Numero 54 – Luglio/Agosto 2019

White lies

di Gaia Tomassini

 

“Sai cosa sono le White Lies?”
“No, non ne ho mai sentito parlare”.
“La traduzione sarebbe “bugie bianche”, ma il senso è che queste bugie non fanno male”.
“Vuoi dire che non sono vere bugie?”.
“Voglio dire che sono bugie a fin di bene”.

“Ciao blondie, com’è andata oggi?”. Mia mamma ha un sesto senso, telefona sempre appena mi siedo in treno; non so come fa, è sempre così. “Ciao mamma, tutto bene. Stanca, come al solito”.
“Così impari a lavorare…”, dice lei ridacchiando. “Per stasera hai programmi?”.
“Andrò in palestra e poi al cinema, danno The Green Book”, rispondo io a bassa voce.
“Ah già, quindi per cena non ti aspettiamo?”, mi chiede. “No, magari mangio qualcosa quando torno”.
“Va bene, come vuoi”, risponde lei; “Un beso, a dopo”. La saluto e metto giù.

Tiro fuori un libro e di nuovo vengo interrotta: “Signorina, lei ha una voce gentile”. È un signore anziano seduto vicino a me, a giudicare dal bastone bianco e dagli occhiali da sole alle 18.10 deve essere cieco. Mi viene un po’ da ridere per il suo commento, mi chiedo se penserebbe la stessa cosa se sapesse dei miei jeans strappati, dei rasta e del piercing al naso. Ma non li vede, sente solo la mia voce, e a quanto pare è la voce di una persona gentile.

“Grazie”, gli rispondo io sorridendo, anche se lui non lo può vedere. Ma forse il timbro cambia se chi parla è felice, può essere? Secondo me sì.
“Lo sa signorina, è la prima volta che torno a Trieste dopo più di trent’anni, sono partito questa mattina da Salerno”, continua il signore. Parla lentamente, e per una volta non mi dà fastidio che qualcuno mi dia del lei.
“Davvero?”, gli dico io; “e come mai viene a Trieste?”.
“Non lo so, a dire la verità. Qualche giorno fa mi è venuta voglia di tornare dove sono stato bene, e così ho deciso di prendere il treno e di salire su al nord”.
“Abita a Salerno?”.
“Sì, da molti anni”, risponde lui, e si vede che ha voglia di parlare. “Mi ero trasferito a Trieste, lo sa, per amore… mia moglie era triestina. È mancata trentuno anni fa. Ironico a dirsi ora, ma dopo la sua morte la continuavo a vedere ovunque, in ogni strada che attraversassi. Sa, Trieste era la nostra città, non la mia. Vivevo cercando il suo fantasma. Dopo un po’ ho capito che così non stavo bene, e allora ho raggiunto mio figlio e la sua famiglia a Salerno”.

Mi immagino il signore che ho davanti quarant’anni fa, senza occhiali da sole e bastone: lo vedo che tiene sottobraccio una donna; sorridono entrambi.

“E lei cosa fa su questo treno, signorina?”, mi domanda dopo un po’. “Torno dal lavoro, sono salita a San Giorgio di Nogaro”.
“Hmm hmm”, annuisce il vecchio. “E dove abita a Trieste?”.
“Se lo ricorda il Giardino Pubblico? Io sto lì vicino”, rispondo.
“Certo, i miei suoceri abitavano in quella zona. Là c’era il teatro Rossetti, quello che oggi ha le stelle sul soffitto; c’è ancora?”, mi chiede il signore.
“E’ sempre là, sì, è il mio preferito”, confermo.
“Bene, bene… e la piscina Bianchi, quella sul lungomare, c’è ancora? Lì mia moglie mi insegnò a nuotare, lo sa che quando arrivai a Trieste avevo paura del mare?”, mi domanda lui aggrottando la fronte.

Il sorriso mi si gela un po’, la Bianchi no che non c’è più; l’hanno demolita nel 2005. Lo guardo, ho meno di una frazione di secondo per decidere cosa fare: nella sua mente probabilmente rivede sua moglie in quella piscina, mentre gli insegnava a mettere la testa sotto l’acqua, a fare il movimento della rana.

Devo proprio dirgli che la Bianchi non c’è più? Che male ci sarebbe a fargli credere che quella Trieste, quei luoghi cui è affezionato, sono ancora là?

“Sì”, gli rispondo, “è sempre lì. Anch’io ho fatto i primi corsi di nuoto in quella piscina, si ricorda che acqua fredda c’era?”. Beh, è una mezza bugia, l’acqua era davvero fredda.
“Eccome se me lo ricordo, per entrare mia moglie ci metteva tantissimo!”, dice lui ridendo.

Mentre lo ascolto raccontarmi delle loro lezioni di nuoto mi dico che ho fatto la cosa giusta a mentire.

“E se voglio andare ad Opicina, signorina, il tram lo trovo in funzione?”, mi chiede lui speranzoso. Tiro un sospiro di sollievo: quello sì che esiste ancora!
“Certo che lo trova, va su lentissimo ma inesorabile. Con l’autobus ci metterebbe di meno, ma scommetto che preferisce andare in tram”, gli rispondo sorridendo. Il signore annuisce: “Ha ragione signorina, io non ho fretta. E lei, va mai a Opicina?”.
“Ogni tanto, la mia migliore amica abita lì”, rispondo io.
“E la sua migliore amica parla sloveno, come quasi tutti in Carso?”, mi chiede lui.
“Qualche parola, non di più”.
“Lo sa che quando vivevo a Trieste ogni giorno arrivavano autobus carichi di slavi che venivano in città per comprare i vestiti alla moda? Andavano tutti da Giovanni, vicino alla stazione; c’è ancora?”, mi chiede.

Mi sembra di sentir parlare mio nonno quando mi raccontava della sua infanzia a Trieste. Mi aveva parlato di Giovanni, i suoi colleghi slavi in fabbrica fingevano di lamentarsi delle mogli spendaccione. “Io lavoro tutto giorno, tutta settimana, e poi lei in mezza ora da Giovanni spende tutto. Tutto! Hai capito Franco?”, dicevano a mio nonno con il loro tipico accento, con la “l” strascicata e le parole duramente scandite. Ma, ridacchiava mio nonno, mentre lo dicevano un po’ gli veniva da sorridere, perché erano contenti che le mogli si potessero permettere di fare acquisti da Giovanni e una volta al mese li venissero a trovare.

Giovanni oggi non esiste più. Mio nonno mi aveva detto che il giorno in cui aveva chiuso era stato una sorta di lutto nazionale in Jugoslavia, e non voglio che lo stesso accada anche all’anziano signore che ho davanti. “E’ un po’ cambiato”, azzardo io, “ma il locale è ancora in piedi”. Anche qui una mezza verità, per stare più tranquilla con la coscienza.

Continuiamo a chiacchierare finché arriviamo a Trieste. Lo aiuto a scendere e lo accompagno ai taxi.

Mentre cammino la borraccia che ho nella borsa si muove facendo rumore: “Cos’ha lì dentro? Sembra uno di quei gingilli tibetani che chiamano gli angeli”, mi chiede il signore.

“E’ solo una borraccia ancora un po’ piena, purtroppo; è di metallo e ha un moschettone attaccato”, rispondo io.
“Beh, magari gli angeli si confondono e vengono lo stesso, anche se è solo una borraccia. Non sarebbe una bella cosa?”.
“Sarebbe bellissimo”.

Mentre il taxista mette nel bagagliaio la valigia, si volta verso di me: “Signorina, la sa una cosa?”.

“Mi dica”, rispondo.
“Lei è tanto gentile, ma non sa mentire”.

Sento un piccolo tuffo al cuore, temo di averlo offeso con le mie mezze bugie.

“Non ha sempre detto la verità su Trieste, vero?”, continua lui. Io borbotto qualcosa, senza guardarlo in faccia pur sapendo che comunque non mi vede.
“Però la sa un’altra cosa?”, continua lui sorridendo; “è come quando si diventa grandi e si scopre che Babbo Natale non esiste: è così bello crederci, che anche sapendo la verità ci piace credere al paffuto omino rosso che entra nei camini e porta doni ai bambini.

Così è per me Trieste: lo so che la città non è più quella in cui abitavo. Ma per quanto io possa fare, ormai non la vedo; le stelle del Rossetti non le posso apprezzare, e alla Bianchi senza mia moglie non entrerei a prescindere. Lei deve aver pensato lo stesso, che quelle che mi diceva erano delle bugie che male non fanno; e aveva assolutamente ragione. Quindi la ringrazio, perché con i suoi racconti ha mantenuto intatti i ricordi di un anziano sentimentale. Abbiamo fatto davvero del male a qualcuno raccontandoci e affidandoci a delle piccole bugie? Io non credo. È stato un piacere parlare con lei, signorina; arrivederci”.

E con queste parole entra nel taxi, lasciandomi sul ciglio della strada a mormorare un saluto che probabilmente non ha sentito e ad agitare inutilmente la mano.



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