Radici
di Elena Ciurli
Prima lì non c’era neanche un filo d’erba a sporcare il vialetto. Le foglie erano radunate in mucchi di grandezza uguale, ai lati. Erano azioni programmate e rassicuranti. Ogni abitante della sua città ha avuto almeno un parente che ci ha lavorato.
Gli alberi sono cresciuti forti, hanno nascosto il cemento. E gli scheletri deformati da memorie stratificate.
Agnese camminava nel bosco in punta di piedi, con la paura di disturbare qualcuno che non dormiva più. Il vento scompigliava le cime degli alberi e le arruffava i capelli. Non c’era mai voluta entrare fino a quel pomeriggio di novembre.
Tutte le volte che ci passava vicino, quando scendeva dalla sua casa per andare giù al mare, lei la avvertiva: era una litania di note quasi impercettibili.
Non ascoltarla.
La sentiva anche negli occhi e nei passi di tutte le ombre che vagavano ormai libere per la sua città, quella del fuori. Alcuni di loro da bambina la terrorizzavano. Le avevano sempre raccontato che non erano cattivi. Bastava solo stare zitti e andare avanti guardando in basso. Anche se per strada ti fissavano o ti gridavano dietro nomi sconosciuti. Agnese si costringeva a buttar giù ogni grappolo della sua paura, ma non avrebbe mai potuto ignorarli.
Qualcuno la faceva ridere: come la figura a forma di uovo con il cranio liscio e la bocca da neonato che ogni giorno rubava una mela per poi nasconderla nel cappello; riusciva a vedergli la testa solo nell’attimo in cui se lo toglieva. Nessuno osava contraddirlo, lui era fatto così, e non poteva cambiare: una pietra di tungsteno impossibile da scalfire.
Lascialo stare Agnese.
Avrebbe solo desiderato chiedergli un pezzo di mela. Per mangiarla insieme. Oppure avrebbe detto a sua madre di farci una torta con quelle mele, e regalargli una fetta ancora calda.
Tutti i suoi amici da ragazzi c’erano entrati, ma a lei non era mai piaciuto scherzare su quel posto. E non le piaceva raccontar loro il perché. Le sue radici erano marce, e arrivavano fino ai piedi di nonna Marisa, che era rimasta là dentro fino a morirne.
Nessuno della sua famiglia aveva voglia di parlare della nonna, soprattutto sua madre.
Vai a giocare Agnese.
La storia di Marisa venne alla luce poco a poco, le immagini che Agnese riusciva ad afferrare erano deboli. Una fiammella esposta a correnti d’aria troppo forti.
Entrò quando le rughe le avevano già reso il volto stanco, e i capelli iniziato a imbiancare. Rimase lì per un bel po’ di tempo. Successe dopo la morte di suo marito Adamasco. Non si separavano mai. Si erano sopportati per più di 30 anni. Sprofondò con lui nella fossa. Era così che il buio era penetrato dentro di lei. La sua lingua paralizzata dal silenzio. Solo questo le aveva detto sua madre.
Non mi ha più chiamato per nome. Mamma, sono io: Laura, avrei voluto dirle.
Agnese ricordava poco del funerale della nonna, aveva 10 anni, e non l’aveva mai incontrata. Appena Marisa uscì dal frenocomio, sigillata nella bara con quel suo fagotto di cose che ormai non avrebbe usato più, vennero fuori anche i soldi che aveva nascosto prima di essere internata. Nella camera da letto, sua e di Adamasco. Li trovarono sua madre e zia Carla mentre svuotavano l’armadio. Dovevano liberare l’appartamento. I suoi vestiti e quelli del marito piegati con cura sotto un sudario di polvere. Li aveva arrotolati bene e poi chiusi in una scatola di scarpe numero 44, dentro un mocassino di pelle quasi nuovo.
Nella foto sulla tomba vide una donna dagli occhi piccoli e rotondi, con la bocca stretta in un bottone. Assomigliava al suo orso di pezza rammendato, che ormai riposava nel fondo di un baule.
Laura era morta quell’estate e aveva portato con sé le ultime tracce di quei ricordi invisibili. Agnese trovò il nome dell’infermiera che aveva accudito Marisa in una vecchia lettera nascosta tra i libri di sua madre: loro due si scrivevano, ma nessuno della famiglia sapeva niente.
Non potevo vederla lì dentro. Avevo paura di essere come lei.
Andò a trovarla: Loretta abitava in una casa di pietra a un solo piano. Nel suo giardino cresceva una rosa, una pennellata color latte in mezzo all’erba alta.
Marisa e Loretta si prendevano cura l’una dell’altra. L’infermiera le raccontava dei suoi figli che crescevano, e la facevano arrabbiare, del maggiore che era bravo a correre dietro al pallone, ma i numeri gli uscivano dalla testa; la piccola che aveva il vizio di mettersi le dita nel naso a scuola. Dell’abitudine di suo marito di dar retta più alla bottiglia, che a lei. Di chi aveva vinto il Festival di Sanremo, se era inverno, o Castrocaro, alla fine dell’estate. Marisa disegnava, soprattutto fiori, e l’ascoltava in silenzio. Ogni tanto alzava dalla carta quei suoi occhi di catrame, e glieli piantava dritti in faccia.
I suoi segni neri decoravano fogli, pareti e anche pacchetti di sigarette vuoti, quando non trovava altro. Non ne era rimasto neanche uno, avevano buttato tutto appena se n’era andata.
Marisa amava stare nello spazio esterno e disegnava solo se Loretta era con lei e le raccontava di quei suoi giorni sgangherati. Ogni volta che scriveva a Laura rompeva il suo voto da guardia e si faceva amica, sorella.
Agnese camminava in punta di piedi. Decise di entrare un pomeriggio di novembre. Cercava sua nonna tra gli alberi di quel bosco che l’aveva nascosta per anni; pilastri di linfa che proteggevano il mondo esterno da quel regno di ombre. Cercava tra gli edifici abbandonati quello che le aveva indicato Loretta.
Sembrava un animale morto, le finestre erano occhi vuoti e i rami degli alberi, dita contorte che erano riuscite a infiltrarsi. Non varcò la soglia: si fermò nel giardino incolto che era cresciuto senza sosta davanti all’ingresso principale, una porta alta di legno scrostato, memoria di ripetute aperture e chiusure, le inferriate arrugginite, sopra a cinque gradini ricoperti di muschio.
Si sedette su una delle panchine ingoiate dagli arbusti di quel prato selvatico.
Chiuse gli occhi e respirò forte, cercando il salmastro lontano.