Numero 49 – Dicembre 2018

Sibilo d’amore

di Donatello Cirone

Leggi l’intera tetralogia di “Lady Lazarus”

“Presto, presto la carne/ che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me,/ e sarò una donna sorridente.”
(“Lady Lazarus” di Sylvia Plath)

Alle pareti, come schizzi d’amore improvvisi, colava il sangue che poco prima le irrorava il cuore e le gambe, e il cervello e tutti gli altri organi. Era stesa a terra con il respiro debole e le mani fredde. Un rivolo rosso porpora le scivolava lungo il ghigno che i pugni di prima le avevano disegnato su quella faccia ormai tumefatta: l’occhio destro era quasi del tutto chiuso dal gonfiore, la palpebra sinistra graffiata, il labbro inferiore bucato, un lobo era saltato. La pelle del ventre era nera come la pece e le gambe sembravano uscite da fitti cespugli di rovi amari. Eppure, aveva ancora quel ghigno disegnato su quel viso sfatto dai colpi, un bel ghigno da combattente. Avrebbe voluto, forse, combattere per professione, ma non era mai stata incline a sacrificarsi più del dovuto e “si combatte solo per due motivi” – le diceva da sobrio suo nonno – “fame o rabbia”. E aggiungeva: “tu ragazza mia non hai né l’una né tantomeno l’altra!”
Il nonno, il pugile l’aveva fatto davvero e di cazzotti ne aveva lasciati a giro e ne aveva presi un bel po’. Aveva combattuto tra l’Italia e il Belgio dove era finito persino in carcere per aver quasi pestato a morte uno che gli aveva gridato: “Italien de merde”.

Intorno ai tredici anni, il germe della poesia le aveva avvelenato l’anima e da quel momento tutto era diventato diverso: un viso non era più solo un viso, ma uno specchio dell’anima e non desiderava più come desideravano le sue coetanee. I ragazzi erano diventati angeli da adorare e, anche se precocemente ad alcuni ne aveva toccato le ali, restavano sempre lontani dalla carnalità che tanto faceva ribollire il sangue alle sue amiche. Tutto restava avvolto dalla meraviglia, dalle labbra delicate che incontrava mentre andava a scuola, dalle donne a lutto, vecchie e stanche, che riposavano sedute davanti l’uscio di casa d’estate e d’inverno, dall’odore delle montagne che sentiva dentro il suo naso, dal suo seno che cresceva come la consapevolezza che la vita, la sua, sarebbe, un giorno sbocciata come il suo corpo che si colorava come un campo in primavera sul quale sbocciavano primule e peli.
Era sicura che tutto sarebbe passato, che quella grande notte sarebbe giunta verso un’alba di perdono, ma prima ci sarebbero state altre infinite, dense notti che le sarebbero rimaste attaccate all’anima come uncini conficcati oltre la carne viva, punte che avrebbero graffiato le ossa, che sarebbero finite nel midollo.
Di giorno, tra una notte e l’altra, scendeva al fiume e restava per ore al bordo eroso dalla piena, nell’attesa, forse inconsapevole, di una sua carezza, una carezza che l’avrebbe portata lontana da quelle montagne e da quelle notti, verso un mare piatto e senza respiro.

Era stesa su quel pavimento freddo. Il sapore di quel sangue, che era finito sulle pareti come schizzi d’amore improvviso, si era fermato sotto la sua delicata lingua. L’amore, che tante volte aveva trovato sulle nocche che la colpivano ripetutamente su tutto il corpo, si era sparso su quelle mattonelle fredde e le aveva riscaldate. Tutto però restava immutabilmente ovattato dalla poesia che le permeava le ossa. Il suono dei colpi sulla sua pelle accompagnava le notti fredde, un suono che le teneva compagnia, non la faceva sentire sola quando il sole calava e la cintura di pelle nera le disegnava il corpo in un tripudio di violenze cromatiche, quella cintura che avrebbe macchiato a morte la sua pelle bianca come il latte d’asina appena munto.

Durante il giorno l’orologio correva verso quelle lenzuola indaco che si sarebbero sporcate con il suo sangue e con il suo sudore, che si sarebbero imbrattate di lacrime e grida. Notti cupe e senza speranza, impregnate di carezze affilate come rasoi. Una disperazione affannata riempieva la sua stanzetta, si coricava con lei e con lei si alzava fino a quando, un giorno di settembre, andò via per sempre da quella casa e da quelle lenzuola portando con sé solo la poesia e un paio di ferite che avrebbero sanguinato per sempre, fino alla fine del suo respiro. Portò con sé anche un dolore senza confini che si sarebbe depositato sulla sua pelle come una sorta di patina incolore, trasparente e protettiva. Una corazza invisibile che non l’avrebbe fatta incespicare in altre sconosciute desolazioni. Non sarebbe mai caduta nel tranello di incrociare il suo cuore con quello di anime tristi, non avrebbe mai intrecciato le sue mani con chi, inutilmente, sarebbe stato ossessionato dal proprio fanciullesco malessere di vivere, quel male tanto borghese quanto inutile. Avrebbe cercato solo quelle persone che rimanevano alla luce, a ridere e a piangere, quelle che non si sarebbero nascoste alla vita. Avrebbe cercato solo chi si riempiva di grazia e di colore, i sorridenti e i leggeri. Sarebbe scappata via dalle gabbie sociali. Sarebbe corsa via dai giudiziosi e dai giudici, dagli egoisti e dai molli, non si sarebbe macchiata, ancora, di dolore, e non ne avrebbe mai accettato altro. Avrebbe cercato solo anime consapevoli che il peccato è una parola violenta, figlia storpia di una croce coercitiva. Avrebbe cercato tutti quelli che, come lei, cercavano la bellezza nelle pieghe dei sorrisi. Non avrebbe mai dimenticato il dolore, non poteva, ma non ne avrebbe mai esaltato il potere salvifico, l’avrebbe scacciato oltre il confine delle sue lacrime che mai più avrebbero solcato il suo viso, che mai più si sarebbero incanalate tra il suo seno per scendere oltre il battito del suo cuore per nascondersi evaporando dentro il suo ombelico chiuso.

Alle pareti, come schizzi d’amore improvvisi, colava il sangue che poco prima le irrorava il cuore e le gambe, e il cervello e tutti gli altri organi. Era stesa a terra con il respiro debole e le mani fredde. Un rivolo rosso porpora le scivolava lungo il ghigno che i pugni di prima le avevano disegnato su quella faccia ormai tumefatta, ma pregna d’amore e di vita. Come era finita lì su quel pavimento poco importa e poco le importava che il corpo si sarebbe ripreso lentamente, e non le importava che avrebbe avuto in bocca per molto giorni il sapore del sangue che tanto le ricordava quelle notti di un passato che mai sarebbe andato via ma che, per fortuna, non sarebbe mai più tornato.
Le cicatrici avrebbero continuato a sanguinare, ma quella stanzetta era lontana e la poesia, la sua, ovattava ancora i ricordi e mai più avrebbe imbrattato di lacrime le sue lenzuola, che sarebbero rimaste, per sempre, fino alla fine del suo respiro, bianche come il latte d’asina appena munto.

 

 

 



Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania, il 28 giugno del 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.

donatellocirone@irrequieto.eu



freccia sinistra freccia


Share