Ogni oggetto di quel fottutissimo trolley
di Massimiliano Piccolo
Ti avrei baciato per bene, se soltanto lo avessi saputo.
Ti avrei dato uno di quei baci che si danno forte, fortissimo, un po’ per cercare di trasmettere tutta la forza che si vorrebbe imprimere.
Come se quella forza fosse il termometro dell’amore che si prova.
Sarebbe stato un bacio un po’ a stampo e un po’ passionale.
Uno schioccare dal sapore erotico.
Non so spiegarlo.
Sono sempre più confusa.
Purtroppo la maggior parte delle azioni sono più semplici da mettere in pratica che da definire.
Soprattutto in certi momenti.
Soprattutto in questo maledettissimo momento.
Perché sei partito come sempre, per il tuo lavoro.
Quel lavoro che ti portava troppe volte e troppo spesso via, lontano, lontanissimo da me.
Dalla nostra casa.
La casa che abbiamo arredato insieme, giorno dopo giorno.
Mentre tu intanto ti preparavi con l’aria di sufficienza di chi ci era ormai abituato.
L’aria di chi se ne andava a prendere l’autobus, magari per quattro cinque fermate per poi entrare in ufficio.
Invece no.
Non era vero.
Era tutto diverso.
O forse eri soltanto tu ad essere diverso.
Tu stavi per salire sul solito aereo che ti rendeva un nervoso pendolare tra un oceano e l’altro.
Ed io lì a guardarti, come sempre.
Un passo indietro per non disturbarti.
Come ogni volta.
Un passo indietro per riuscire ad inquadrarti tutto.
Dalla testa sino ai piedi.
Mentre ti pettinavi in qualche modo.
Con quel trolley nero di massimo otto chili cinquantacinque centimetri di altezza trentacinque di larghezza e venticinque di spessore.
Ricordo bene dov’era.
Ti aspettava all’ingresso.
Te lo portavi sempre appresso.
Era lo stesso che ascoltava in disparte mentre mi dicevi Torno presto amore.
Le parole che dicevi ogni volta.
Con la consueta cantilena di chi ripete una formula matematica.
Un teorema inconfutabile.
Un’equazione in cui avresti potuto metterci più amore.
Almeno questa volta.
Soltanto questa volta.
La volta in cui hai promesso ciò che non hai saputo mantenere.
Nonostante tutto non riesco ad odiarti.
Anche se lo vorrei tanto.
A saperlo ti avrei chiesto di pettinarti come piaceva a me.
Magari per vederti un’ultima volta come quando ti piaceva stupirmi, come le prime volte.
Quando ancora non ti appartenevo.
Quando ancora non mi appartenevi.
Ogni oggetti di quel fottutissimo trolley
Quando ancora temevamo di perderci.
Quando un coltello di dolore non aveva ancora tranciato via tutto questo.
Invece no.
Spettinato, ti sei trascinato via quel trolley nero che ti aspettava alla porta.
Fedele come un cane di plastica.
Una protesi rotolante per il tuo braccio muscoloso.
Mi hai dato quel bacio sulla bocca che ho dimenticato.
Subito.
Un bacio che sapeva di poco.
Un bacio troppo celere che non sono riuscita a fermare.
Poi ti sei voltato lasciandoti la porta blindata alle spalle.
Sono riuscita soltanto a chiuderla.
E ad ascoltare i tuoi passi scendere energici dalle scale.
Coordinati con quello stupido trolley che sbatteva ogni due o tre gradini.
Ti sei congedato così.
Prima ai miei occhi, poi alle mie orecchie.
Congedato o svanito.
Svanito o andato.
Per l’eternità.
Senza poter più fare ritorno.
Non appena l’ho saputo, non sono riuscita a piangere.
E’ stato strano.
Certe notizie sono talmente orribili che neanche riescono a scenderti le lacrime.
Ricordo che ero sola in casa e che sono rimasta accovacciata sul divano.
Mentre me lo dicevano, per telefono, mi è venuto soltanto da odorare la nostra coperta.
Quella sul divano, quella che sapeva di noi.
Mi sono accorta di quello che mi hanno detto, solamente quando sono andata in bagno.
Quando mi sono guardata allo specchio.
Perché è quando ti guardi allo specchio e sai che proietterà soltanto la tua immagine, che lo capisci davvero.
E allora piangi, ti disperi. Fissi il tuo volto che quasi si disgrega.
Il tuo corpo che trema. La tua voce che urla.
Dentro, fuori, ovunque.
Per cercare di farsi sentire.
Magari dal mondo che ti osserva in silenzio senza sapere come consolarti.
Magari da te che ti sei ficcato chissà dove.
Ma non qui.
Con me.
Al mio fianco.
Ed io che speravo che tutto fosse finito.
Invece qualche giorno dopo il tuo funerale è arrivato qualcosa.
Quel tuo fottutissimo trolley.
Quello che quell’ultima volta hai deciso di imbarcare.
Quello che non ha fatto scalo.
Quello che è arrivato diretto all’aeroporto.
E che tu non hai potuto ritirare.
Stronzo che non eri altro.
Non appena è arrivato a casa, non so nemmeno come, l’ho lasciato all’entrata.
Per qualche giorno l’ho guardato, come se ti avesse tradito.
Poi mi sono chiesta perché.
Perché non ti ha seguito nella sventura che mi ha rovinato la vita.
E per quale motivo hai deciso di imbarcarlo.
Non appena me lo hanno recapitato, ho pensato ad una beffa.
Ad uno scherzo.
Un bruttissimo scherzo.
Tuo o forse del destino.
Poi ho pensato che forse era semplicemente troppo pesante.
Così l’ho preso per la maniglia e l’ho appoggiato vicino alla porta d’entrata.
Lì ci è rimasto, nella medesima posizione, sigillato, per qualche settimana.
Quando gli passavo di fianco, lo guardavo.
Mi ci fermavo davanti, indecisa se aprirlo oppure no.
Poi, un giorno in cui giravo per casa, pensandoti, mi sono decisa.
Mi sono avvicinata con passo delicato e fare indeciso.
Non sapevo se fosse giusto o sbagliato.
Se significasse viverti ancora un po’ attraverso quei tuoi oggetti.
Attraverso l’odore dei tuoi vestiti e quel tuo disordine così imbarazzante.
Poi mi sono decisa e l’ho aperto.
L’ho spalancato e tutto il tuo mondo è uscito fuori.
Tu sei tornato da me. Con il tuo profumo, i tuoi vestiti e e tutte le cose che ti portavi in viaggio.
Muovendo le mani là dentro, dopo qualche attimo mi ha preso paura.
Non sapevo cos’altro potessi trovare.
Magari qualcosa che non volevi che io trovassi.
Mi sono fermata. Con le mani e le dita bloccate in mezzo ad un maglioncino di Cashmire.
Sembravo quasi una pianista che aveva appena finito la migliore delle esecuzioni.
Sono rimasta ferma qualche istante e poi ho l’ho richiuso.
Con quella strana sensazione di colpevolezza che mi scorreva lungo tutto il corpo.
Ho pensato che non potevo rovistare troppo in fretta.
Non potevo permettere che il tuo respiro terminasse così rapidamente.
Così ho deciso di aprirlo ogni giorno.
Prendendo un pezzo di te ogni singolo giorno.
Prenderlo, annusarlo, studiarlo e poi amarlo, magari indossandolo per tutto il giorno e portandolo a letto con me.
Così il nostro lettone è tornato ad essere della giusta dimensione.
Perché senza te era troppo, troppo grande.
E le notti identiche sterminate come i paesaggi della Patagonia.
Quelli che abbiamo visto soltanto nei documentari.
La domenica pomeriggio, io e te, sul nostro divano, sognando il giorno in cui ci saremmo andati.
Devo ammettere che è stato un piacere sterminato ritrovarti nel tuo trolley.
Ti ho scovato negli oggetti e nei piccoli spazi vuoti tra un oggetto e l’altro.
Negli appunti scritti a mano del tuo lavoro, nelle camicie bianche usate, persino nelle mutande.
Ovunque.
Un pezzo alla volta per non esaurire la scoperta.
Per non demolire il tuo ritorno.
Ogni notte ho messo un pezzo diverso.
L’ho accarezzato, ci ho fatto l’amore e poi ci ho dormito.
Insieme.
Sino alla mattina successiva.
Quando il letto continuava a sapere di te.
Di noi.
Di tutto quello che siamo stati.
Di tutto quello che ti sei portato via.
Di quel poco che di te è ritornato.
Dentro a quella stupida valigia con le rotelle.
Dove c’è l’ultima parte di te.
Quella che non ho potuto godermi.
Perché un aereo ti ha fatto volare via.
Per sempre.
Da me e da ogni desiderio.
Dal presente affilato e dal futuro impensabile.
Per me, senza te.
Senza noi.
E la sai una cosa?
Mi viene quasi da sorridere.
A pensare che tu sia volato via.
Perdendo quota, precipitando.
Chilometro dopo chilometro.
Sino a tuffarti in quel mare infinito.
E penso alla fortuna dei pesci.
Che in mezzo al terrore di quell’attacco.
Di quella enorme balena di metallo.
Magari ti hanno visto una prima ed ultima volta.
Poco fuori da quell’oblò.
Spettinato, splendido sino alla fine.
Alla tua e alla nostra.
A quella di un sogno svanito.
Fuori dalle rotte tracciate.
Dentro un oceano lontano.