L’Arca
Fabio Cardetta
Camminare nelle pozzanghere mi ha sempre dato una sensazione d’annegamento.
Un po’ come quando guardi il mare, vasto e profondo, che ti trafigge con il suo smodato blu di lontananze, pensieri e mancanze: quello che non ho, quando non ci sei tu, quello che sarò, quello che non è più, quello che accadrà quando morirò, come è brutto morire in mare, nel blu dipinto di blu…
Quanto è farabutto il mare, enorme pozzanghera che circonda noi minuscole formiche alla ricerca di qualcosa oltre la pozzanghera.
Le pozzanghere nell’Est Europa sono un simbolo: le pozzanghere nell’Est sono la melanconia fatta a immagine contenuta: quello che ci possiamo permettere, quello che non abbiamo potuto fare, quello che non c’è più.
Nell’Est Europa non c’è il mare… ci sono le pozzanghere.
Capita però, a volte, che quando ti perdi per la Ulica Kutrinny, Slavjansky,Florenskij, Potrabinsky, Hradcansky… quando i palazzoni liberty ti si accalcano sul collo, le cupole gotiche come cappelli di maghi ti ridono in faccia, e le statue di Santi e gargoyles si mettono a scalpitarti davanti come cavalli ubriachi… Capita che ti perdi, sì. Ma poi ti ritrovi. Perché nella vita ci si può anche perdere… ma l’importante è avere dei punti di riferimento.
Ed è così che, uscendo da una stradina, sfiorando un vecchio ubriacone, puzzolente di piscio, accade che ti ritrovi di fronte il mausoleo alla Memoria o la gigantesca facciata di una Chiesa Nera. Ed è quello che mi è capitato, in un tempo imprecisato, qualche secolo fa, quando mi ritrovai di fronte lei: l’Arca.
*
L’Arca è una Chiesa Grigia, non come quelle nere del centro, gotiche, sinuose e ammalianti; l’Arca appartiene ad un’altra dimensione.
Sebbene costruita nei primi del novecento, l’Arca è una chiesa la cui architettura rimanda alle sinagoghe e ai templi paleocristiani. Il corpo è un rettangolo grigio massiccio che appare come una gigantesca tomba, cavata qua e là da filiformi finestre che spuntano come vermi; sulla tomba si erge una lapide (che in realtà è il campanile e al contempo il frontone) su cui s’appende il Quadrante, l’orologio più grande della città.
La via che porta all’Arca è un vialetto bianco, modesto, costeggiato da panchine di legno, dove gli innamorati usano fermarsi per baciarsi o mangiare un gelato; tutt’attorno un giardino sempreverde, con cani e bambini spesso a scorrazzarvi.
Peccato che ogni volta che mi perdo, e mi ritrovo davanti all’Arca, i fuochi di passione e d’inferno, mi ricordino il volto di Tamara.
Tamara.
L’Amore e il Tradimento.
Tamara.
Nel suo giardino.
Non ho mai visto l’Arca dall’interno (interno che mi raffiguro come una sinagoga tappezzata di veli scarlatti, piena di geroglifici e candelabri); eppure tu, mia dolce Tamara, mi dicesti che l’avevi vista, l’Arca; tu ne sapevi di più di chiunque altro: “Non è un granché!”
Dicevi.
Sarà strano, ma eri proprio tu la donna che voleva vedere all’interno delle cose, all’interno dell’Oscurità: pretendevi, mia Tamara, che il mio cuore si aprisse e sbocciasse di fronte a te, istantaneo, elastico e vivisezionabile, dopo solo pochi giorni dall’idillio primordiale.
E io che ti dicevo: “Tutto questo non può funzionare…”
E tu che mi dicevi: “Se non ti apri a me, come posso prendere una decisione?”
E nel contempo mi guardavi con quei cristalli al posto delle orbite, quei pezzi di ghiaccio fiammante; mentre le tue dita sudavano e il tuo seno sbocciava di fronte al mio sconcerto.
**
Era stato tutto molto semplice per te…
Un giorno – di quelli che esplodono primaverili con straordinaria potenza affabulatoria – venisti da me, di fronte all’Arca. E con un sorriso da fanciulla in fiore, mi dicesti:
“Dobbiamo commettere un crimine!”
Un crimine, mi dicesti. Uno dei tanti che si commettono ogni giorno, una cosa semplice. Ma il nostro sarebbe stato ancora più semplice, una passeggiata.
“Non dovrai fare niente, e non te ne accorgerai nemmeno… Sarà lì che il nostro amore finalmente sboccerà!”
“Facciamolo!” – le dissi. Come se non ci fosse stato un domani, come se fosse stato davvero tutto così semplice.
La sua bocca scarlatta s’addentò di gioia. Un graffio di sangue fece capolino sul mento.
Il piano era molto semplice.
Il luogo, impeccabile: la lunga schiera di villini, quando la collina scende giù verso la periferia nella Sezione Est e l’osservatore può ammirare i campi e i boschetti della valle. Usavo quella zona della città per le mie passeggiate domenicali. Lì l’aria è più fresca, e il quartiere altolocato appare come una enorme casa delle bambole deserta. Uscito sulla collina, e inoltratomi nei due vialetti paralleli con vista sulla valle, potevo assaporare la vestizione degli alberi silenti e l’aria che si colorava di una frizzante patina mattutina.
Non c’è che dire: proprio un bel luogo.
***
Il piano era molto semplice: avrei dovuto aspettare di fronte al villino rosa che apparisse un uomo d’affari, vestito in nero, con il suo mastodontico mastino a fargli da guardaspalle.
Mi avevi spiegato (mia dolcissima Tamara!) che avrei dovuto solo controllare che loro fossero lì, e che alla fine il tizio s’accorgesse di me. Non avrei dovuto fare niente, solo guardarlo, guardarli… lui e il cane, l’impassibile mastino di cui tanto mi avevi parlato.
E fu lì che una volta perdutomi e riperdutomi, tra le viuzze accarezzate dallo svolazzare di foglie e cartacce, con all’orizzonte le colline della campagna, voltai oltre una fontanella e m’apparve la villa. M’appoggiai al muretto della costruzione dirimpetto, e aspettai.
Non so nemmeno come apparvero, fatto sta che m’abbandonai ai miei pensieri, con lo sguardo rivolto a terra. Non appena lo rialzai, le due sagome erano lì: l’energumeno in nero e il gigantesco mastino giallastro.
L’uomo sembrava indaffarato ad andare avanti e indietro, parlottando con qualcuno al telefono; il mastino, invece, fin dal primo istante, parve fissarmi. Era gigantesco: il padrone doveva essere alto due metri, lui raggiungeva di certo la sua cintola. Se si fosse messo su due zampe avrebbe superato la mia altezza.
E mi fissava, con uno sguardo vuoto, arcigno e al contempo indagatore. Sentivo la sua presenza su di me, attorno a me, come un manto…
Poi arrivasti tu, svoltasti l’angolo con una tempesta di riccioli scarlatti e mi addentasti la bocca con disperazione. Mi sentii sbattuto al cancello, preso per il collo e cosparso della tua saliva, addentato sul collo e sulla labbra. Sentii del liquido sulla mia faccia, capii che stavi piangendo.
Eppure al contempo, tra uno sprazzo di immagine e l’altra, vidi che sorridevi, con un sorriso leonardesco, emblematico… Cosa stavi pensando? Non era quello, di già, il principio del tuo magnifico piano?
Qualcuno girò la pagina della scenografia liberty e delle colline di sottofondo: l’uomo nero ci guardò: vidi chiaramente le sopracciglia aggrottarsi al di sopra degli occhiali neri. Il mastino si fece più grande, inarcando i deltoidi marmorei, lo sguardo si fece acre. Come se stesse per partire, spiccare il volo verso noi, per travolgerci una volte per tutte, in un’estasi di ferocia e sangue.
Non accadde.
Le due sagome sparirono come erano apparse.
Tamara mi portò via, sorridendo, come una bambina, a fare l’amore nel mio letto ricoperto di capelli scarlatti, a fare l’amore, come mai avevamo fatto.
****
Quello che non sapevo era che… il tuo piano non era terminato.
E che, sebbene non ne parlassi, sebbene proiettassi tutto sul nostro amore, sulla nostra passione… tu avevi un piano, fino dall’inizio.
A volte sembrava che mentissi a te stessa, pur di non riconoscerlo. Eppure io da tempo sapevo tutto; eppure avevo cominciato a mentire a me stesso, come tu facevi con te stessa, pur di credere a quell’amore che ci aveva travolto come un cane randagio assetato di sangue. Mentivamo entrambi, pur di gettar fuoco su quella vampa di vita che finalmente aveva donato un senso alla nostra routine.
“Tornerai ogni giorno, alla stessa ora. E non smetterai, finché non te lo dirò io…”
“E tu, invece?”
“Devo sbrigare delle faccende, tornerò presto. Ma tu devi tenermi d’occhio quella villa e dirmi cosa accade. Ogni giorno, alla stessa ora… Mi raccomando!”
E così fu.
Tornai il secondo giorno e la stessa scena mi si ripresentò: l’uomo in nero, al telefono, con il suo mastino infernale, i cui occhi di giorno in giorno divenivano sempre più rarefatti, le orbite macchiate di vene rossastre.
Quel Cerbero atroce, come sempre mi fissava e non osava muoversi, sembrava una statua. Eppure i muscoli erano in perenne tensione, come se stesse per lanciarsi verso di me. Mi scrutava, e non si muoveva. Il suo padrone prese a fare lo stesso, come se fossero entrati in simbiosi.
Tornai il giorno dopo, e il giorno dopo ancora… mentre gli alberi si riempivano di foglie e l’aria primaverile sbocciava in tutta la sua fragranza
Un preciso giorno di marzo (il 27, se non erro), ero nuovamente lì a fissare i due: l’uomo in nero e il suo mastino. Quello (il mastino, naturalmente), dopo qualche minuto, prese a mostrare i canini. Il padrone distolse lo sguardo da me e riprese a telefonare.
Terminata la chiamata, il cane rientrò nel villino.
L’uomo nero mi lanciò un’ultima occhiata, e sorrise.
Poi rientrò anch’egli.
Quella fu l’ultima volta che vidi le due ombre.
Quando mandai il messaggio dovuto alla mia dea e padrona, lei mi rispose:
“Dovremo aspettare…”
*****
Cosa dovremmo aspettare?
Cosa? E soprattutto dove?
La risposta arrivò sibillina in un messaggio notturno:
“Sono fuori città per un viaggio. Tornerò tra qualche giorno. Aspettami davanti all’Arca, ogni sera, e pensami. Quando tornerò, saprò dirti quale sarà il nostro futuro. Prenderò una decisione. Non preoccuparti più di nulla.”
E così andò.
L’Arca mi si stagliava davanti, come un’enorme elefante d’oro. Il conto delle sigarette fumate, scrutando i capitelli intarsiati di Santi e gargoyles, fu perso finda subito. E l’Orologio, il Grande Quadrante, che ogni ora rintoccava i timpani, acerrimo mi ricordava il nostro primo incontro, quando un intrecciarsi di mani divenne subito un intrecciarsi di corpi.
“Non guardarla dall’interno… Non ne vale la pena…”
Già, non aveva mai valso la pena (per te) guardarla dall’interno. Non è vero, Tamara?
Il giorno n.5, mentre una signora incinta mi donava uno sguardo malizioso, blandamente accompagnata dal marito distratto, sul Quadrante apparvero due enormi macchie rosse. Un riflesso derivante dai lampioni a festa dei mercatini accorsi davanti al Tempio. Solo un riflesso, naturalmente; ma quei fari,riverberati dalla foschia notturna, dall’alcol e dal turbinio delle sigarette, preserola forma di due fuochi fatui conosciuti.
La prima immagine a prendere corpo fu quella del Cerbero dagli occhi scarlatti, che mi guardava come se volesse penetrarmi, nel fondo dell’anima, accompagnato dall’immancabile ombra in nero.
Quegli occhi, gli occhi della bestia, che si interrogavano, mi interrogavano, sull’esistenza mia, del mondo o di una tale creatura, che si fondeva con quella ricorrente scolpita sui capitelli di mezza città: i mostri di pietra.
E infine, la medesima coppia di fuochi – si biforcò nell’altra, attorniata da un incendio di donna al rogo… l’immagine di lei, Tamara, che da quelle macchie appariva con i suoi diamanti, e la vampa diveniva adamantina, più azzura del ghiaccio, a schernirmi, sorridente: sorridente di bellezza botticelliana, sorridente come l’enorme mastino.
Fu lì che il solito senso di nausea mi prese alla gola, e vidi la porta dell’Arca aprirsi. E percepii una voce, che come demonio tentatore mi invitava all’interno di quelle ambite segrete.
“Ci saranno gli arazzi scarlatti?… E ci saranno quei bellissimi candelabri?”
Come se una mano m’avesse spinto, presi a camminare lungo il viale ormai deserto. Proprio in quel momento il Grande Quadrante rintoccò la mezzanotte.
Una volta dentro, la vastità rossastra mi invase la vista.
Tutto l’oro e l’argento, rivestiti di panni violacei, ignei, riempiva l’infinito spazio di un’esplosione di calore.
******
Globi dorati pendevano dal soffitto e sulle pareti fluttuavano immagini sbiadite di Santi; sull’altare un Gesù Cristo e in alto, sul soffitto, assi di legno affastellate, incrociate e sovrapposte, a creare un vortice impetuoso verso l’alto. Borchie e stalattiti d’argento andavano ad arredare gli angoli dell’enorme parallelepipedo.Ero all’interno della Grande Arca. E compresi come, l’intuito, l’istinto che ti porta ora e subito alla risoluzione dell’enigma, non m’avesse tradito nella scelta finale.
“Bella davvero… è proprio come me l’ero immaginata…”
Quando uscii sul sagrato, la notte s’era ormai stesa su tutte le costruzioni attorno alla piazza. Il parco era invaso da un gelido venticello, a smussare la gioia per la calda vampa primaverile del giorno. Una spopolata densità aveva riempito lo spazio attorno.
Una volta allontanatomi, ripensai a quel Cristo, e a quella scritta.
Da lontano il Quadrante, ormai bluastro, pareva sorridermi sornione, come a dirmi: “Finalmente hai ceduto… finalmente sei entrato!”
Già: sapevo benissimo che per la prima volta ero andato contro i Comandamenti della mia dea. E ne era valsa la pena.
Quella notte avrei dovuto aspettare ancora un po’:
“Aspettami fino all’una, sempre lì… guardando le stelle!”
Quando mi resi conto che ormai il mio tempo era giunto, la voce di un messaggio risuonò nella tasca.
Era lei.
*******
Ero cosciente che in un solo colpo avrei saputo dell’esito del nostro crimine.
Quando la scritta luminescente apparve non ebbi il tempo di pensare. In un lampo, mastino, sagoma in nero e occhi di Tamara presero a turbinare al di sotto delle palpebre.
“Ho preso la mia decisione… Mi dispiace, ma non posso più tornare da te. Quello che hai visto è il mio uomo, da sempre. Ormai non posso tornare indietro. Non posso lasciare la sicurezza per qualcosa che non conosco. Ci vedremo, forse, in un lontano futuro. Per ora dobbiamo abbandonarci. Cerca di capirmi. Addio.”
Silenzio.
Un capitello mostruoso strabuzzò gli occhi.
E mi dissi che, in fondo, io già sapevo.
Sapevo tutto fin dall’inizio.
Anche l’interno di Tamara, come quello dell’Arca, era proprio come me l’ero immaginato: scarlatto, abissale, l’altare del Sacrificio, il Cristo con l’eterna promessa, i buoni auspici, il mistero insoluto.
“Non posso lasciare la sicurezza per qualcosa che non conosco.”
Ecco perché non voleva che io vedessi l’Arca dall’interno. Ecco perché pretendeva che io mostrassi la mia anima, senza invece mostrare la sua.
Ecco perché questo strisciante gioco delle parti.
E tanti ‘ecco perché’ trovarono spiegazione nei minuti a seguire, mentre un sorriso isterico prendeva a tamburellarmi le labbra, e la scritta luminescente ancora mi abbagliava – senza oramai proiettare significato alcuno.
Quando mi decisi a spezzare l’ultima sigaretta, dando un’ultima occhiata alla Grande Arca – mi rivenne in mente quel Cristo nudo sul piedistallo, quei muscoli contratti in morte, come quelli del mastino, con sotto la scritta:
KDO VE MNE VERY – NEZEMRE NA VEKY
“Chi crede in me, vedrà il Regno dei Cieli.”
Una promessa, come tante.
Di quelle che si dicono nei momenti di passione.
Tamara mia, io ho creduto in te…
Ma sono ancora lontano dal vedere – il Regno dei Cieli.