Numero 52 – Maggio 2019

Intorno a una definizione soddisfacente di persona sociale

di Antonio Francesco Perozzi

 

Sabato: giorno di finto riposo.

Chiusi a metà: serrande alternate su Via Garibaldi, insegne alcune spente alcune accese ecc. ecc. Come scegli il criterio per il giusto datore di lavoro? La serranda sceglie per te. Chiusi: sì, non-consegna, è sabato. Aperti: sì, consegna, è sabato.

C’è una legge sagace nel curriculum che porta tra le mani, la vita sparpagliata in esperienze trimestrali che da qualche parte hanno valore, in punteggi esatti (chi li giudica esatti?), in titoli. Lui (tu, io: siamo ciò che gira intorno a una definizione soddisfacente di persona sociale) spacca Roma e cerca il punto giusto: – Posso lasciare un curriculum?

Deposito, provare a imbastire una fiducia sufficiente e arrivare a domani. Pile di vite sparpagliate in esperienze trimestrali riempiono le stanze dei punti giusti: è facile immaginarsele (la polvere) agli angoli dei magazzini delle banche, delle segreterie, degli uffici postali, delle scuole. Sorrisi accondiscendenti che consumano la carta che hai tra le mani. Lui (io, tu) va via e conosce solo un sole che sgretola il Gianicolo. Sudo. Lo zaino mi lascia un segno sulla pelle perché lo porto su una spalla sola. Tra la bretella dello zaino e la pelle c’è un sottile strato di stoffa (maglietta): si muove schiacciato a destra e sinistra, obbedisce al passo, è il simbolo di qualcosa che viene compresso. Lo sento. Lo senti. Il sabato per fortuna è a mezzo regime: torniamo a casa a ora di pranzo, avanzano dei fogli per le serrande abbassate.

Domenica: giorno di finto riposo.

Chiusi per intero: serrande tutte abbassate su Via Garibaldi, insegne alcune spente altre spente ecc. ecc. Chiuso in casa tu: la madre lo vede dietro il computer, Trenitalia lo percepisce dietro il computer ma è pieno l’archivio delle e-mail. Chiuso in casa tu, e quell’altro: fate (voi: generazione) un uso disattento della vita, a quanto pare, se invecchiate e con voi non invecchiano i contributi necessari al pensionamento.

Tu intanto studia: neanche il tempo di dirlo che il tempo è finito, e subito tutti a correre. Non si è capito dietro cosa. Non è cambiato niente: ± cinque anni. Più barba. Dalle parti di Piazza Bologna c’è un call center che paga a truffe eseguite. Ma è domenica, oggi, e si prega il Signore.

La madre: – Quanti ne hai fatti ieri?

– Dodici, – tiene le mani e gli occhi fissi sul computer.
– Sono tanti.
– Devo farne di più. Non c’è tempo, – beve dalla bottiglia con la sinistra mentre con la destra continua a tormentare il mouse.
– Vieni a mangiare.
– Se stacco mi fregano il posto.
– Vieni a mangiare. È domenica.
– Non posso mangiare.

Lunedì: la zappa che inizia la terra.

Andare. Fogli tra le dita: Appia Antica, Appia Nuova, Appia Media. Un percorso Google Maps calcolato bene per seguire bene gli itinerari della disoccupazione. Destra, sinistra, destra, destra. Come arrivi alla fine della salita sotto il sole? Stanco. Suoni il campanello. Lo suono.

– Guarda: tu il curriculum lascialo, lo do subito al principale, – pausa sorriso orecchini, – ma è chiaro che adesso il personale è pieno, – pausa sorriso orecchini, – intanto tu però lascialo.

Tu il curriculum lo lasci. Lo lascio. Esce dalla hall con un foglio in meno, un nome in meno sulla lista segnata sullo smartphone: lo cancella. Abbiamo uno smartphone: quale coscienza vuole così questo approccio al lavoro, dove si colloca il valore se in tasca duecento euro li abbiamo tutti e poi la sveglia suona alle undici? Non rispondi. Cammini. Cammina.

Martedì: battere il ferro finché è caldo.

Sei stazioni metro da esplorare. Lì scendi, segui Google Maps: a ogni stazione dieci aziende da contattare. Ho comprato un biglietto giornaliero: salgo e scendo dalla metro come voglio, che strana forma di libertà.

Ma Roma è bella anche quando è mezzogiorno e lui non ha ancora e-mail importanti da aprire. Ti piace. Ti piace Roma. È una scusa per vederla tutta. Hai visto mai il punto in cui s’è aperta la breccia di Porta Pia? Hai visto mai il murales gigante di Totti? Casa-scuola e casa-scuola non bastano, devi scendere, esplorare, sbagliare fermata. I piedi. Fai molte foto: che stupido turista. Sono uno stupido turista.

Scende a San Giovanni perché lì ha contato sufficienti segretarie. Battere il ferro finché è caldo: ritmo, sono le nove, sono il re del mondo. Allora Via Magna Grecia, Via Sannio, Via Laurentina, Via Veio, dette a caso perché percorse a caso.

– Salve, le posso lasciare un curriculum?
– Guarda: tu il curriculum lascialo, lo do subito al principale, – pausa sorriso orecchini, – ma è chiaro che adesso il personale è pieno, – pausa sorriso orecchini, – intanto tu però lascialo.

Sono le undici, sono ancora il re del mondo. Faccio tutto. Vedi un signore che fuma un sigaro all’angolo di Via Ardea.

– Scusi sa dove trovo [sede di un’azienda che potrebbe accettare un curriculum, e che lo fa, ma puntualmente il personale è al completo e non ti chiamerà mai]?
– No.

Lo saluti e te ne vai. Lui soffia fumo dal naso. Dopo sei secondi ti chiama che tu sei già sull’altro marciapiede, con un romanaccio sbiascicato: trasteverino doc, pensi. Torni indietro.

– Dimme la strada.
– Via Ardea.
– Ce stai sopra.
– Lo so.
– Ciao, – succhia forte dal sigaro.

Te ne vai. Il ferro è caldo battuto perché il sole di luglio è demoniaco. Sale su una metro a caso, forse sbaglia direzione. Torna a casa con un po’ di fogli in meno (da ristampare), una madre che chiede, un padre che chiede. È ancora il re del mondo. Perché è martedì.

Dormo.

Mercoledì: coscienza.

Che significa questa cosa che a un certo punto la scuola finisce e a un certo punto finisce anche la vita? Tieni il passo su Via Baldo degli Ubaldi, le sue mani hanno la forma di pinze meccaniche, sono a loro agio quando attorniano fotocopie a dieci centesimi l’una che a quanto pare valgono come attestati di esperienza. E inesperienza. Che significa questa cosa che a un certo punto uno ti dice “Vieni, ti do dei soldi”, e tu lo ricompensi facendo gesti scanditi secondo il gioco del lavoro (che so, giri le bottiglie di Coca-Cola sul nastro), e lo Stato ti dice “Bravo, adesso puoi invecchiare”? C’è sempre un verso giusto per le bottiglie di Coca-Cola: lo leggiamo tutti su un cartello autostradale grande quanto la Cina.

Da lontano vedo la strada abbassarsi (che pensieri può generare Via Baldo degli Ubaldi?), a formare una conca che sono sicuro mi vuole inghiottire. Un signore t’incontra su un tragitto speculare. Ha occhiali rettangolari, capelli a spazzola, moda del 2003. Chiede al ragazzo dei curricula:

– Sai dov’è la palestra di karate?
– No, – tu fai.
– Una palestra, in generale?
– Non sono di qua.
– Ma fai arti marziali?
– No, – aggiungo mentre mi allontano, – mi dispiace.

I due se ne vanno in direzioni opposte. Il ragazzo che cerca la palestra va in salita, verso la metropolitana, chiede la stessa cosa a un tuo sosia che ti segue. Il ragazzo che cerca un lavoro va giù, verso la conca.

Quando anche Via Giovan Battista Gandino, Via Bonaventura Cerretti, Via Prospero Farinacci sono esaurite, torna su ricopiando la scia del ragazzo del 2003. Tornare a casa dopo un giro di curricula è sempre diabolico: mi asciugo la fronte col dorso della mano sinistra e penso che anche stavolta è andata così. A casa mi aspettano spaghetti aglio, olio e peperoncino. Che significa questa cosa di avere una madre che cucina per te? Che significa il sistema globale del lavoro se io a casa trovo un piatto di spaghetti al dente e l’arista di maiale tagliata sottile? Che significa questa cosa di essere nel tempo?

Tornare a casa è sempre diabolico. Pensi sempre di essertela scampata, quando a fine giornata non t’hanno chiamato, neanche stavolta. Senti una forma perversa di gioia, e te ne vergogni e compiaci insieme. Dormo. Ma ti svegli di notte e hai liste infinite sparse a caso sul desktop. Sente un dolore strano attorno allo sterno, come una mano che ti regge da dentro.

Giovedì: furia.

Le settimane muoiono sempre. Il giovedì si rigonfiano come i diabetici. Consegna, consegna, consegna. Neanche più guardi le combo di sorrisi-orecchini, sai a memoria l’Ave Maria di presentazione e ti esce dalla bocca come saliva in eccesso, neanche te ne accorgi. Signore coi guanti di plastica ti dicono che no, qua non s’accetta il cartaceo: – Mandi l’e-mail. Aspetti le do un biglietto, – nello zaino ne hai una collezione.

Non c’è tempo. Lui a volte passa al trotto e colpisce per caso un signore che aspetta l’autobus. Lo sorpassa, lo sente sbraitare, lo ignora. Non c’è tempo: va ritagliato da dove si può. Esempio pratico-urbanistico: se l’obiettivo è Viale Marconi, e io sto già in ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia, dalla stazione Garbatella non faccio il giro delle viuzze, taglio dritto su Via Ostiense, frega un cazzo se mi tirano sotto. Anzi lo facessero una buona volta. Trinità dei Monti serve a portare più velocemente i curricula. È stupido chi fa tutto il giro da Piazza di Spagna per prendere Via Gregoriana. Chi gira intorno al parco di Piazza Vittorio Emanuele. Chi non scavalca un guard-rail su Via Cilicia. L’urbanistica è un concetto astratto: lo stupriamo da dentro perché non c’è tempo. Ho il fiato sul collo: è il tuo.

Mi devo sbrigare: lo schermo del cellulare ti sobbalza in luce sotto gli occhi con la lista dei curricula che devi consegnare e tu gli dai corda coi quadricipiti contratti. Finirà mai questa lista? Questo è forse il destino di quelli come lui: attraversare Via Ostiense una volta per tutte. Guarda in alto, destra e sinistra. Aspetta il semaforo rosso: eccolo. Non pensa e accende il motore dentro le fibre delle gambe: scatta il verde per le macchine, una Micra lo sfiora. Ma è sull’altro marciapiede, è salvo, è vicino all’azienda, ha un dolore alla pianta del piede per il troppo camminare.

– Sì, puoi lasciarlo se vuoi.

Orecchini.

– Hai esperienza?
– No.

Venerdì: in qualche modo deve finire.

– Ma anche oggi devi andare? – sua madre si avvicina, ha la scopa tra le mani.
– Sempre.

Silenzio catastematico. Lui si veste.

– Com’è andata ieri?
– Uguale.

E sembra che un uragano ti insegue. Roma ti si incunea dentro le pupille in tutta la sua stratificazione. Percepisci con esattezza il barocco, il fascismo, l’Impero, il Papa. Non c’è quasi più, lo scorrere del tempo. Le strade le inghiotti: e senti nelle vene infilarsi una corda sottile che attacca un barbone a un tombino e un cameriere testaccino a un secchio stracolmo di spazzatura. Tu sei i colori.

Sente la palma del piede pulsare, ma deve correre perché domani è di nuovo sabato, finto riposo. Necessario esaurire la lista settimanale il prima possibile. Quindi scavalca le ringhiere quando sono l’unico ostacolo, non chiede più informazioni, tiene il telefono acceso e Google Maps aperto, in guerra con la batteria. Cos’altro conta? Niente conta. L’esatto ordine delle vite. L’esatto deposito dei contributi dell’INPS. Un’unica inesattezza concessa: le strade. Valicarle tutte. Romperle se è il modo più veloce. Ché lo sappiamo tutti che chi conosce è già in gara per una sicura segreteria.

Allora salgo da Via Appia Vecchia, che è un secchio di sole. Sento i sampietrini ondularmi da sotto la suola delle Converse. Controlli l’orologio ogni quattro respiri. Tu però hai liste da spuntare e spacchi i secondi al millimetro.

Passo. Passo. Passo. Passo. Passo.

Chilometri. Prende Garbatella e scende a Policlinico. Che cosa conta di più della sistemazione? Che cosa importa di più di parcheggiarsi in salotto a finalmente morire con Domenica In o Superquark? Passo. Passo. Spazio. Accorciare.

Sulla sinistra di Via Cesare de Lollis, un palazzo scartavetrato è l’azienda che cerco: portone hall segreteria saluti orecchini fogli archiviazioni dirigenti addio.

Verso Castro Pretorio. Spazio. Accorciare.

Taglia dentro l’università. Ragazze fumano dentro i capelli rossi. Vorrebbe quasi fermarsi e chiedergli che cosa secondo loro è importante e rispondersi da solo senza farle parlare che tutto ciò che conta è l’occupazione. Gli avrebbe mostrato i curricula bene schiacciati tra il mignolo e il pollice, gli avrebbe indicato una copisteria su Viale Ippocrate in cui stampano a due soldi. Non fumate, occupatevi.

Ma mi succede tutto solo in testa e sono già quasi su Viale Gobetti. Attraverso senza girarmi a destra e sinistra come mia madre mi ha insegnato a tre anni: un motorino suona il clacson per protesta. Attraverso senza guardare perché non c’è tempo e la lista è lunga.

Conta solo l’occupazione, te lo giuro. Attraversi anche l’altra corsia su Piazzale Aldo Moro: conta solo l’occupazione, mormora, me l’hanno detto in troppi. Gli si mescolano in testa tutti i pensieri possibili. Occupazione solo l’ conta. L’ solo conta occupazione. Occupazione. Contare.

Decido: Castro Pretorio è lontano, taglio attraverso la caserma dell’Aeronautica. C’è un ingresso laterale della caserma che mi dice di sì. Il tempo s’incenerisce. Eccomi. Sette passi e ti fai viale Gobetti per metà. Entri.

– Altolà!

Lui scavalca la sbarra come un tornello della metropolitana.

– Altolà!

Lui pensa che a casa la lista sarà depennata.

– Altolà, fermo o sparo!

Lui pensa agli spaghetti aglio e olio.

– Fermo!

Conta solo l’occupazione.

E un fuoco nel cielo.



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