Numero 52 – Maggio 2019

La soluzione

di Eva Luna Mascolino

Ci dev’essere un posto
in cui si ritrova chi è lontano.
Ci vediamo lì stasera
dopo cena,
ho molte cose da dirti
e poca voce.

 Vieni sola
e senza addio.
(Ivan Talarico)

Arriva puntualissima, copre la luna piena con la falda del vestito e poi si siede per terra accanto a me. Si lega i capelli in un elastico e guarda un punto indefinito, verso il mare. Non mi saluta nemmeno.
Le dico:

– Sei arrivata puntualissima.
– Ho fatto del mio meglio.

Poi le pongo la domanda di rito, quella da cui non posso sottrarmi.

– Ti senti meglio?
– Un po’. Quanto basta per accettare i tuoi appuntamenti.

Meno male, vorrei aggiungere, e invece taccio. Mi godo la musica del pub qui accanto, praticamente a strapiombo sulla costa. C’è uno sputo di terra fra i suoi tavoli floreali e la salsedine. Un metro quadro in grado di accogliere un paio di corpi, in una dimensione che ha il sapore dell’oceano e dell’humus insieme. Io sono dalla parte dell’humus, lei dell’oceano.
Sento dal modo in cui si stringe le ginocchia che avrebbe già voluto prendere il largo da un pezzo. Si copre le gambe con un angolo di tessuto e torna a sciogliersi i capelli.

– Hai freddo?
– No, sono solo stanca.
– Adesso se sei stanca ti sciogli i capelli?
– Adesso se sono stanca riesco a chiudere gli occhi.
– È un grande passo avanti.

Lei gioca con l’elastico, lo tira con pollice e indice e poi lo lascia andare contro il polso.

– Non farti male, per favore.
– È che sono stanca.
– Lo hai già detto.
– No, intendo dire che sono stanca in generale.
– Sei stanca di lui?
– Sono stanca di vivere qui.

Non gliel’avevo mai sentito dire prima. Mi giro un attimo per assicurarmi che siamo ancora nella città per la quale lei ha spesso avuto parole commosse. Abbiamo visto più albe da questo ritaglio di mondo che durante i nostri viaggi di un tempo, quelli organizzati rigorosamente durante le vacanze di Pasqua.

– Forse è un passo avanti.
– Tu dici
– Sì. Hai un motivo in meno per restare.
– E ne ho uno in più per andare dove?

La guardo meglio. Lei mi permette di esplorare il suo collo, la sua schiena. Le braccia intatte, intimidite da una sottile pelle d’oca. Me la ricordo più piccola, più ribelle. Me la ricordo scavalcare i cancelli in tre mosse, vincere a braccio di ferro, scovare tutti a nascondino. Bravissima a stanare gli altri, ha sempre preferito contare fino a trenta anziché trovarsi un riparo.

– Per andare via, non importa verso dove.
– Mh.
– Da quanto non uscivi di casa?
– Da due settimane.
– Due settimane? Non vai neppure più a comprare il pane o che so io, dalla parrucchiera?
– No, se ne occupa lui. E la parrucchiera ci raggiunge a domicilio.
– E stasera come sei riuscita a convincerlo?
– Gli ho detto la verità. Che mio fratello voleva incontrarmi qui, come ogni mese.

Lo dice come se io non fossi presente. Mio fratello. Come se non fossi io, come se fosse una copertura. Invece ero io a ballare con lei la sera in cui ha compiuto diciotto anni. Ero io a prendere il disinfettante le volte in cui cadeva dalla bicicletta e si sbucciava i gomiti.

– Sembra passata una vita da certe estati in campagna, non ti sembra?
– Già… La piscina dei nonni era bellissima.
– E quel gatto, come si chiamava?
– Selene.
– Selene, giusto.
– Vuol dire luna, in greco.
– Quindi era una gatta, non un gatto.
– Per la verità non saprei.
– Dovremmo chiamare qualcuno, chiederlo a loro.
– Qualcuno del gruppo, dici?
– Mi mancano tanto. Ci penso specialmente in inverno, non so perché. Vorrei augurare buon Natale alle loro famiglie, scoprire se sono cresciuti come noi, e magari convincerli a venirci a trovare alla fine di giugno.
– Potresti farlo sul serio.
– È che ci sentiremmo come fra estranei, non trovi? Non avremmo niente da raccontarci.
– Potremmo sempre fare una partita a carte, ammazzare il tempo.
– Ammazzare il tempo a che scopo?
– Allo scopo di scoprire se poi resuscita.

Al pub alzano il volume della musica e parte un brano vecchio quasi quanto noi. Lei se ne accorge, inclina la testa verso destra. Canticchia qualche parola, rincorrendo delle immagini familiari a entrambi.

– Eravamo in spiaggia, vero?
– Sì, tu avevi bevuto troppo.
– Lo so, l’indomani mi sono svegliata con un mal di testa terribile.
– Se papà l’avesse scoperto ti avrebbe messa sotto chiave per un mese!

Mi rendo conto della gaffe quando è ormai tardi. Lei si è rabbuiata, la testa dritta.

– Scusami, io non…
– Non c’è problema. Non è colpa tua.
– Forse lo è stata. Forse avremmo potuto impedire che si arrivasse a tanto.
– E come? I soldi non lo avrebbero fermato.
– Figuriamoci.
– E nemmeno la legge, la violenza o le preghiere.
– E dire che è un uomo di fede…
– È un pazzo, fine della storia.
– E tu hai scelto di diventare sua moglie.
– Sai bene che è più complicato di così.

Le vengo in soccorso prima che se la porti via la risacca, insieme a uno strappo troppo grande da ricucire. Non so neppure io perché sia duro con lei ora che ha acconsentito a vedermi, ora che ha orecchie per sentire e gambe per accompagnarmi in capo al mondo.

– Certo che lo so, non hai niente da rimproverarti. Sono io l’idiota che si ostina a sperare che esista una via d’uscita nel passato, anziché nel presente. Sono io a ricreare scenari alternativi in cui tu hai un mazzo di chiavi sempre in tasca e un biglietto di sola andata per un altro mare, più pacifico di questo.
– Potremmo ancora comprarlo.
– Il biglietto?
– Sì.
– Non sono sicuro che…
– No, hai ragione. Sto parlando a sproposito anche io. Sono stanca, ecco tutto. Forse non sarei nemmeno dovuta venire, stavolta.
– Non dire così.
– No, davvero. Cosa ci ho concluso? Cosa ti ho confidato che tu già non sapessi?
– Che sei stanca, che sogni un biglietto.
– Essere stanca e avere il permesso di sognare non sono la stessa cosa. Devo restare al mio posto.
– Il tuo posto non è necessariamente questo. Un avvocato forse potrebbe…
– No, niente avvocati, denunce, polizia. Niente azioni violente.
– Buffo sentirlo dire a te, che le azioni violente le subisci ogni giorno.
– Smettila.
– Perché? Non è la verità?
– Sì. Per questo non mi va di sentirla.

Lo dice a voce bassa, pronunciando le sillabe fra i denti. Mi viene da sospirare, da buttare in avanti il petto e lasciare che galleggi fra le onde. Al sicuro da paesi civilizzati come il nostro, in cui l’amore si deforma sempre in modi grotteschi, contraddittori. Pericolosi.

– Non ti picchierà mica, adesso – azzardo.
– Ma no, lo sai che la sua è una violenza diversa.
– Sì, chiedevo per sicurezza.
– Sono pulita, vedi? Nessun segno da nessuna parte. Sennò come lo spiegherebbe ai miei, quando ci vengono a trovare?
– Mi domando com’è che tu non sia ancora impazzita, che nessuno abbia ammazzato né te né lui.
– Ammazzarci? E perché?

Quasi non mi sembra di parlare con mia sorella.

– Nessuno dei due può vivere, se l’altro sopravvive.

La vedo sorridere per la prima volta da quando si è seduta al mio fianco. Mi ricorda una gita in montagna sotto la neve, le spremute di arancia, i giocattoli di plastica che nascondevamo sotto il cuscino quando la mamma ci dava la buonanotte e noi non avevamo ancora sonno.

– Se la mia vita assomiglia a un libro di Harry Potter significa che non sto messa poi così male.
– Significa che non stai vivendo propriamente in questo mondo.
– In realtà è da qualche mese che col mondo mi sento in pace.
– Ah. Forse allora stai impazzendo sul serio, sai.
– No, è che… – esita, sulla soglia di un segreto. – Ho conosciuto un uomo.
– Un… Cosa?
– Un uomo, una persona…
– Vuoi dire un altro.
– Io… Credo di sì.
– Ma se non esci neanche più di casa! Dove l’hai conosciuto?
– Fa il cassiere al supermercato.
– Ecco perché non sei più tu che vai a fare la spesa.
– Suppongo di sì, deve essersene accorto.
– E come ha fatto, scusa?
– Stavo raccogliendo informazioni su di lui sul rovescio di un vecchio scontrino. Come si chiamava, se studiava ancora, cose così. Scambia sempre due parole coi clienti, sai. Nelle giornate fortunate mi è capitato di scoprire qualche dettaglio.
– E lui ha trovato lo scontrino?
– Lo ha buttato senza dirmi niente, non l’ho più trovato. Tre giorni dopo non ho più potuto mettere piede fuori.
– Non ti ha fatto nessuna domanda, nessuna allusione?
– Nessuna.
– E tu?
– E io cosa?
– Non ti senti in gabbia? Non hai voglia di rivederlo?

Lei non risponde. Alza il mento e fissa l’orizzonte, cioè una sfumatura di nero quasi identica a tutte le altre.

– Non capirò mai la tua docilità – insisto. – Ti finirà come quel personaggio di Dostoevskij…
– Come quale?
– Lasciamo perdere.
– Dimmelo. Come quale?
– Te lo regalo per il compleanno, va bene? È un libro che si legge in un’ora e che fa male per tutto il tempo che resta.
– Allora non mi interessa. Ho già abbastanza pensieri in testa.

Lo credo bene, vorrei aggiungere, e invece taccio di nuovo. Vorrei anche domandarle se libri più leggeri ne legge, se di tanto in tanto guarda ancora un film. Se non le manca il teatro, il locale dietro la chiesa, il giardino pubblico. La nostra conversazione, invece, continua a evolversi su risposte che preferiamo non darci. Su misteri che non vogliamo svelare.
Uno, però, mi preme particolarmente, così riprendo:

– Ma questo tipo… Il cassiere.
– Eh.
– Insomma… Ha capito di te? Hai notato qualcosa?
– Mi ha offerto di andare a bere un caffè, una volta.
– Sul serio?
– Non ne sono sicura, magari era una battuta. Lo ha detto perché avevo comprato le bustine solubili, sai… Allora ha insistito che mi avrebbe fatto assaggiare un caffè buonissimo a due passi da lì alla fine del turno.
– E tu hai accettato?
– Come no. E poi magari gli avrei lasciato il mio numero e l’avrei invitato a cenare da noi.

Il suo sarcasmo è la cosa più straziante dell’intera serata. Peggio delle risate che provengono dal pub, peggio della gente che porta a spasso il cane e resta a sentire i nostri discorsi per interi minuti, entrando nella nostra intimità senza che il rumore del mare riesca a proteggerci.

– Se sei riuscita a incontrare me stasera, riusciresti a incontrare anche lui, prima o poi.
– Dimentichi che mi tiene d’occhio col GPS, che se telefona e non riconosce la tua voce poi… Che io non…

Sento la sua voce sfilacciarsi, il coraggio morirle sulle labbra. La abbraccio e le passo una mano sui capelli, come per sciogliere una catena invisibile che parte dalla sua testa e arriva in un punto profondissimo, invisibile a occhio nudo.

– Se c’è una soluzione la troveremo – le sussurro.

Glielo ripeto da nove anni. Se c’è una soluzione la troveremo. Come ogni mese lei annuisce e mi dice: grazie. Probabilmente per inerzia, perché non ci crede più. Che soluzione dovremmo trovare, ormai? La vita si è spaparanzata per bene sotto a questa spada di Damocle e tutto sembra giocare contro di noi, contro di lei.
Se c’è una soluzione la troveremo, continuo comunque a pensare. E deve esserci per forza, altrimenti lei non avrebbe preso a singhiozzare sotto la luna piena, non avrebbe ripensato alla sua prima sbronza, non avrebbe parlato di quel biglietto, non si sarebbe innamorata di nuovo. C’è qualcosa che la aspetta, per qualche motivo. Magari qualcuno, una qualche carezza. E ci sarà pure una qualche strada, per arrivarci, altrimenti che senso avrebbe rinnovarci questa promessa ogni mese, alzarci piano dal molo e dare le spalle al cielo per l’ennesima volta?



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