avvicina e me ne versa un po’ in un bicchiere.
Erano secoli che non la bevevo e ora, in mezzo a tutta questa acqua liscia, mi sembra la cosa più buona del mondo.
Lo so, non è facile. Ha una voce ma un po’ stanca, come i suoi occhi.
Oh beh, quando esco di qui mi vado a bere una birra. Lei ride, e la sala improvvisamente si chiude su di noi.
No, intendevo dire che non è facile avere a che fare con donne così. E fa un cenno verso la donna terrapiattista. Comunque piacere, sono Leda.
Che bello, c’è vita sulla terra.
Piacere, io sono Virginia. Ma attenta a parlare con me, sai io sono “quellasenzafigli”.
Ah, non mi interessa quello che pensano quelle stupide. A volte vorrei far parte anch’io del tuo club. È così penosa la piega sul suo viso che non riesco a pensare a un sorriso.
Tra di noi rimane un po’ di silenzio, di quelli così carichi che li puoi ascoltare. Senza che lei dica nulla, so che non vuole che io ci metta dentro delle parole. Aspetto.
È che a volte è così faticoso. Me lo dice di corsa, per non farsi travolgere dal senso. Poi si copre il viso con il bicchiere, buttando giù una sorsata enorme di Fanta amara.
Perché vuole parlare con me? Perché non scappa inorridita di fronte alla mia diversità, in questa stanza piena di unicorni e paladine della maternità?
Scusami se ti dico queste cose, ma forse qui dentro sei l’unica a non farmi sentire un mostro.
Ho sempre avuto un’idea diversa di mostro, bestioni con pelo lungo e zanne affilate, in grado di sputare veleno, e non ragazze con capelli neri raccolti in una coda, jeans e maglietta degli ACDC.
Non è truccata, e nell’occhiaie scure che le bordano gli occhi, nei puntini rossi che si intravedono sul mento e nelle sopracciglia in cerca di pinzette, c’è una stanchezza che non ha niente a che fare con le ore di sonno perdute e che io osservo con stupore. Sì, mi sembra così bella in questa sua resa.
Ho voglia di abbracciarla, ma non è questo ciò di cui ha bisogno.
Se i mostri sono tutti come te, allora portami nel tuo mondo! Eccolo il sorriso complice, è tutta un’altra persona. Sembra quasi lusingata dal mio leggero flirtare, ha abbassato le difese con una voglia tremenda di lasciarsi avvicinare.
Mi piacerebbe un po’ di compagnia, ci si può sentire così soli qui…
Una bella signora sui settanta si avvicina a noi con in braccio un demone urlante. Sotto le guance paonazze e falciate di lacrime, riesco a vedere una bambina così vicina alla perfezione di una bambola da far quasi paura. A un metro da noi, la piccola si divincola dalle braccia della signora e si getta tra quelle di Leda.
Scusami, non riuscivo più a trattenerla, ha fatto delle sceneggiate! Urla isteriche, si è buttata in terra, una tragedia! Tutto perché voleva “mamma”! Leda non la guarda nemmeno mentre parla, è un copione che conosce troppo bene. Si lascia cadere sulla sedia, mentre la bambina, assurdamente calma ora, le tocca i capelli e gli occhiali. Una di quelle bertucce dispettose che nei parchi ti rubano la merenda. E quando si volta per guardarmi, ho il sospetto che il suo viso non sia l’innocente rappresentazione della felicità, ma un ricatto morboso.
Vedi, cosa ti dicevo? Si è soli da morire in questo mondo. Mi dice, guardandomi dritta negli occhi. Virginia, ti presento mia madre, Giulia.
Piacere cara. Anche tu hai qui la tua piccola belvetta? Altrimenti perché dovrei essere qui?
No signora, non ho figli.
Oh beh, hai tempo, sei ancora giovane. Vado a prendermi una fetta di torta, volete? Non ci lascia nemmeno rispondere. Lei non ha il tempo di biasimarmi, perché non concede a nulla che non rientri nel suo canone di passare. Non vuole sapere il mio perché, ma coprire la mia evidente mancanza con la pezza dell’età.
Scusala, ha settantacinque anni di convinzioni sbagliate sulle spalle.
Non ti preoccupare, ho vissuto talmente tante volte questa scena che non mi fa più né caldo né freddo.
Sono serena, ormai non mi colpiscono più così facilmente.
Anche se ho passato un periodo brutto… ma lasciamo stare, acqua passata. Provo a sorridere, ma il ricordo si è già infilato tra le palpebre e brucia.
Mi appoggia la mano sul braccio. Stavolta ho i brividi. I nostri reciproci tormenti, gli sbagli, i dolori, si abbracciano e sentiamo che tutto quel peso, appoggiato su quattro spalle fa meno male, che il buio, guardato con quattro occhi, fa meno paura. Ma cosa posso dirle? Che sono stata da uno psicoterapeuta? Che ho tentato il suicidio, avvinta dal senso di colpa per essere ciò che sono? Crescere credendo costantemente di essere un errore, un inciampo della natura da osservare al di là di un vetro. Chi non soccomberebbe?
Io sono una lesbica che non vuole figli, una donna sbagliata due volte. Due cromosomi X entrambi difettosi.
E io sono una madre che non sopporta di sentirsi chiamare “mamma” milioni di volte in una giornata, che a volte prova istinti violenti nei confronti della propria figlia e si chiede perché ha fatto questa scelta.
Cazzo, siamo messe male. Butto lì.
Scoppiamo a ridere. Leda lascia sua figlia; lei vorrebbe ricominciare a piangere, ma non lo fa, troppo scioccata dalla madre, che scivola a terra e comincia a dimenarsi scossa dalle risate. Cado anch’io. E ridiamo e piangiamo. Nella sala è calato un silenzio imbarazzato, lo sfondo perfetto per le nostre urla gioiose, che rimbombano sulle pareti e sugli unicorni. Sento gli occhi indignati di Anita addosso, ma non me ne frega niente. Io e Leda finiamo per abbracciarci, così felici di aver trovato finalmente qualcuno in tutta la nostra desolazione. C’è vita, oltre il bordo di questa terra piatta.
Vorrei tenerla stretta a me per sempre e capisco, con la lucidità riservata solo ai momenti di verità assoluta, perché in fondo tutti quei bambini se ne stanno avvinghiati ai colli delle loro madri. E capisco quanto avrei voluto avere anch’io un collo così familiare da stringere.
Vi volete dare una calmata? La voce di Anita mi arriva da una galassia lontana e gelida. Un segnale radar sconnesso e pieno di interferenze. State spaventando i bambini.
Che cosa esattamente li spaventa? Due donne che si abbracciano? Le risate? Il permafrost che finalmente si scioglie?
Ah, quanta paura può fare la verità, vero Anita? Quanta paura può fare dire ad alta voce le proprie paure.
È per questo che ti piace così tanto sentirti chiamare mamma? Perché finalmente sei qualcuno?
Leda e io ci tiriamo su insieme. Invece di rifarsi la coda, si scioglie i capelli: il taglio è imperfetto, i fili bianchi sono impietosi, ma è tutto così puro. La guardo soddisfatta, liberarsi della maschera di angoscia che l’aveva nascosta anche a se stessa. La guardo fiera, come una madre con una figlia. E mi viene da ridere, al pensiero di quanto tutto questo potrebbe sconvolgere le giovani madri militanti assiepate intorno a noi come vespe.
Mamma prendi le giacche. Alice vieni, andiamo via. Leda tende la mano verso sua figlia. Nessun pianto né capriccio, nel suo mondo minuscolo e innocente lei comprende più di quelle donne che credono di contenere l’universo nell’utero, cosa è accaduto. E mi sento stranamente orgogliosa, per tutte e due.
Peccato però, avrei voluto salutarle meglio. Ma perché sono ancora qui? Seguo i suoi occhi e guardo in basso: Alice tende verso di me la sua manina destra, mi aspetta, devo andare con loro, non faccio forse parte della sua famiglia? Le sue dita aperte sono una dichiarazione di guerra all’ipocrisia: la afferro, e dopo tanto mi sento ripiombare nel mondo, avere di nuovo un peso, essere.
Anita mi guarda, ma il suo campionario di parole è scarno. Passami la bottiglia. Leda sorride, come chi è fuori allenamento e vuole tornare in forma.
Lancio la Fanta ad Anita. La afferra al volo, nonostante l’ingombro perenne sul suo braccio.
Beviti un sorso e ricomincia a respirare, che la terra non è piatta.



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