Numero 51- Aprile 2019

Banksy

di Federico Zagni

 

La notte in questa stanza nuova mi tiene sveglio con un suono affamato e costante a cui non sono abituato. Lontano e cupo, non posso capire da dove venga, forse il compressore malandato di un freezer, e la sua altalena anche se rassicurante riempie liquida il mio tempo, dandomi qualcosa su cui scaricarmi la coscienza. In un altra età mi sarei alzato per suonare, o forse lo avrei fatto comunque, fossi stato invece in un diverso luogo, più mio. Sono anni che non ci provo più. Di solito dormo, diceva quel povero stronzo geniale di Céline che basta quello. Basta dormire, e vuol dire che va tutto bene.

Tu contribuisci con il tuo respiro leggero a dare un ritmo alla mia veglia, incatenando un fiato dopo l’altro come passi a scavallare fino alla mattina. Sei così vicina che ti sento sul viso, mi ricordi il soffio di un bambino, tanto tempo fa. Non è sgradevole, sa un po’ di alcool, ma siamo a letto da troppo poco tempo perché inizi a infastidirmi. Ci vorrebbero ore, o forse anni. In queste condizioni, è normale che non possa riaddormentarmi. Fino a otto ore fa non ti conoscevo, e a dire il vero non ti conosco nemmeno ora. Non mi hai detto il tuo nome, nemmeno quando, con un gesto che mi è subito parso inutile e formale, ti ho confidato il mio.

Vorrei alzarmi e vagare in questa casa, scrutare e accarezzare tutti i tuoi oggetti e conoscerti contro alla tua volontà. Invece tra poco prenderò atto che non posso più stare immobile e sdraiato, illudendomi di ricadere in una soffice incoscienza, e mi rassegnerò a raccogliere i miei vestiti e sgattaiolare fuori cercando di non svegliarti. La notte se ne starà andando allora, e tu forse ti accorgerai della mia fuga, ma non ti importerà. O magari sì, ma non mi fermerai, di certo.

Nel buio distinguo un paio di poster, di quelli alti e stretti presi dai cinema. Ti immagino che vaghi per i mercatini del sabato mattina, trovi un Fellini, un De Palma, ti sfili dalla tracolla lisa un paio di monete, lo porti a casa e per un paio di giorni a guardarlo sei felice, perché ti pare di essere speciale, con quel poster appiccicato in camera. Non ti sto giudicando, sono stato così anche io. Siamo stati tutti così.

E sul soffitto distinguo il palloncino a forma di cuore, che davano davanti Salaborsa per ringraziare di una donazione in favore dei migranti. Proprio tale e quale a quello di Banksy in quel murale così famoso che poi è diventato tanti altri murales, che poi è finito sulle magliette e alla fine anche Banksy ha deciso che era ora di tritarlo in un’opera apposita mentre lo vendevano all’asta. Per prenderne le distanze forse, vallo a capire. Che poi ti resta il dubbio se sia stata una trovata geniale o proprio scontata. Vuoi vedere che sotto sotto anche Banksy si compra i poster del cinema e se li mette in camera? Come tutti noi.

Ne hai preso uno ridendo e non hai nemmeno cacciato un euro. Non l’ho fatto nemmeno io a dire il vero, e ce ne siamo andati senza una risposta, ma con un sopracciglio e una spalla alzati giustapposti, a mo di scusa titubante. Ma eravamo giovani e spensierati, o almeno tu lo eri, e io anche, per transitivo contatto con quel palloncino a forma di cuore, che suggeriva pene più grandi delle mie.

Ti amo ma non so per quanto, avrei voluto dirti. Suonava di nuovo retorico e avrebbe rovinato tutto, e quindi non l’ho detto, e mi sono fatto bastare quella giovinezza sfrontata che scalpicciava sui cocci di bottiglia di una Bologna che già si appresta a svegliarsi, quando ancora metà deve andare a dormire.

Adesso sì, sento lo scrosciare delle campane di vetro che vengono svuotate. Nessun campanile, nessun gallo qui in città. Non più sono abituato nemmeno a questo da quando ho traslocato.

Il nome tuo però lo vorrei.

Fisso ancora la macchia rossa che ondeggia in alto, mossa appena appena da qualche refolo che sbuca dalla finestra. Prima o poi scenderà. Senza che ce ne accorgiamo, l’elio di cui è riempito sta sfuggendo una molecola alla volta da quel nodo strettissimo, e nulla impedirà all’aria in cui galleggia di prendere il sopravvento, schiacciarlo al suolo.

Anche questo mi ricorda mio figlio, quando ancora era piccolo. Ho visto sfiorire decine di palloncini. Per questo so, a differenza di quanto si crede, che non scenderà un millimetro dopo l’altro. Quando arriverà il suo momento, e non avrà più abbastanza nobiltà nel suo corpo per mantenersi al soffitto, cadrà, in un moto dolce, ma comunque repentino e inevitabile.

Di te mi ha attratto soprattutto la tua pelle così liscia, indizio non tanto di vera bellezza, ma di un palcoscenico ancora immacolato con cui ti offrivi germoglio al mondo. Non avevo mai fatto queste cose, le ho viste solo nei film. Vedersi, parlarsi. Finire in un momento di irripetibile bellezza lungo qualche decina di minuti senza che l’imbarazzo si infili rendendo tutto un artificio. A dire il vero hai fatto tutto tu. Mi hai chiesto una sigaretta, hai riso a una mia battuta triste, non ricordo nemmeno quale. Mi hai chiesto se mi andava di andare con voi. Io ho accettato, cosa avrei potuto fare. Vi siete trascinati dietro questo mio vecchio corpo per tutta la serata. Ho visto che uno dei tuoi amici era infastidito dal tempo che mi dedicavi, non capiva perché perdere tempo con me e probabilmente sperava che sarebbe finito lui in questo letto con te. Magari c’è anche già finito, magari ci prova da tempo. In entrambi i casi, credo che non accadrà più, da come lo hai ignorato.

Vorrei chiederti come mai hai scelto me, se per una coincidenza o perché ero così diverso, a fumare da solo in piedi in mezzo a una piazza di ragazzini. Forse proprio per vedere come potresti essere tra venticinque anni, quando le illusioni che a volte rendono la prima metà della nostra vita eccezionale avranno ceduto il passo alla rassegnazione della realtà. Alcuni poi ci riescono, a farle durare per tutta una vita. Alcuni sì. Io non ho potuto. Nulla è durato per davvero per me, a giorni mi sento in colpa ma poi ci penso, mi guardo, vedo come sono fatto e capisco che, se ora non mi resta che ascoltare un po’ di musica, aiutarmi con qualche shot di euforia posticcia e raccogliere i momenti luminosi che grazie al cielo ancora arrivano, non è che deve essere per forza colpa mia. Anche se ho avuto tutto, ho avuto le armi per scendere al mondo, ma senza uno scudo le armi contano poco. Ripenso a mia moglie, come mai non ha funzionato. Colpa mia, colpa sua. Quello che non sai non può farti male.

Quello che non sai tu è che stasera ero in cerca del coraggio per scappare via, che mi aiutasse a prendere un aereo e non riapparire mai più. Ma poi il coraggio mi è mancato, quando sono stato immerso in quell’ondeggiante plateu umano che rideva, gridava, abbracciava, che non ha bisogno di coraggio perché ancora ha l’entusiasmo, e l’incoscienza, dalla sua. Forse un giorno capiresti quello che ti vorrei dire. Forse lo assaggerai anche tu, cosa significa avere paura ogni giorno e non poterla affrontare davvero per colpa di quegli occhi piccoli eppure grandissimi che quando ti guardano sembrano pregarti di nascondergli ancora per un anno, un mese, un giorno, il perché questo mondo è così bello e spaventoso, o mendicare una spiegazione che sia davvero convincente e che li persuada a baciare con foga ogni giorno della loro vita.

 Colpa mia, colpa sua. Colpa di quella bici che mi ha tagliato la strada in quella maledetta sera di maggio? Che mi ha inchiodato in faccia i suoi occhi spalancati un secondo prima di sentire il rumore delle ossa che si spezzano. Avevano la stessa età di quelli di mio figlio, e ora stanno al posto dei suoi; ogni volta che lo guardo vedo solo quelli, azzurri e aperti per sempre sul bitume nero.

Il palloncino scende. Mi alzo e mi rivesto. Dove vai mi chiedi, resta qui, mi preghi. Ma non è accaduto davvero, non accadrà, e allora resto ancora tra queste lenzuola, appena rosate dal primo calore solare, a fianco del tuo sonno, a ricordarmi di te prima che arrivi davvero il momento di ricordarti.



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