Numero 48 – Novembre 2018

Si avvisano i signori viaggiatori

di Francesco Spiedo

 

L’atterraggio del volo Milano-Napoli è previsto per le 18.10 e non sono segnalati problemi di alcun tipo: il cielo è pulito, la visuale è ottima, la temperatura è di circa undici gradi centigradi e io ti aspetto al solito posto.

Il tempo trascorso negli aeroporti è anticipazione di purgatorio. Non sei tra la gente, imbottigliato nell’inferno di traffico e semafori e file al supermercato. Non sei tra le nuvole, dentro il paradiso degli aerei che attraversano il cielo e volano contro le regole degli orologi. Da un inferno all’altro sono fusi orari e bottiglie d’acqua di colonia, vino e cioccolata nei negozi dopo il controllo dei bagagli. Gli aerei poi decollano e cambiano le leggi della fisica e cambiano le leggi dei confini attraversati. In India un uomo indebitato può vendere la moglie per estinguere i debiti. In Giappone ai tatuati è vietato l’accesso alle saune. A Napoli accanto al caffè ci mangi un cornetto. A Milano accanto al cappuccino ci metti una brioche.

Nei cieli non si nascondono le divinità dei Greci e dei Romani e puoi volarci attraverso, comodamente seduto tranquillo. Oggi con quaranta euro voli da Milano a Londra, affitti per un’ora un angolo di cielo e qualche nuvola compiacente. E le hostess. E i salatini. E le salviette profumate.

Non sono previsti incidenti, non sono previsti attentati, non sono previsti intoppi al regolare svolgimento delle attività aeroportuali. L’aereo è il mezzo più sicuro, ma non c’è madre che non preghi per il figlio in volo e non c’è figlio che una volta sedutosi al proprio posto – B17 finestrino – non immagini la scena della tragedia. Della propria personale catastrofe. L’aereo che precipita e le hostess che da desiderio sessuale diventano manifestazione evidente dell’irrimediabilità della situazione. Una testa ritrovata in fondo al mare, un culo rinvenuto incollato alla poltrona, duecento valige esplose e i vestiti diventano alimento per pesci. La notizia su tutti i giornali e le facce sullo schermo e i nomi che scorrono in sovraimpressione. Le indagini e il responso: si è trattato di un tragico imprevedibile incidente. Uno di quegli incidenti statisticamente improbabili che però qualche volta devono accadere.

All’esterno dell’Aeroporto Internazionale di Napoli ci sono due enormi palme e milioni di posti auto. Tutta la parete d’ingresso è un’infinita vetrata che riflette il tramonto invernale e nuvole e Vesuvio e lamiere di auto in sosta. Via vai di taxi bianchi, facce abbronzate e capelli raccolti per non cadere davanti agli occhi. Sigarette dedicate agli addii. Pacche sulle spalle e sorrisi di cortesia. Finalmente se ne è andato. Finalmente torno a casa. L’aeroporto è luogo di passaggio, come la vita. Le divise colorate dei membri dell’equipaggio in libera uscita, le calze nere delle signorine all’accoglienza che rispondono con gentilezza alle domande poliglotte dei turisti e i grembiuli macchiati dei baristi che spillano caffè su caffè e ancora caffè. Non è niente di diverso, niente di nuovo, regolare amministrazione. Facce tranquille e un poco stanche di chi non conta i giorni sul calendario. Che potrebbe essere un giorno qualsiasi, invece è proprio il primo febbraio. Ogni volta il primo febbraio.

Abbiamo in programma la nostra rituale pizza di bentornato e ho già prenotato il tavolo per due nella sala superiore – luci basse e tavoli quadrati, il fritto come antipasto e il vino della casa. La tua pizzeria, la tua sala, il tuo tavolo. Come sempre. Gino mi ha detto – anche quest’anno? Certo, ogni anno – gli ho risposto. Gino non capisce quanto siano importanti le abitudini. Gino non capisce che viviamo di tradizioni.

Le scale che conducono alle partenze sono cinque, dispari, tre mobili e due per uomini e donne in forma e con la fissa per il fitness e il peso. Sono cinque che è un bel numero, dispari come i tatuaggi che altrimenti portano sfortuna. E nessuno vuole trascinarsi dietro una manciata di sfortuna proprio prima di staccare i piedi da terra. Io soffro di vertigini e mi accontento dell’evoluzione della specie che ci ha voluto uomini eretti: né uccelli né pesci. Non so neppure nuotare e sono coerente alle mie teorie.

Seguo per abitudine la carovana di padri, fidanzate e mariti con bambine che hanno colorato il nome della mamma sui fogli bianchi. Li tengono con entrambe le mani, tesi come striscioni in curva. Mamma scritto in rosso e rosso un cuore tutto attorno alle lettere. La tenerezza del ritorno che va in scena sotto i cartelli gialli che indicano l’uscita, il deposito bagagli e il servizio navette a sinistra e il servizio bagagli a destra. Mi siedo, le braccia sul bancone, con i ritratti pop di personaggi che in questi anni ho imparato a conoscere e che mi pendono sulla testa: ho dato un nome a ogni faccia così adesso esistono anche per me. Sono Carlo, Massimo, Andrea. È in loro compagnia che t’aspetto ogni volta. La vita è un’attesa e attendiamo sempre qualcosa – qualunque cosa – che dia un senso. Costruiamo attese, le collezioniamo. L’aeroporto è un posto che non esiste sulla terra, è da un’altra parte. Le attese si fanno infinite.

Leggo sullo schermo che il tuo aereo è regolarmente atterrato. Calcolando il giro di pista, i cinque minuti stipati a porte chiuse, i saluti del personale di bordo, i quattordici scalini, il bus che porta agli arrivi, le altre scale, qualche corridoio, il rollio del bagaglio a mano e i bagagli che sfilano come prosciutti, i tappeti che ruotano e le mani che afferrano le valigie e la tua valigia che è l’ultima e arriva proprio quando hai iniziato a credere che sia andata dispersa. Tempo stimato per l’uscita: dai trentacinque ai quaranta minuti. L’orologio sullo schermo segna le 18.09, l’aereo è atterrato con un minuto di anticipo.

Un minuto regalato. L’unico tempo al mondo che si recupera. Tutto l’altro tempo è tempo perso – stai perdendo tempo – datti una mossa e recuperalo. Ma non c’è tempo che si recuperi senza rubare altro tempo. Tempo che mangia tempo, uomo che dorme non piglia pesci. Un minuto in meno da dedicare alla tua attesa. Avrai ancora quel sorriso innocente che pensavo fosse soltanto per me.

Soffice è l’attesa. Il tempo passa veloce, o così mi pare, perché qualcuno mi ha raccontato che non sempre quello che crediamo vero è la verità. La nostalgia è il regalo del tempo che mi ha raccontato tutte le cose che adesso conosco.

La bambina abbraccia la madre che bacia il marito, a occhi chiusi le stringe le gambe con forza. Butto lo sguardo dietro le porte scorrevoli che si sono aperte per l’ultima volta e vedo il deserto dei carrelli per il recupero bagagli, le luci gialle degli schermi e l’insegna freccia e abbozzo di due esseri umani – donna e uomo – per la toilette andare di là. Non c’è più nessuno e le porte scivolano e si chiudono e non si aprono più. Il cameriere mi chiede se.

– Sì, un caffè.

Lo bevo senza zucchero come faccio al mattino, ogni mattino che altrimenti non mi sveglio, e come faccio la notte, ogni notte che altrimenti non mi addormento. Bevo un caffè che potrebbe essere un giorno qualsiasi, invece è proprio il primo febbraio. Ogni volta il primo febbraio.

– Gino, scusami, ma non riusciamo proprio a venire questa sera.

Non conosco ancora l’orario del prossimo volo Milano-Napoli del primo febbraio dell’anno che verrà. Non lo conosce nessuno l’orario del prossimo volo Milano-Napoli dal quale tu non scenderai. Io comunque t’aspetto ogni anno, seduto al mio posto. È sempre il primo febbraio quando tu non verrai.

 



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