BIANCO DIO
di Sara Gambolati
C’è il bianco compatto della calce e quello perlato delle ostriche. Il bianco azzurrato delle uova, quello giallognolo dei capelli della Nane e il bianco della schiuma grigia e rarefatta. Il bianco rosato delle unghie dopo il bagno. Il bianco rosso degli occhi dopo bicchierate di tequila, il bianco livido dei giorni di febbre. Quello tagliente del lampo al magnesio ci risucchia bloccati per sempre nella stessa posizione: mia madre di tre quarti, seduta mani in grembo, dietro io, le mie sorelle e gli oleandri. Il lampo bianco ha imprigionato i nostri sguardi; quando ci stropicciamo gli occhi, la Nane si segna per il brandello di anima che è imprigionato sulla lastra fotografica. È convinta che un morto con la foto sulla tomba, nel Día de muertos, non possa tornare a mangiare le calaveras. Per lei mangiare è un’attività confermativa: Cristo risorto mangiò del pesce per dimostrare di essere tornato in carne e ossa. Il corpo rosa dei gringos; cannella, caffè, carbone il nostro: quello è vera vita per la Nane. Il mio corpo è stato ammalato e lei lo ha curato con l’acqua di noce e con il mole. Ancora adesso si occupa delle mie calze – una spessa per mascherare la gamba sottile – e del rialzo della scarpa. Quando torno da scuola mi caccia in bocca un pezzetto di tamales e guarda in basso, per essere sicura che non mi cada sui piedi. Se fossi morta investita da un cavallo o rapita dai bevitori di rhum, se quindi non fossi più una mujer ma un espiritu, chiaro che non mangerei come si deve. La mia Nane è contrariata che vada alla Scuola Preparatoria. Dice che studiare medicina – corpo nudi, corpi aperti – non va bene. Tutto quello che una donna deve sapere della vita sta dentro alla cucina ed è proiezione di qualcosa da mangiare: il cuore potrebbe essere una mela, un mango e due parti di papaia l’utero e le ovaie. Da piccola mi costringeva a mangiare il fegato di bisonte contro la paura e oggi potrei correre insieme ai contadini contro la Guardia Nacional, oppure chiedere udienza al Presidente; andare sotto il ponteggio del pittore e gridare: “Diego!”
Questo veramente l’ho già fatto. Guardavo dal basso i piedi scalzi che dondolavano nel vuoto e ho urlato: “Le paghi le tue donne, Dieghito?”
Si dice che ogni notte dorma con una donna diversa e contraccambi la cortesia inserendone la faccia nei murales. Mi sembra pochetto, anche se la più bella, magari, se la porta sul ponteggio.
“Ma lui è Rivera”, ha detto Alejandro. “Taci un po’”. Mi ha trascinata fuori dall’Anfiteatro Bolivar.
“Una volta mi piacevi Alejandro”, gli ho risposto tempestandolo di pugni – lui rideva – “perché portavi le punte del colletto all’insù e avevi gli stivali ingrassati al punto giusto.”
Mi piaceva anche che bevesse la pulque con mia madre e si sbronzasse sul tavolaccio della cucina. “Ma oggi non mi piaci più.”
Ha riso di nuovo e si è sistemato quel suo dannato ciuffo sulla fronte.
“Potresti essere un texano, Alex caro, o uno di quegli uomini pallidi che arrivano col piroscafo, non sei veramente sanguigno. Sei un espiritu anche se mangi a quattro ganasce e bevi.”
Anche il pittore beve, si dice che talvolta si addormenti con la fronte contro i contadini che fanno la siesta ancora freschi. Mi saluta quando entro zitta, zitta nell’Anfiteatro Bolivar. “Ti ho riconosciuta dal passo” mi dice.
Vorrei che vedesse i miei disegni perché lo considero un maestro, adoro i suoi colori: il giallo mais, il rosso bandiera, il marrone zolla appena rivoltata. Quando li guardo, sento qualcosa che sale dalle caviglie e corre fino a dove si congiungono le gambe – la Nane la chiama pesca – e devo subito disegnare sputando nella terra e usando il dito, o alitando su un vetro, o intingendo qualcosa nel sugo dei fagioli. È come un bambino che scappa da tavola per correre attorno ai cedri del patio.
I colori sono per me come il cibo per la Nane: il mio nome, Frida, è blu pietroso; giallo con le striature nere, Alejandro; Messico è un rosso come di ventre squarciato; Nane verde argento come le foglie dell’ulivo; la malinconia è colore dell’ambra messicana; il sesso opale di fuoco. Adoro enumerare i colori mentre sono sul tram e la città sobbalza sfilacciandosi come le sciarpe colorate che usano in campagna. Il colore del mondo è troppo per contenerlo e fa male dentro al petto. Le donne dei murales sono come le perle di una collana di ossidiana; riflettono la loro luce sul pittore, sul viso un po’ da rana, la lingua fra le labbra, lo Stetson sempre in testa.
Mi piacerebbe che Rivera venisse da noi per il Día de muertos, la Nane mi fa sempre decorare le calaveras e mia madre mette ovunque i mazzolini di cempasùchil. È una così bella festa che ci si dimentica che il Messico è caos e sangue anche in questi giorni. Mi potrei vestire da uomo: “Offrimi uno dei tuoi cubani, Dieghito, guardami in modo diverso, io sono una mujer particolare, non ho bisogno che mi inviti sul ponteggio. Io ci salgo da sola”.
E se il pittore mi mettesse alla prova chiedendomi del colore dell’amore? “Trasparente come la sofferenza”, gli direi.
Credevo di amare Alejandro, ma non lo so, non ho urgenza di cercarlo in ogni dove. Vederlo nella ciotola del mole, o fra i libri allineati. Sentirlo a strade di distanza che traballa su un ponteggio; immaginare le funi cigolare sotto il suo peso, il rumore delle latte di vernice. Alejandro è Alejandro, non potrebbe essere diverso, ma la mia vita sarebbe così differente se lui non esistesse? Mi tiene il broncio quando gli parlo così, io gli passo le mani sulle guance e gli faccio il solletico col pennello.
“Alejandro occhi d’ambra, non mi fai abbastanza male, è questo il punto. Io voglio soffrire tutta la vita di bellezza.”
Ecco, ha messo il muso, un broncio scuro. Mi ha anche infilato uno strano giocattolo con la molla nella tasca.
Il nostro autobus sta arrivando. Caracolla come una giostra, bisogna segnarsi davanti alla Vergine di Guadalupe appesa vicino all’autista quando si sale. Che scemenza, eh? Alex sorride un po’ della mia riverenza come se avessi la sottana larga. Si mette davanti a me e tutti e due guardiamo dal finestrino. Incollo il naso al vetro. Rido. Lo faccio ridere. Ai crocicchi stanno già preparando le ofrendas per il giorno dei morti. Gigantesche. Monumentali. Ho una scia davanti agli occhi — il sole, lo sbrilluccichio dei tram che si deposita dovunque — e abbagliata come sono mi sembra quasi che questo mezzo che viene in senso inverso si ingrandisca, diventi enorme, riempia tutti i finestrini. Per un attimo, prima che la sua mole metallica ci spinga uno contro l’altro e il muro di mattoni oscuri i vetri come se il sole si fosse spento, cerco le mani di Alejandro.
“Siamo ancora amici, vero Alex? Non essere geloso degli scherzi che faccio al pittore all’Anfiteatro Bolivar” lo supplico.
“Perdonami per quella volta che ti ho rubato quattro pesos di gazzosa”, ma non faccio in tempo a dirlo, sento solo il giocattolo nella tasca. Tutto esplode in schegge di colori diversi. Il caleidoscopio è dentro di noi. Trafigge tutto quello che abbiamo. Che ho. Se avessi ancora voce direi: “Alejandro, vedi, anche tu, tutto bianco, ora? Un bianco tutto nuovo. Un bianco trasparente?”
Un bianco Dio.
Ciudad de Mexico, 1925, 25 settembre.