Numero 49 – Dicembre 2018

Stanza 84 “YULE”

di Giampaolo Giudice

 

“Tre cime di Lavaredo #1” di Antonio Pacchiano

Alla fine l’apocalisse è un fatto personale, ognuno ha la sua, proprio come ognuno genera il proprio inferno privato abitato da tutti i suoi fantasmi prediletti.

I miei sono diventati così numerosi da non riuscire più a contarli; tanti da non spaventare più, da sorprendermi quando ne vedo tornare uno da lontano. Numerosi e fitti come i fili d’erba cresciuti fra le ossa di tutti i “me stesso” lasciati esposti negli anni a formare la moltitudine che sono oggi.

Radici piccole, singolarmente delicate quanto forti se messe vicine. Sono quelle miriadi di radici alimentate dai cadaveri del mio passato, a tenermi assieme nell’uomo che sono oggi. Chissà se lo sanno, chissà perché lo fanno. Infinite singolarità quotidiane, ed anni fatti di momenti impazienti.

Ossa levigate e sbiancate da giorni insepolti e dagli elementi e fili d’erba fitti come pensieri notturni.

Ossa inquiete del passato, di ogni me morto in qualche rivoluzione fasulla, in una guerra inventata o in qualche battaglia trasformata in disfatta. In mezzo a quel prato di ossa riposa la molteplice verità che mi rende colui che sono oggi.

Un umano aggrappato ad una vecchia speranza opaca, una macchia di umido; amabili resti di una goccia asciugata al sole.

Questa ossessione per il passato; riguardarlo con calma.

Chi mi perdonerà quando io non ci sarò più?

Il presente si muove troppo velocemente davanti agli occhi. Servono occhi buoni, serve attenzione, tutta roba che non ho. Non sono bravo col presente, è troppo vicino al futuro, e col futuro non ho mai avuto un buon rapporto. Mi è sempre parso distante e faticoso: un pensiero lontano e fangoso, mentre il passato è lago, mare calmo e trasparente, tempesta trascorsa. Al contrario di un presente che si comporta come tifone tropicale, burrasca in corso.

La mia è forse solo stanchezza dopo una vita passata a bruciare fra i venti, a tal punto che ormai non so fare altro se non cercare pace fra le rovine.

Immagini diroccate a cui non riesco a rinunciare. Passeggiare fra le macerie degli inferni che non voglio abbandonare, con i pensieri impigliati fra i rami delle parole che non so dimenticare, che non ho saputo ignorare.

Prigioniero e carceriere di quel momento in cui la luce accarezzava la vita di quelli che oggi sono solo spettri, vite sconosciute, andate via senza un ultimo inchino al pubblico.

Dietro sbarre di cristallo, appeso ad una catena di “vorrei”, appeso a dondolare sopra il mio dolore preferito.

Ognuno di noi cerca di rivivere il suo dolore preferito, non c’è bisogno che sia azione cosciente, lo facciamo e basta; passare il tempo ad aprire ferite nuove su vecchie cicatrici.

È la ricerca primordiale di piacere e calma.

Ognuno per la sua strada.

Alla fine, a ben pensarci, si riduce tutto a dopamina e serotonina. Tutto l’agire a cui diamo nomi pomposi, onori vanitosi e grandi aggettivi altisonanti, tutto si riduce al rilascio di due molecole.

Soprattutto quando vorremmo occupare un posto nella vita di qualcuno che ha riservato quello stesso posto a qualcun altro. E noi restiamo una bellezza di passaggio, cosi come altri lo sono stati per noi. Non siamo incolpevoli in questo, ma ce ne rendiamo conto solo quando siamo dalla parte sofferente della giostra.

Bellezza di passaggio.

Un bellissimo tramonto da guardare in foto, qualcosa per cui non sei disposto a spenderti ma che è comunque bello vivere o vedere se ti capita vicino, se non richiede sforzo. Tutto ciò che abbiamo condiviso, quello che ci siamo scambiati, verrà abbandonato e lasciato indietro per fare posto ad altro.

Se ci pensi bene, il destino dei ricordi scartati è quasi peggiore della morte, dell’oblio.

Teniamo in vita quei ricordi per un perverso egoismo, per un ripescaggio casuale ed un mezzo sorriso; mentre per il resto del tempo li lasciamo sepolti in una massa indistinta, una fossa comune lontana dalla luce.

Sempre per andare ad abbracciare la sofferenza più cara che abbiamo.

Ad esempio: sono andato infinite volte a bere per cercare di ritrasformare i diamanti in carbone, provando a cancellare un dolore dimenticando la bellezza da cui è nato; cancellarlo a furia di riviverlo, consumarlo come una pagina sfiorata mille volte dalle stesse mani, invertire il processo di creazione.

Invece sono finito in un letto in cui, per quello che mi riguarda, ho imparato dove vanno a finire i giorni che passano.

E sono due i luoghi in cui si accumulano: nella memoria della carne e nella memoria delle ossa.

La prima è di rapido accesso, di grande effetto e sembra forte ma, come la carne, è soffice e tende a decadere rapidamente, ad esaurirsi in una fiammata rapida, fulminea e temporanea.

La memoria delle ossa, invece, è tutta un’altra storia.

Se ne sta lì zitta a raccogliere quello che affonda talmente tanto dentro la carne da oltrepassarla senza andare perduta. Nella memoria della carne ci puoi trovare le vacanze di quando avevi vent’anni, il giorno in cui ha dato quell’esame di cui avevi paura o certi sguardi d’aprile così difficili da ignorare.

Nella memoria delle ossa ci si deposita una gamma completamente differente di ricordi, differenti sfumature di passato.

Di quelli che se ne stanno tutti ordinati, uno vicino all’altro come celle di un alveare e danno forma alla persona che sei, al tuo intero essere. Diventano l’impalcatura sui cui poggiano i tuoi muscoli.

Anche se non lo sai.

Dentro alle ossa ci trovi il primo bacio e, seduto accanto, l’ultimo amore. L’odore di tua madre ed il giorno in cui ti sei accorto di essere diventato grande. Quel “grande” che sembrava traguardo stellare solo qualche luna fa.

Tutto un altro mondo.

Tutta una varietà differente di te.

Perciò è importante scegliere bene chi o cosa lasciar penetrare nella carne, fino alle ossa.

Perché da lì non puoi più tirar via nulla, nemmeno se provi a cavarlo con tutto quello che trovi.

Che in quel caso finiresti come me: legato ad un letto e sedato, per impedirmi di strappare la carne e scavare a mani nude nelle ossa alla ricerca di quel ricordo di cui voglio disperatamente liberarmi.



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