Oggetti abbandonati
di Elena Ramella
«Che cosa ci facciamo qui?» chiese il quaderno alla cornice vuota.
«Non ne ho idea» rispose lei in un sussurro.
La mansarda era buia e silenziosa. La luce della luna filtrava attraverso le finestre e cadeva sul pavimento di marmo bianco in pozze luminose. Tutto era immobile, addormentato. Gli oggetti respiravano a malapena, abbandonati al loro eterno essere nulla, al loro eterno essere dimenticati. Sulle mensole degli scaffali arrugginiti, sui tavoli, sulle sedie pieghevoli, accumulati, ovunque, senza una logica o un ordine, riposavano nella loro malinconia. Avevano smesso di chiedersi come fossero finiti lì, perché la risposta avrebbe fatto troppo male; semplicemente, non erano più utili a nessuno. Avevano smesso di contare i giorni che passavano, i mesi, gli anni, e si erano rassegnati, abbandonando ogni speranza di poter, un giorno, essere riportati alla luce. Avrebbero per sempre costituito il sottofondo della vita, presenti, da qualche parte nella memoria degli uomini e nelle loro vite.
La polvere ricopriva ogni cosa. Tutte le superfici, lisce, ruvide, tonde, bombate, piane, sembravano ricoperte da una patina di argento vecchio, o da un sottile strato di velluto grigio sofficissimo. La polvere era ciò che rimaneva, ciò che si depositava, ciò che una volta raccolta in un mucchietto non si poteva più ricomporre, ciò che sarebbe rimasto disgregato per sempre.
«Non riesco a capire» disse il quaderno. Stava stretto nella busta di carta in cui era stato infilato insieme alla cornice, ma non si mosse per paura di fare rumore.
La cornice sospirò.
«Sono vuota. Mi sento vuota.»
«Lo so, lo vedo. Perlomeno io sono ancora integro, dentro di me ho ancora tutte le pagine.»
«E’ lì, la foto che portavo dentro.» disse indicando un mucchietto di carta lucida sotto di loro; in un frammento dai bordi irregolari c’erano tre quarti di un volto sorridente, strappato da tutto il resto, da chi gli stava accanto.
«Che strano. Fa impressione, non trovi? Sembra la testa di un decapitato che è rotolata giù dal patibolo ed è caduta sulla ghiaia.»
Poi rimasero in silenzio ad ascoltare il silenzio della notte. Le ore passarono, la luna si spostò, illuminando anche loro, togliendoli dall’ombra. L’orologio a pendolo del salotto sotto di loro batté tre rintocchi che vibrarono per tutta la casa; a loro giunsero lontani, affievoliti, ovattati, come da un’altra dimensione.
«Abbiamo fatto qualcosa di sbagliato secondo te?»
«No. Noi non ne possiamo nulla. Noi non abbiamo fatto nulla di male. Non abbiamo colpe. Siamo solo oggetti, ma un tempo siamo stati qualcosa di più, abbiamo rappresentato qualcosa di più. Abbiamo significato qualcosa di più importante.»
«E ora siamo qui.»
«E ora siamo qui. Perché siamo pregni di quello che siamo stati, perché ancora rappresentiamo qualcosa, qualcosa che non vuole più essere visto.»
Un biglietto del cinema si tirò su. La scritta in nero che un tempo aveva riportato il titolo del film, l’ora e la data era ormai sbiadita.
«Io non so neanche più chi sono» disse.
La cornice ed il quaderno lo guardarono. Effettivamente era pallido, con solo delle ombre nere al posto delle lettere, illeggibili.
«Sono stato anche io qualcosa. Un biglietto comprato, insieme ad un altro mio gemello, in coppia, strappati alla biglietteria, tenuti in tasca, usati come segnalibri, tenuti con devozione per quello che significavamo. Ora non so dove sia il mio gemello, e non so neanche più perché esisto.»
Detto ciò si lasciò cadere all’indietro e scomparve nel buio bianco dell’ammasso di carta dal quale era venuto fuori.
La cornice ed il quaderno rifletterono su quella cosa. Era vero. Loro erano gli esponenti materiali, erano la parte concreta, ma quello che avevano rappresentato per i loro proprietari non sarebbe mai scomparso dalla loro memoria.
«E’ il destino che ci spetta. È normale, è naturale, penso.» disse la cornice.
«Io sono stato scritto con amore, passione, paura. Sono stato scritto per rimanere, per essere portato dall’altra parte del mondo, per mantenere un contatto, per fare da tramite nonostante la lontananza. Sono stato scritto, e poi sono stato letto. Sono stato anche annusato. Sono anche stato bagnato di lacrime. Ora sono qui, accanto a te, cornice, nel nulla di questa mansarda, in una dimensione in cui non esiste più il tempo, né lo spazio. Galleggiamo. Eppure so, che quello che sono stato, loro lo ricordano. So che ricordano il profumo delle pagine.»
«Certo che si ricordano di noi. Non ci hanno messi qui per dimenticarci, ma solo perché vederci era troppo doloroso. È stato un rito di passaggio, forse, in qualche modo.»
Entrambi ripensarono al giorno in cui erano stati tolti dalla scrivania e dallo scaffale per essere messi in una borsa di carta insieme a tanti altri oggetti, che nella fretta e nella confusione non erano riusciti a distinguere.
“Non lo fare”, avrebbe voluto dire la cornice quando lei l’aveva aperta e aveva tolto la foto per strapparla. “Non lo fare, non serve a nulla. L’immagine non è su questa carta lucida, è stampata dietro ai tuoi occhi.”
La cornice ed il quaderno lentamente si assestarono, come zolle, sul terreno di ricordi sul quale erano stati deposti: fogli, volantini, biglietti di concerti, oggetti stupidi, pupazzi di peluche. Si addormentarono anche loro, oramai consapevoli che quella sarebbe stata tutta la loro vita. Era stata bella, quella che avevano avuto prima. Ma le cose cambiano, la vita cambia, tutto è in continuo mutamento. Era giusto che loro ora si trovassero lì. Il loro respiro si fece flebile. L’orologio a pendolo batté le tre e mezza, un solo colpo lungo, ampio, quasi un eco. La luna si era spostata, la sua luce era scomparsa.
La polvere iniziò il suo lavorio lento ed eterno; si posò anche su di loro, sui pezzi di carta strappati che come lei, non avrebbero mai più potuto essere messi insieme.