Numero 48 – Novembre 2018

Tra bordelli e paradisi

 di Eva Luna Mascolino

 

Conoscevo un trio dalle unghie rosicchiate che suonava giorno e notte all’angolo di una stradina periferica. Vicino al bordello della città, avrebbe specificato qualcuno. Vicino al Paradiso, avrebbe ribattuto un ubriaco. Poco importa, è un luogo di perdizione, avrebbe concluso una suora con una smorfia.
C’erano ascoltatori abituali che passavano da quelle parti tutti i giorni, soprattutto ragazzini con una palla in una mano e una pietra nell’altra. Talvolta giocavano ad imitare Pelé – quello è fallo, aspettami! passa la palla maledizione, ma dove tiri? rigore rigore rigore – e altre volte a farsi male, combattendo le proprie guerre con fionde e con sassolini raccolti sul selciato – FUOCO! non mi hai preso, vieni qui piccolo stronzo, FUOCO! arrenditi, sei morto morto morto morto.
Quando fango e graffi si facevano più numerosi delle gocce di sudore scivolate lungo la loro schiena, andavano tutti assieme ad ascoltare il trio che suonava vicino al bordello. Sono delinquenti, si sarebbe detto camminando loro accanto. Sono solo bambini, avrebbe ribattuto una madre. Poco importa, sono uomini, avrebbe concluso qualcun altro. Un saggio, magari, oppure un ammiraglio.
Il trio, dal canto proprio, suonava di buona lena a tutte le ore, indipendentemente da chi fosse rimasto a prestare loro attenzione.
Alla batteria c’era Ben, che colpiva i piatti sempre senza bacchette.

– Io il ritmo ce l’ho nella testa – sosteneva – non so se mi spiego, suono con i polmoni, con la milza e con tutta quella roba lì, io.

La grammatica non era il suo forte, però con la musica ci sapeva fare: lo si sentiva suonare e si arrivava a scommettere che conoscesse la colonna sonora dell’Inferno e che fosse in grado di riprodurla da Dio.
Nessuno aveva mai smentito simili dicerie, anzi, un giorno alcuni passanti finirono per chiederglielo.

– Ben?
– Cosa c’è?
– Da dove viene la musica che suoni?

Ben aveva sogghignato.

– Dall’Inferno.

Hai visto? Hai visto? Ha detto Inferno, proprio così, Inferno, dài, chiedigli qualcos’altro.

– Ehi, Ben?
– Sì?
– Com’è l’Inferno?

Quella volta Ben aveva smesso di suonare e aveva guardato fisso negli occhi le persone lì davanti, come se volesse pugnalarle con il solo potere delle proprie pupille. La gente attorno a lui si era spaventata e aveva rinunciato ad aspettare una risposta, scoppiando in una risata isterica e vigliacca contemporaneamente.
Alla chitarra c’era invece Ern, che suonava senza plettro, preferendo spezzarsi le mani a furia di raschiare le unghie contro le corde.

– Lei faceva così con me – aveva spiegato una volta Ern, per giustificare il proprio comportamento – grattava tutti i miei pensieri fino a vederli sanguinare. Mi faceva male, ma era una meraviglia. Qualche volta finiva che c’avevo pure il solletico, mi credete? E poi le mi amava, per cui era bello lasciarsi levigare il cuore senza ribellarsi.

Le sue affermazioni incantavano spesso l’auditorio. Anche perché Ern era un giocoliere e questo ormai era noto a tutti: si ispirava ad una vecchia storia o a tre sole parole e le faceva roteare in aria,. Più veloce, sempre più veloce. Più veloce ancora. Sempre più veloce più veloce fino a non capirci più niente più veloce ancora guarda che bello accelererà fino a morire ti prego fermati perché vai più veloce basta non vedi che tutti ci siamo fermati a guardare? Il Signore soltanto sa quanto sei bravo, Ern.
La reazione degli astanti era press’a poco questa.
Tutti i giorni.
Una volta Ern aveva addirittura raccontato una leggenda metropolitana capace, secondo lui, di incuriosire il Presidente russo. Si sarebbe detto che un chitarrista di strada come lui non conosceva affatto il Presidente russo né i suoi gusti in fatto di leggende, ma poco importa, avrebbe ribattuto Ern, mi ascolterebbe comunque.
Era la storia di un’anziana signora rimasta improvvisamente senza averi né casa dopo la perdita del marito. Cacciata via dal proprietario della dimora, si era ritrovata a girovagare per le vie fino al tramonto, fino a quando i piedi non avevano urlato pietà! a gran voce, per farsi sentire dalle orecchie e dalle mani e dalla gola, che erano lontanissime dai talloni.

Di norma, a quel punto, Ern faceva una pausa e si accendeva una sigaretta.

– E poi?

Lo chiedevano tutti, perché Ern smetteva di raccontare e prendeva a fumare.

– E poi? E poi la mattina seguente la vecchia si svegliò ch’era una bambina.
– Una bambina? Proprio una bambina, Ern? Ma che storia è questa?
– È la storia di chi mi interrompe, dolcezza.

Non c’era mai stato verso di farlo continuare.
Andavano avanti così per giorni in molti.

– Ti prego, Ern, continua!
– No.
– Ti prego, come va a finire la tua storia?
– Non va a finire, si è impiccata.
– Chi?
– La mia storia.

Alcuni curiosi aspettavano che lui dedicasse una serenata diversa a ogni coppia capitata nelle vicinanze del bordello e poi riprendevano:

– Ern?
– Eh.
– Ma la vecchia torna davvero bambina?
– Così dicono.
– E poi?
– E poi cosa?
– E poi che succede?
– Succede che questa è la vita, mi spiego? Finisce e basta, la vecchia torna bambina e si sveglia in Russia.
– In Russia? E perché?
– Non lo so, così si narra.

Non si riusciva a farlo proseguire, prima o poi aveva rinunciato chiunque. Alcuni si allontanavano con le spalle piegate e con un’ombra ridicola dietro di sé, a sancire l’agrodolce e fatua delusione di non essere stati accontentati.
Infine, alla tastiera sgangherata che componeva l’ultima perla di un complesso assurdo, c’era Sam.
Sam aveva il nome dello zio Sam d’America, ma, poiché era povero in canna, veniva preso da tutti per il culo. Finché non lo si sorprendeva a suonare, s’intende.
Sam, infatti, era il Liszt del Novecento, con la leggera differenza che non era un europeo e che strimpellava all’aperto. Ai più, lì per lì, sembrava un egiziano deperito, nonostante qualcuno lo scambiasse per un brasiliano. Spesso la diatriba sfociava in una lite, per cui Sam era costretto ad urlare SILENZIO! per favore, qui c’è gente che suona.
Il fatto era che Sam assomigliava al Liszt del Novecento, quindi tutti si contendevano i suoi natali: i banchieri del nord giuravano di averlo visto ad Amsterdam, altri a Stoccolma, altri a Cracovia. I venditori di sigari lo scambiavano per un argentino, ma poi era il turno dei monaci buddhisti, convinti che fosse un tibetano.

– Da dove vieni, Sam? – provarono allora a chiedergli, per sconfessare ogni dubbio.
– Dalla pancia di mia madre.
– E tua madre da dove veniva?
– Da una storia d’amore che il mondo ha dimenticato.
– E tuo padre, Sam? Tuo padre era un marocchino?
– No, mio padre era mio padre e basta.
– Non lavorava?
– No, faceva l’uomo di mestiere. Quello con le palle.

Gran bel modo di esprimersi, pensavano certi avvocati o ricchi imprenditori, quando raramente passavano vicino al bordello e assistevano a dialoghi del genere.
Durante un autunno particolarmente piovoso, qualcuno aveva messo in giro la voce che la madre di Sam fosse ancora viva e che lavorasse nel bordello lì davanti. Quando era stato mandato un bambino a domandargli se la notizia fosse veritiera, lui si era incazzato dalla punta dei capelli fino all’ultimo dito dei piedi, aveva sputato per terra e si era messo la tastiera sotto i mocassini marrò.
Fu in quell’occasione che quasi rimase senza più uno strumento musicale a disposizione.
La gente rideva di lui anche per quell’arnese sgangherato che teneva stretto a sé.

– Come fai a riconoscere il si bemolle, eh Sam? – lo si apostrofava con sarcasmo.
– Perché mi sorride.
– Da quand’è che i tasti sorridono? – mormorava la gente.
– Da quand’è che voi ve ne intendete di musica? – grugnava Sam tornando a suonare fino allo sfinimento, fino alle tre di notte, tutte le notti, anche d’inverno, anche mentre i geloni si mangiavano le falangi di quel bizzarro complesso sempiterno.

Conoscevo un trio dalle unghie rosicchiate che suonava all’angolo di una stradina periferica. Vicino al bordello della città, avrebbe specificato qualcuno. Vicino al Paradiso, avrebbe ribattuto un ubriaco. Poco importa, è un luogo di perdizione, avrebbe concluso una suora con una smorfia.
C’erano ascoltatori abituali che passavano da quelle parti tutti i giorni. Quando non si trattava di ragazzini, si trattava di belle donne.
Le belle donne amano la musica, aveva sentenziato Ern una mattina d’aprile. È vero, aveva aggiunto Sam, hanno inventato loro il tango, hanno dato loro un sapore al cioccolato, hanno fatto scoppiare loro le prime guerre.
Perciò, sia lui che Sam e Ern aveva iniziato a suonare per le donne di passaggio, per i capelli sciolti e per le gambe lunghe che avevano, tutti e tre incastrati al girovita di una qualsiasi di loro, alla borsetta di pelle di un’altra che attraversava all’incrocio o al piede misura 39 che una terza faceva dondolare come il pendolo di un orologio, mentre si fermava a leggere un manifesto affisso poco lontano dal bordello.
Tuttavia, nessuna donna si era mai fermata ad ascoltarli o a gettare qualche moneta nel cappello rovesciato che era stato poggiato a terra per le offerte libere. Per il trio era sempre un colpo duro assistere al transito di tante belle natiche e non essere capaci di attirarle a suon di polka o di valzer.
Probabilmente fu anche per questo che un giorno, quando un tale si avvicinò per lasciare ai musicisti un penny e chiese loro cosa ci facessero ancora lì, dopo chissà quanti anni trascorsi a strimpellare senza tregue, Ben aveva risposto:

– Io, per me, sto aspettando la Morte, l’unica femmina che non mi snobbi.
– Oh, lei non è sposato, signor Ben?
– No, porco mondo, non sono sposato, non è abbastanza evidente? Sono solo innamorato di questa città, dei suoi grattacieli e delle sue baracche, del bordello qui davanti e delle donne che transitano. Sono innamorato del mondo, porco mondo, ma il mondo non mi ama, per cui non mi è rimasto niente, a parte la musica e quel diavolo di Morte che verrà a prendermi prima o poi.

Il passante si era zittito per un paio di istanti.

– E voialtri, invece? – si era informato rivolgendosi al chitarrista e al tastierista, nel tentativo di allentare la tensione.
– Io ho una madre con un cognome lunghissimo e un passato da viaggiatore.

Questo era Sam.

– Ma lei è davvero originario Germania? – aveva continuato il passante con fare indiscreto.
– No. Anzi, non sono mai stato in Germania. E non assomiglio per niente a Listz, se lo vuole sapere. Sono Sam e basta. Sono qui da sempre e ci resterò finché qualche ragazzino non mi metterà definitivamente ko con una pistola fittizia.

Il passante aveva fatto una pausa perplessa.

– E mia madre era un’ebrea, va bene? – aveva proseguito Sam – Una povera ebrea messa incinta da un nazista. Ma io in Germania non ci sono mai stato, mi fa schifo quel posto. Puzza di sangue tanto quanto lei e le sue candide curiosità.

Sam aveva ripreso a suonare con un’area funerea, maledizione, a suonare per trenta, per quaranta, a suonare come un cavallo, come un invasato, senza prendere fiato, fino a scoppiare, come le storie di Ern, mentre Ern restava in silenzio, inebetito, ad ascoltare quel frastuono martellargli le cervella.

– E lei? Cosa ci fai qui? – venne chiesto anche a Ern dal medesimo signore, intestarditosi a schiarirsi le idee sul conto del trio.
– Io graffio il passato, come faceva lei con i miei pensieri. Oh, lei diceva di amarmi, sa? Mi faceva male dentro, specie quando andava a comprare quella roba da un amico comune e delirava dopo averla fumata, però mi amava. E la amavo anche io.
– E che è successo dopo?
– È successo che qualcuno l’ha trasformata in una chitarra, così adesso non smetto di suonarla.

Nell’udire quest’ultima frase, il passante si era allontanato con u’n’espressione indecifrabile, finalmente conscio di non essere gradito e di avere messo fin troppo alla prova la pazienza dei tre musicisti.
Prendetevi questa, voi che mi interrompete di continuo, aveva pensato Ern nell’accorgersene. Avete mai visto un’amante a forma di chitarra? Quali sono i suoi seni, sapreste dirlo?
Cristo, guarda! Se ne vanno tutti. Dove andate, di grazia? La smettete di scappare come tante mosche?
Oh, l’ho capito! È Sam a spaventarvi, non è vero? Sam suona e voi avete paura, Ben sta lì ad aspettare la Morte nel proprio Inferno di solitudine e voi dunque scappate, non è vero?
Restate qui, suvvia, non andatevene tutti. Ci sono dei ragazzini che giocano a calcio, ve ne siete accorti? E c’è un bordello, proprio qui davanti…
Vi fa paura anche la mia chitarra, per caso? Temete che torni a trasformarsi nella mia donna? Tranquillizzatevi, non succederà: lei è morta, MORTA, mi sentite? È morta mentre diceva di amarmi, mentre mi graffiava fino a fare male, è morta mentre mi accarezzava e io piangevo come un vigliacco mi amava, mi sentite? Ed è morta!
Non ha mai avuto intenzione di ferirmi ed era proprio lei quella vecchia che ritornava bambina, MI SENTITE? Era lei la protagonista della mia storia! È tornata bambina prima di morire, piangeva con me e contemporaneamente rideva, capite? Rideva come le cascate, con il mio cuore in mano, perché gliel’avevo vomitato sulle lenzuola, il mio cuore.
Diceva di trovarlo grazioso. Dio mio, come si può definire grazioso un cuore mal ridotto come il mio? Be’, lei lo ha fatto, e quel che è meglio è che lo ha fatto prima di morire, dopo avermi regalato una chitarra e avermi detto Devi suonarla finché mi amerai, promesso?
Perché dunque scappate, mosche schifose? Non volete che io mantenga la promessa? Sono un uomo di parola, io! Non forse il migliore fra gli uomini, come sosteneva lei, perché il migliore fra gli uomini l’avrebbe fatta morire di gioia sull’altare. Io no, io l’ho fatta morire di nascosto, come un topo invecchiato senza formaggio da rosicchiare, però voi non dovreste andarvene così, proprio ora che vi ho rivelato tutto. A me non importa niente di voi, sia chiaro, per voi provo solo pena, eppure dovreste restare qui a sentire il seguito, il seguito, il seguito…
Voi non sapete cosa sia l’amore, è questo il problema. Io cerco di insegnarvelo e voi andate via. Scappate come conigli, senza sapere cosa sia l’amore, mentre io l’ho conosciuto, com’è vero Iddio, io l’ho provato su quel letto, con lei e con la sua morte, per cui continuerò a suonare fino al Giorno del Giudizio, finché voi non andrete all’Inferno senza aver toccato neanche una volta i seni della mia bella chitarra consumata.

I pensieri di Ern avevano fatto una pausa di frustrazione, poi erano tornati sull’attenti.
Tutt’attorno nel quartiere continuavano ad esserci caldo e traffico, molti vestiti sguaiati in vendita e il solito brusio di mezzogiorno. E, all’angolo della strada, il solito trio dalle unghie rosicchiate aveva ripreso a dare voce in sordina al proprio dramma.

 



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