Numero 51 – Aprile 2019

A processo

di Esther Guiducci

 

Che dirai quando in grembo non porterai

piĂą la stasi del mezzogiorno settembrino

ma tife che suonano al vento e sarai

tu l’utero entro cui retrocedere per viltà.

Che dirai degli occhi che si fanno vitrei

e la guazza tenera piĂą non incorona

i tuoi capelli doloranti. Che dirai del tu

che ti spossessa mentre ti sciampani

per migliore offerta supplicando

uno slancio che non è concesso.

Che dirai dei versi che non risiedono mai

dove il dolore sgorga e implodono

sciagurati su loro stessi, protesi ad acchiappare

una rana sfuggente al bordo del fiume.

Che dirai delle parole, lumache di campagna

sputanti scie di nuvole pe’ i ciechi,

specchi rotti che approdano ai polsi

senza poter sventrare le budella d’un informe

niente che t’avviluppa in gola. Persino

nel vento che t’esplode in volto, o nell’acqua

tua dolce e gentile e spontanea non schiarirĂ 

il solito ricapitolarsi: ma piangeranno gli angeli

e sarĂ  fiato corto e andrai sciancato per buie vie.

Processare l’essere fra i più stanchi, forse

i più stanchi, sarà l’ultimo atto della storia

nostra; trascineremo l’aver mancato

la religione della pienezza come gonfalone

di volontĂ  flebile. Canne cigolanti

pagheremo l’esserci esatti come sofferenza

in divenire, dissociati, multipli o colpi di mitraglia

che s’abortiscono a vicenda. Finirà il tirare

a campare, la pentola senza coperchio

sciacquerà d’aria i volti dimagrati; e tu

con le mani c’attutiscono il dolore dei capelli

non dirai niente: fra sospiro strozzato

e sospeso travaglio, ti disperderai

velenoso o salvifico nell’altrove vicino.

Infine tornerai –ritornerai- e forse

sozzerai il tentato N+1 della prole e

in alto le trombe vomiteranno

la sentenza; e striderĂ  come

cantilena malata che recita

altera e imperiosa da sempre:

i figli

pagano

le colpe dei padri.



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