Antica macelleria Marconi
di Luca Giommoni
L’Antica macelleria Marconi è stata fondata nel 1853 da Vittorio Marconi.
La tradizione delle carni pregiate è oggi portata avanti dai nipoti, Ennio e Sergio Marconi.
L’Antica macelleria Marconi apre alle 6 e chiude alle 20, tutti i giorni, festivi inclusi.
Vuoi perché i conti da pagare c’erano sempre e il clima particolarmente ostile non prometteva grandi guadagni, vuoi perché, ogni giorno, con Giolitti, per portare le derrate in paese, doveva attraversare la proprietà del vecchio Scapecchi e inventarsene di tutte per non farsi vedere ed evitare una fucilata, vuoi perché si sentiva in colpa a vedere Giolitti, non più di primo pelo, crollare nella stalla a fine giornata dopo avergli fatto fare tutti quei chilometri per arrivare in paese, vuoi perché vivere con la nonna, di sotto, era uno strazio che neanche un santo sarebbe riuscito a sopportare, mio padre, quando mia madre rincasò, tutta arrossata, in piena notte, iniziando a nominare la parola divorzio, le mollò un ceffone che sperai di non provare mai.
Mia madre cadde per terra, abbandonata a un pianto tenuto in serbo da ancor prima della sberla. Il tonfo sul pavimento fu tale da attirare l’attenzione, sempre vigile, di mia nonna, che non ci mise molto a farsi due rampe di scale e a presentare le nocche sul nostro portone.
Mia madre piangeva come un’ossessa. Mio padre si copriva il volto come se fosse colpevole di aver portato il peccato sulla terra. La nonna continuava a bussare alla porta, sembrava volesse sfondarla.
Non sapendo se il vociare la parola divorzio ti facesse meritare uno schiaffo come quello, non andai a consolare né mio padre né mia madre. Feci entrare la nonna per paura che a tonfare in quel modo le prendesse un colpo. Entrò tutta in affanno e guardò suo figlio ritto in un angolo della stanza e sua nuora disperata sul pavimento. Nemmeno lei si diresse verso l’uno o l’altra. Rimase a inveirgli contro da qualche mattonella dopo la soglia della porta. Mia nonna, però, aveva già sentito la parola divorzio, visto quanto ne parlò la mattina dopo.
Grazie all’Antica macelleria Marconi il paese e i confinanti possono gustare carne sempre fresca e vantare due modi di dire usati spesso tra le mura domestiche e pronunciati con emozioni opposte: voglio un bel taglio di qualità e fare spazio in cantina.
Ennio e Sergio Marconi, invece, possono vantare un taglio di capelli identico, dei baffi identici, delle sopracciglia identiche nel farsi capire senza disturbare le parole, una fotografia in bianco e nero che li ritrae identici a come sono, tutti i giorni, dietro al banco carni, e di cui si contendono la proprietà.
L’insegna del negozio fu fatta, diceva Vittorio Marconi, da un artista che poi espose anche a Milano. Negli anni, non è mai stata cambiata.
Quella mattina, colazione si fece giù da nonna. Mio padre cercava più del solito la mano della moglie. Mia madre un po’ gliela concedeva e un po’ la ritraeva. Tutti avevamo davanti una zuppa di cipolle. La nonna, la zuppa, ce l’aveva tutta colante sulla bazza mentre rimproverava al figlio il fatto di non averla mai voluta ascoltare quando gli diceva che un uomo solo non ce la fa a stare dietro a quelle nate a novembre. Lo diceva sotto la faccia di mia madre, che la guardava con l’aria di chi vorrebbe odiare ma riesce solo a manifestare un desiderio di indulgenza.
Mia nonna non sopportava lo scusarsi di mio padre dopo che quella se n’era tornata a casa da chissà dove e aveva accennato al divorzio, che per fortuna era ancora lontano, oltreoceano, diceva la nonna, con una smorfia soddisfatta, guardando mia madre.
− È la fine dei giorni, lo sai, vero? – le domandò con fare inquisitorio.
Mia madre scoppiò in lacrime e mio padre ricominciò ad accampare scuse e giustificazioni.
Diceva che loro non lo sapevano, non gliel’aveva detto, ma Giolitti stava iniziando a perdere colpi, non ce la faceva più a portare tutta quella roba per tutta quella strada; in più, temeva che, un giorno o l’altro, quel pazzo dello Scapecchi gli avrebbe tirato una fucilata e avrebbe accoppato il mulo, solo per dispetto, costringendolo a non passare più per la sua proprietà e obbligando la sua famiglia alla fame.
Si lamentava, gesticolando per narrare meglio, che, l’ultima volta, quella carogna di prima categoria dello Scapecchi si era finto spaventapasseri, li aveva aspettati, e, al loro passaggio, aveva sparato un colpo in aria spaventando Giolitti, che si era messo a correre, come gli riusciva, e il carretto si era rovesciato assieme a tutta la merce. Inoltre, la merce era sempre meno, lui allevava e coltivava il più possibile ma l’orto aveva subito un duro colpo in inverno e la febbre si era portata via due maiali. Il guadagno se lo mangiava tutta la strada da fare sul carretto per non passare dalla proprietà dello Scapecchi, e non poteva caricare più di così Giolitti, già ce la faceva a malapena.
Mia nonna iniziò a sbattere i pugni sulla tavola, pareva che, anche se non lo dava a vedere, la divertisse picchiare sulle cose. Non tollerava vedere il figlio mortificarsi. Lui non doveva scusarsi, gli diceva, rinfacciando a mia madre l’aver nominato il divorzio dentro casa e intanto faceva delle specie di croci in aria come a esorcizzare chissà quale demonio. Al figlio, criticava la mancanza di dignità, e dalle croci passava al muovere le mani, a forma di corna, sopra la testa.
Mia madre con uno scatto improvviso che stupì tutti afferrò la mano di mio padre e se la strinse forte al petto. In lacrime, lo supplicò di smettere di umiliarsi.
– Me lo sono meritata – disse con una voce strozzata dal pianto. – Tu fai così tanto per me e per il bambino – e mi guardò.
Mio padre abbassò la testa. La nonna continuava a dire la sua ma con un timbro di voce più basso. Mia mamma prese tra le mani il viso del marito e lo portò all’altezza del suo.
– Perché non ci compriamo uno di quei camioncini per portare la merce in città – gli propose.
− Un Fiat 621N – esclamò mio padre come riportandosi alla mente un sogno da sempre desiderato.
− E i soldi? – vociò la nonna.
− I soldi si trovano – disse mia madre.
− Ah, e dove?
Mio padre fece un cenno alla nonna per dirle di farla finita. Poi stette a fissare gli occhi di sua moglie, lucidi, e pensava che tutto quel luccicore fosse di speranza.
− I Marconi potrebbero aiutarci – bisbigliò mia madre.
La nonna sbottò. Smise di mangiare e si alzò con disgusto. E la nonna non si alzava mai se non aveva prima pulito il piatto.
− Tuo padre – minacciò al figlio – non si è mai servito da quella macelleria. Vergognati! E tu, strega, non solo osi nominare il divorzio ma hai anche il coraggio di portare quel cognome in casa nostra! – e se ne andò fuori a governare gli animali. Dal pollaio, continuava a dire che il suo povero marito era morto, sì, ma di malattia, come dovrebbero morire tutti.
− Forse ha ragione – singhiozzò mia madre accarezzandogli la guancia. – Non ci sono altri modi?
− Con un 621N potrei arrivare in paese come niente. Immagina quanti viaggi potrei fare. Sarebbero solo 20 minuti – illustrò mio padre come se inseguisse certe sue visioni. – Anche se il raccolto non sarà dei più grossi, con un camioncino potrei portare in paese anche le scorte − e sorrise al solo pensarlo possibile.
Mia madre lo interrogò, con un’espressione desiderosa di rilasciare un sorriso, per chiedergli le reali possibilità delle sue parole.
Mio padre, con la testa, fece cenno di sì. Mia madre mi guardò e, con una risata che poteva sembrare anche un singhiozzo, iniziò a commuoversi.
Stringendosi il viso a vicenda, sancirono con gli occhi la soluzione alle loro pene.
− E Giolitti? – si rammentò mio padre con gli occhi pieni di preoccupazione per le sorti del mulo.
Mia madre si abbandonò al busto di mio padre. Risalendo piano, come per espiare una colpa, gli arrivò alle labbra.
Nel bacio di mio padre c’era amore, così come ce n’era nello schiaffo della sera prima, ma di un umore differente.
All’Antica Macelleria Marconi se chiedi un bel taglio di carne pregiato, non stai chiedendo carne, ma altro.
All’ingresso dell’Antica macelleria Marconi, fermo in un angolo, c’è Vincenzo Marconi, cugino dei fratelli. Ha sempre le scarpe sporche di terra. Secondo mia nonna, non per il coltrare.
Mio padre andò da solo all’Antica macelleria Marconi, mia nonna m’impedì di accompagnarlo.
Chiese tre bei tagli di carne pregiata e, quando tornò, dopo qualche giorno, guidava un camioncino Fiat 621N.
Al rientro, facemmo tutti festa, tranne la nonna. Se ne andò a passeggiare per i campi lasciandosi dietro il presagio che la fine era appena cominciata.
Il primo a essere trasportato dal camioncino fu Giolitti. Mio padre lo caricò sul cassone e partì.
Giolitti se ne stava immobile a cercare di capire la strada che si lasciava dietro senza aver mosso le zampe, fissando la polvere sollevata dall’andatura lenta delle ruote. Tutte le altre volte che mio padre guidò il Fiat lo fece sempre con un sorriso sulle labbra, ma non quella volta.
Tornò per cena, con il cassone pieno di mangime. Nessuno disse niente.
I tempi che seguirono furono di grande entusiasmo. Mio padre sembrava non volesse far altro che guidare tutto il giorno e trasportare merci.
Mia madre, certi giorni, giocava con me, altri se ne stava chiusa in camera a parlare da sola. Quando mio padre rincasava, si faceva trovare sempre fuori ad attenderlo.
Solo la nonna continuava a ripetere al figlio che sarebbe finito in cantina e che la colpa era tutta della strega che si era preso come moglie.
Nel poco tempo libero, mio padre insegnava a guidare a mia madre. Sembravano divertirsi.
Mio padre arrivava in paese, e in città, molto più velocemente e senza dover passare dalla proprietà dello Scapecchi. I guadagni aumentavano, ma mia nonna, assumendo una posa da pensatrice, faceva notare al figlio che, finché i giorni avessero continuato ad avere solo 24 ore, ci avrebbe messo anni a ripagare i tre bei tagli pregiati.
Mia madre gli chiedeva se era vero, senza particolari inflessioni sul viso. Mio padre la tranquillizzava lo stesso, pensando fosse in apprensione. Così come, nei mesi successivi, mi tranquillizzava sugli occhi neri, sul mal di ossa, sulle unghie staccate, sui denti mancanti, con cui, all’improvviso, si ripresentava a casa.
Mia nonna scoppiava in pianti isterici e correva a coprire tutti gli orologi come se, così, potesse interferire con lo scorrere del tempo.
Mia madre evitava le ferite di mio padre e se ne stava sempre più in disparte. All’elemosinare carezze di mio padre, spesso, replicava girandosi dall’altra parte.
Una domenica tornavo da messa con mia nonna. Mentre si aspettava l’autobus, davanti a noi, dall’altra parte della strada, il cugino Vincenzo Marconi si affacciò dentro la macelleria e domandò ai fratelli se avessero fatto spazio in cantina. Anche se ero fuori, dal lato opposto, e la gente attorno a me faceva rumore, riuscì a sentire cosa risposero i fratelli Marconi.
Due giorni dopo, mio padre sparì.
Partì con il camioncino, di mattina, come sempre, ma non torno più.
Il giorno dopo il Fiat 621 era parcheggiato nel vialetto d’ingresso.
Ennio e Sergio Marconi hanno tirato a sorte per decidere chi dei due si sarebbe sposato per proseguire l’attività di famiglia e il prestigio dell’Antica macelleria Marconi.
L’Antica macelleria Marconi ha chiuso solo una volta: il giorno della morte di Vittorio Marconi.
Poco dopo, mia madre partì con il camioncino e non la vidi più. Dice che sia emigrata in America e non da sola.
Mia nonna impazzì. Cercava ovunque il figlio scomparso. Bussava a tutte le porte e strattonava tutte le maniche per farsi dire dove fosse finito mio padre. Malediceva mia madre, piangeva suo figlio e si era completamente dimenticata di me.
Non cucinava più né per lei né per me, solo per gli animali. Andava a portarglielo e, intanto, controllava che il figlio non fosse nascosto nelle gabbie o nei recinti.
Ai richiami più dolorosi dello stomaco, gli ricordavo la mia presenza. Lei si scusava di cuore e diceva che avrebbe preparato subito qualcosa da mangiare, prima, però, doveva ritrovare mio padre, poi avremmo mangiato tutti insieme. Mi ricordava l’importanza di condividere il pasto con il proprio padre. Ma mio padre non si trovava e io ero costretto a intrufolarmi nel pollaio e a mangiarmi crude le uova delle galline. In quel periodo andai avanti così.
Lo stesso giorno in cui alla radio annunciavano la conquista di Zagabria da parte dei comunisti, mia nonna montò in bicicletta alla volta dell’America. Alla ricerca di mia madre, per vendicare il buon nome del figlio, diceva. Farneticò qualcosa a proposito dei Marconi e se ne sparì oltre il vialetto d’ingresso.
Non vidi più neanche lei.
Mi portarono dalle suore.
Da quando iniziai a fumare, di nascosto, con gli altri ragazzi, in bagno, alla mia fuga passò poco. Pioveva sia quando scappai sia quando giunsi in città. Qualche notte la passai in dei vicoli sotto a delle grondaie e finì in ospedale con una bronchite.
Mi rimandarono dalle suore. Ci stetti per i successivi 7 anni. Poi uscì.
Mi feci una vita, arrangiandomi con quello che trovavo: lavoretti, ragazze, favori, amicizie, mazzette, scazzottate, bische.
Certe volte, anche se ero poco più di un ragazzo, sentivo tutta la vita del mondo pomparmi in petto e il non sentirmi impreparato rendeva i miei passi più sereni e una leggera felicità mi bagnava lo spirito.
In paese ci tornai solo una volta.
L’Antica macelleria Marconi è rimasta aperta fino al 12 luglio 1957, un venerdì, il giorno in cui, passando dallo sguardo indagatore del cugino Vincenzo, entrai in macelleria.
Notai la fotografia dei fratelli Marconi sul banco carni, l’immagine di uno dei due era coperta da una cartolina proveniente dall’America.
Mi rivolsi all’unico fratello e gli chiesi se avesse un bel taglio pregiato.
Il cugino Vincenzo sfondò quasi la porta per entrare e prendere la mira. Io tenevo già la rivoltella in mano.
Quella rivoltella l’avevo avuta vendendo un vecchio anello di mia nonna.