Numero 49 – Dicembre 2018

Bon voyage

di Giuseppe Caretta

 

Il tuo corpo su di una branda. Schegge di te dappertutto. Dentro e fuori di me un vuoto cosmico. E tu al centro. Hai mai visto tanta sollecitudine in altri occhi che non i miei? Ora so di volerti desiderare.

Carezzami con le tue mani di giada, tu che sdraiata mordi pigramente le pagine di un libro. Perché non è abbastanza il mio corpo, cadutoti accanto? E quando ti alzi e vai via, la stanza vibra al tuo battere d’anche, e a me sembra che la polvere crepiti sotto i tuoi piedi in microscopiche galassie. Sento ogni potenza misteriosa del tuo corpo, che è una tipologia remota di tempio al cui interno spira un caldo vento orientale e nelle cui stanze l’aroma della mirra, del cinnamomo, si rovesciano in fiumi sotterranei indecifrabili e magnetici.

La tua mano stringe un bicchiere e beve. E quando beve lei, beve tutta l’anima tua, che non sai scinderti dalle cose che fai, e che in ogni atto trovi un pozzo dentro cui cavarti l’anima dal petto. Quanto t’invidio questo senso d’indifferenza che ti porta a suicidarti. Cercando di attirare la tua attenzione, adesso che ti sei allontanata, finisco col dire qualcosa che è terribilmente vuota, una minaccia che cade in terra e che nessuno di noi due si degna di raccogliere. Morirà lì, la vedo, travolta da cascate di indifferenza. Anche questi, in fondo, sono strumenti camuffati, modi di usare il potere sugli altri.

Poi torni indietro e ti rimetti a sbeffeggiare la serietà del mondo. Come fai ad essere così allegra mentre rintoccano le campane del silenzio? «Il caos è l’unico silenzio che ristora – dici -. Ed è più caldo del Polo Nord. Attorno a lui non si può morire che di gioia». Fra me e te tutta una sottilissima trama di oggetti che mi son scordato di sentire – mio unico modo per conoscere. Cerco l’eco di distanze che ritornano come scandagli, la consistenza formale d’ogni cosa che viva senza confini di sorta. So che sta tutto lì, come lo sai tu. E questa conoscenza in comune è l’unica cosa che leghi l’uno all’alto i nostri polsi. Ti guardo stesa, molto dismessa in verità, eppure ho come l’impressione che fra le tue gambe stia nascendo un nuovo sole. Perché? Forse che ad ogni respiro partorisci costellazioni?

Mi preghi di seguirti in giardino, l’aria claustrale del soggiorno ti inaridisce perfino lo spirito. Posi il libro con molto garbo e t’allontani verso un altro regno nel quale entriamo da pari a pari. Questo è il primo segno della nostra battaglia: la parità d’intenti.

Quando siedi punti verso di me due frecce di diamante. La tua mano stringe una sigaretta e disegna nell’aria i tuoi pensieri. A scatti. Tutto questo dispendio di piaceri mi affascina molto. “Perché non baciarsi?” penso. Spunta allora fuori un omuncolo canuto e dagli occhi piccoli, color del cielo. Mi alzo per riguardo, ci stringiamo la mano e in lui ritrovo solo l’immagine sbiadita di uno dei tuoi tanti amanti perduti. Solo gli occhi ha conservato intatti, il resto si è già rattrappito in una senescenza che la tua discrezione non può sottrarsi dall’omaggiare. Dolcissimo è il modo in cui gli parli. Chiudo gli occhi. Li riapro.

Siamo insieme fra molta gente in una sala d’attesa che dovrebbe essere quella d’un aeroporto. Ti prendo sottobraccio e ci avviciniamo al banco, dove un uomo ci accoglie sorridendo: «Parigi» dico. E tu protesti: «Mi vede, come sono? – gli domandi – Io vivo qui da tre anni, oramai. In una solitudine assoluta. Sola in una casa con dei libri, capisce? Non importa. È questo che ho scelto. Non ho peli sulla lingua, io. Non vivo appesa a nessuno, io. E questo zotico dice di volermi portare via». Ma è una giostra che gira fuori dai cardini. Qualcosa stride nelle tue parole asciutte. Conosco i modi in cui sai ingraziarti le impressioni della gente. Sempre immodesta la tua teatralità, com’è giusto che sia per un effetto plausibile. Anche in ciò, per mia fortuna, ho scoperto la traccia di una ricchezza. E vorrei possedere la metà del tuo coraggio, quando ti volti e procedi senza indugiare verso un tavolo dove qualcuno intanto sta mangiando distrattamente. In un moto improvviso di rabbia mi trovo a scagliarti addosso una brochure, che precipita sui bicchieri facendo un rumore del diavolo. Tutti allora si accorgono di noi pur non capendo niente di quello che ci sta accadendo.

Ancora all’aperto, in un anfratto, ti chiedo questa volta di baciarmi per cortesia. Alle nostre spalle c’è la vetrata di una piccola casa in legno dove qualcuno coltiva pazientemente un roseto, molto simile a quelle case di cui mi parlavi fantasticando della Bretagna. Te ne ricordi? E invece di baciarmi, testarda, dominatrice come sempre, punti i piedi in terra e mi allontani con il braccio. Sulla faccia della tua remissività si dipinge allora il ghigno selvaggio di una tigre. Lo sapevo che avevi le zanne, sotto le labbra.

Torno dentro, ma sono sereno. Non c’è lotta nella mia rinuncia. So benissimo che resterai qui, in posti che non mi vedranno più tanto presto. Resterai qui, con le tue cicche di sigaretta e le tue letture, con i tuoi amanti e con le solitudini dei giorni più fecondi. È pace fatta. La mia morfina, che tu conosci, è sgocciolata lentamente via. La dialisi è completa. Il mio sangue è fresco, scoppietta con nuvole e scintille nuove di zecca. Ti rendo ciò che meriti per avermi battuto almeno una volta su tutta la linea. I giorni passati appartengono a te, come potrebbe essere altrimenti? Ma quest’oggi non più greve, non più afflitto, quest’oggi appartiene a me, che vengo fuori da un personalissimo inferno. «Prego – mi dice l’uomo consegnandomi il biglietto – l’imbarco è da quella parte». È stato allora che ho aperto gli occhi lentamente. Il mio corpo caldo di sonno era privo di tensioni come mai lo era stato negli ultimi anni. Ho sospirato di tranquillità. «È andata» mi sono detto. Ho messo i piedi in terra solo dopo averti salutata con la mente. In cucina nessuna traccia di te. Il bollore del thermos ha rubato gli ultimi residui della notte.



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