Pareti
di Michela Valente
La giornata era iniziata male. Un rumore assordante l’aveva strappato al sonno e al sogno che stava facendo. Si trovava in casa dei suoi genitori, la casa della sua infanzia, correva lungo il corridoio perché qualcuno lo inseguiva, giunto alla fine del percorso non c’era nessuna porta, solo il balcone. Con l’inseguitore alle calcagna, uscì sul balcone, scavalcò la ringhiera di ferro e si buttò giù. Chiuse gli occhi per non vedere l’approssimarsi del suolo, ma non stava precipitando… fluttuava! Sì fluttuava, a mezz’aria, con il giardino di uno dei condòmini sotto i suoi occhi. Poi si era svegliato a causa di quei rumori e adesso era inchiodato al letto, immobile, con lo sguardo rivolto al soffitto, ponendosi tante di quelle domande esistenziali, quelle che ci si fa la mattina solo per procrastinare l’inizio della giornata, non certo perché si spera di giungere a delle risposte. A fatica sgusciò fuori dal piumone e si diresse in cucina per fare colazione: latte, cereali, caffè. Tutto come il giorno prima, fatta eccezione per quei suoni insopportabili. Si avvicinò allo spioncino della porta e osservò. Nel pianerottolo c’era un via vai di persone che entravano nell’appartamento di fianco al suo. Avrebbe avuto un nuovo vicino nell’arco di pochi giorni, e questa non era certo una cosa di cui poter essere felici. Un intruso in casa sua, perché con le pareti sottili di quell’appartamento avrebbe sentito tutto e sarebbe stato come vivere con un’altra persona. Già poteva ascoltare le esclamazioni per questa o quella partita di campionato; o magari sarebbe venuta una famiglia. Ancora peggio, marmocchi al seguito che avrebbero pianto tutto il giorno perché non volevano andare a scuola o chissà per quale altro capriccio; forse una famiglia con figli adolescenti, urla e litigi per un brutto voto o per il mancato rientro il sabato sera all’orario stabilito. Qualsiasi scenario significava una sola cosa: fine della tranquillità.
Si allontanò dalla porta d’ingresso e tornò in cucina, riprese a fare colazione e dopo iniziò a lavorare al computer. Da quando gli era stato proposto quel lavoro da casa non aveva nemmeno più bisogno di uscire per andare in ufficio e incontrare i colleghi. Ormai non c’era incombenza quotidiana che non potesse essere fatta da casa tramite uno schermo di varie dimensioni e lui faceva tutto così: dalla spesa alle bollette. L’unica cosa che ancora non poteva demandare a un device era la consueta visita settimanale ai suoi genitori. Andava sempre lui, mai il contrario; forse avevano capito che per lui, quella visita rappresentava la sola possibilità di uscire di casa e mantenere qualche rapporto con il mondo esterno. Un mondo per cui, tuttavia, non provava nessun interesse e che anzi lo spaventava sempre più. Aveva perso l’abitudine di stare con la gente, di parlare (non che avesse mai parlato molto), fosse dipeso da lui non sarebbe mai più uscito di casa.
Qualche volta provava un senso di rabbia nei confronti dei suoi genitori che lo costringevano a quella trasferta forzata, una rabbia sorda e nemmeno troppo inconscia. Anche in quel momento, mentre si stava preparando a uscire per l’odiata visita, provava la stessa sensazione.
Prese le chiavi, le infilò nella toppa e uscì. Per lui valicare la soglia di ingresso verso l’esterno significava un po’ come ripetere l’atto estremo della nascita, si sentiva come un neonato che veniva strappato al caldo e confortante grembo materno per essere gettato nel mondo.
I rumori che l’avevano svegliato continuavano e nel pianerottolo c’era un via vai di operai e pacchi che venivano maneggiati con brutalità e senza nessun riguardo. – Non si preoccupi- gli disse uno degli operai che doveva aver letto il disappunto sul suo viso – non ci sono cose fragili in questa casa. Nulla che rischia di rompersi-.
Al suo ritorno a casa era ormai già calato il buio. Affaticato dallo sforzo di quella uscita si catapultò all’interno del portone. Fortunatamente i rumori del mattino erano cessati e nel condominio regnava la stessa relativa tranquillità di sempre. Entrò in casa e dopo un po’ di zapping in cui si susseguirono nell’ordine: una serie tv di gialli, un talk show e un dibattito politico, pensò che quella giornata poteva anche finire lì. Fu a quel punto che li sentì, avvolto nel piumone, sentì dei passi provenire dall’appartamento vicino, segno che ormai qualcuno vi si era già insediato. Com’era possibile? Il trasloco era iniziato solo quella mattina, possibile che ci fosse così poco da sistemare? I passi erano leggeri, di qualcuno che non indossava ciabatte ma pesanti calze invernali, qualcuno che a suo modo doveva aver capito che bisognava fare il meno rumore possibile.
Il risveglio era stato molto più calmo del giorno precedente. Niente urla, niente pacchi in movimento, ma soprattutto nessuna voce dall’appartamento di fianco. “Forse il nuovo inquilino è già andato a lavorare” pensò; delle volte dimenticava che per qualsiasi persona la normalità era quella di alzarsi, andare da qualche parte e confrontarsi a vario titolo il mondo esterno. Lui non provava invidia per quel genere di vita, certo era curioso di sapere un po’ di più sul nuovo condòmino. Ormai era chiaro che non si trattava di una famiglia, forse era un uomo, un divorziato, uno di quei padri a cui la moglie ha tolto tutto e che viene trascinato di tribunale in tribunale, ora per gli alimenti, ora per l’affido dei figli; o magari era una divorziata, una donna di mezza età che viene scaricata dal marito per una più giovane; o un anziano, con una pensione misera e chissà quanti sfratti sulle spalle. Da quando non usciva quasi più di casa la sua immaginazione era diventata fervidissima, come se un meccanismo inconscio avesse sostituito il mondo esterno con uno tutto interiore, sicuramente più bello e plasmabile a sui piacimento.
La giornata passò come sempre, nel più completo silenzio, solo alla fine sentì dei rumori provenire dalla parete di fianco. Erano suoni strani, non parole e tanto meno urla, erano singhiozzi di qualcuno che si stava soffocando. Qualcuno piangeva dall’altra parte, li vedeva davanti a sé gli occhi arrossati dal pianto e le lacrime su un volto che non aveva mai visto e che di volta in volta immaginava diverso. I singulti lo accompagnarono per tutta la notte e per tutte quelle che seguirono.
Ormai era diventato un suono riconoscibile, ogni giorno, nel buio, poteva ascoltare il pianto di qualcuno al di là della parete. A volte aveva l’impressione che il suo nuovo vicino non fosse altro che la personificazione della tristezza e della disperazione.
Fu una mattina che sentì finalmente un rumore diverso, una porta si stava aprendo. D’istinto si diresse fuori dal suo appartamento, dimentico di tutte le sue paure, le sue remore nell’affrontare l’esterno, probabilmente se avesse voluto trovare una spiegazione razionale a quel gesto non ci sarebbe riuscito. Lì nella penombra del pianerottolo, con la porta semichiusa alle sue spalle la vide. Una donna con i capelli lunghi e dorati, il viso pallido con un filo di trucco applicato da mani sapienti ed esperte che sanno come nascondere – con cipria, rossetto e ombretto- la stanchezza, la tristezza, la mancanza di luminosità naturale.
Avrebbe voluto parlarle, dirle che con quell’aspetto falsamente sereno e felice, poteva ingannare gli altri ma non lui. Lui che la sentiva ogni notte, che vedeva ogni sua lacrima e a che a sua volta versava tante lacrime, nascosto e protetto dalle pareti sottili di casa.
Invece non disse nulla, restò lì immobile sull’uscio di casa, con un piede già dentro; lei lo guardò perplessa, sulle labbra sottili stava prendendo forma una parola, forse un Buongiorno o un Salve, invece l’abbozzo verbale lasciò il posto a un timido sorriso e così se ne andò.
Come dopo la fine di un film muto, senza dialoghi né parole, in cui l’unico suono che si può ascoltare è quello della colonna sonora dei titoli di coda, lui rientrò nella sua tana, chiuse la porta alle spalle e cominciò ad ascoltare musica. La mano lo guidò su Meeting Again di Max Richter.
Talvolta capita davvero di incontrarsi ancora, anche loro si rividero un’altra volta, l’ultima. Accadde sempre di notte, l’ora in cui potevano ascoltarsi e vedersi nudi, lontani dalle imposizioni esterne. Non ci furono lacrime, né singhiozzi, solo un rumore sordo ed ovattato. Un tonfo. Lui si alzò e accostò l’orecchio alla parete sottile, sperando di sentire una presenza di vita, invece sentì solo delle imposte sbattere.
Alla fine della rampa di scale del suo portone vide prima i capelli biondi facilmente riconoscibili anche al buio, poi il corpo perfettamente composto, disteso sul cemento. sembrava stesse dormendo, riversa al suolo, troppo stanca persino di rientrare in casa. Osservò il viso pallido e ormai esangue e gli tornarono in mente le parole che gli disse quell’operaio del trasloco incrociato qualche settimana prima: – Non si preoccupi, non ci sono cose fragili in questa casa. Nulla che rischia di rompersi.