A processo
di Esther Guiducci
Che dirai quando in grembo non porterai
più la stasi del mezzogiorno settembrino
ma tife che suonano al vento e sarai
tu l’utero entro cui retrocedere per viltà.
Che dirai degli occhi che si fanno vitrei
e la guazza tenera più non incorona
i tuoi capelli doloranti. Che dirai del tu
che ti spossessa mentre ti sciampani
per migliore offerta supplicando
uno slancio che non è concesso.
Che dirai dei versi che non risiedono mai
dove il dolore sgorga e implodono
sciagurati su loro stessi, protesi ad acchiappare
una rana sfuggente al bordo del fiume.
Che dirai delle parole, lumache di campagna
sputanti scie di nuvole pe’ i ciechi,
specchi rotti che approdano ai polsi
senza poter sventrare le budella d’un informe
niente che t’avviluppa in gola. Persino
nel vento che t’esplode in volto, o nell’acqua
tua dolce e gentile e spontanea non schiarirà
il solito ricapitolarsi: ma piangeranno gli angeli
e sarà fiato corto e andrai sciancato per buie vie.
Processare l’essere fra i più stanchi, forse
i più stanchi, sarà l’ultimo atto della storia
nostra; trascineremo l’aver mancato
la religione della pienezza come gonfalone
di volontà flebile. Canne cigolanti
pagheremo l’esserci esatti come sofferenza
in divenire, dissociati, multipli o colpi di mitraglia
che s’abortiscono a vicenda. Finirà il tirare
a campare, la pentola senza coperchio
sciacquerà d’aria i volti dimagrati; e tu
con le mani c’attutiscono il dolore dei capelli
non dirai niente: fra sospiro strozzato
e sospeso travaglio, ti disperderai
velenoso o salvifico nell’altrove vicino.
Infine tornerai –ritornerai- e forse
sozzerai il tentato N+1 della prole e
in alto le trombe vomiteranno
la sentenza; e striderà come
cantilena malata che recita
altera e imperiosa da sempre:
i figli
pagano
le colpe dei padri.