Madre-patria
di Eva Luna Mascolino

Sono passati almeno trent’anni da quando ho imboccato l’ultima volta questa strada. Andavo nella direzione opposta e c’era odore di carne bruciacchiata. Non ricordo chi la stesse cuocendo, chi se la fosse dimenticata sul fuoco. C’erano però dei ragazzini che si rincorrevano sul selciato, e una ragazza più grande che li rimproverava con un tono simile a una filastrocca. Parlava la lingua delle campagne, intorpidita e piena di graffi.
Mia nonna parlava la stessa lingua, negli ultimi mesi di vita. Era troppo affaticata per sforzarsi di pensare come noi, che andavamo a scuola e che ripassavamo la grammatica ogni settimana. Lei si era lasciata andare e mio padre aveva capito che sarebbe morta presto nel momento in cui lei ha chiesto una caraffa d’acqua accanto al capezzale, e non l’ha fatto usando le parole che noi in casa riconoscevamo.
Mio fratello minore aveva cinque anni e si era subito informato. Che succede alla nonna, perché dice frasi strane, perché vuole l’acqua vicino a sé. Mia madre ha provato a spiegargli che erano dei segnali di una storia più grande pronta per compiersi, mio padre si è messo a piangere. La nonna si era sempre rifiutata di bere, anche se il dottore la pregava di cambiare idea prima di disidratarsi all’inizio e alla fine di ogni visita. Prenderò a bere di più solo quando vedrò con i miei occhi che non ci sono altri modi per guarire, mormorava lei. Rigorosamente con parole che io e mio fratello identificavamo subito.
Deve essere per questo che la parlata delle campagne mi puzza di morte. Mi fa paura, quando la ascolto serpeggiare di notte fra le bottiglie di birra che si scambiano gli altri operai. Mi costringe ad ascoltare una sorta di orologio che gira solo all’indietro, in direzione di quando avevo otto anni, in direzione di quando mia nonna ha maledetto il diavolo e poi ha chiuso gli occhi senza farci nemmeno una carezza. Nemmeno a mio padre.
Ora che percorro lo stesso sentiero di quel periodo, nessuno apre bocca. Le case se l’è mangiate il tempo a colazione. Ha lasciato solo la scorza, un paio di recinzioni umide e cigolanti. La gente è emigrata verso il fiume o verso i centri abitati. Ha ripudiato capre e cavoli, come si suol dire. E pure i cavalli, in nome del progresso. C’erano davvero tutt’e tre le cose, nei dintorni, prima degli ultimi tornado e delle riforme industriali. Adesso, invece, mi fa compagnia solo l’altalena che avevamo fatto pendere da un albero insieme ai figli dei vicini. Avevamo chiesto ai nostri genitori se fosse per caso una betulla, o magari un abate. Un pino o un salice, giusto per capire. Per sentirci più grandi. Dai vicini, però, si chiacchierava poco. Per lo più si sentivano le donne urlare e gli uomini rompere oggetti. Da noi, c’era la nonna allettata. Io e mio fratello ci vergognavamo a domandare perfino il burro per la merenda, figuriamoci i nomi degli alberi.
Poi mi sono spostato in città, o meglio, nella sua periferia tentacolare. E lavorando dalle sette del mattino alle nove di sera ho smesso di pensare agli alberi e ho cominciato a preoccuparmi di contare per bene le banconote verdi e quelle marroni. Il tempo libero lo impiegavo a mandare telegrammi alla mia famiglia, a comprarmi scarpe robuste, a non farmi rubare la zimarra dai più furbi. Torno qui che l’albero si chiama ancora Albero, perché tutti gli alberi sono rimasti Albero e tutti i fiori Fiore, e tutta l’erba semplicemente erba.
Le montagne, quelle sì, sapevo distinguerle. C’era il Monte Lungo, là a sinistra, dove l’occhio smette di distinguere l’azzurro dei corsi d’acqua da quello del cielo. Poi la Catena dei Re, la Roccia delle Stelle, la Vetta dei Temerari. E infine, dietro casa nostra, il Colle Giallo. Sembrava essere sorto appositamente al centro di ognuna delle nostre finestre – della vista esterna, intendo dire, a metà fra la prateria e i casermoni. O fra la stalla e la prateria, o fra la prateria e la prateria. Prima di dormire, io e mio fratello gli rivolgevamo sempre una preghiera. La mamma non credeva in nessuna divinità, né in quella della capitale né in quelle dei campi. Papà aveva creduto a lungo in un grosso uomo che stava sempre appoggiato sull’armadio. Uno scolpito in legno, con la barba. Quando era morta la nonna, era sparito. Papà diceva sempre che l’avevano fatto seppellire con lei per sua espressa richiesta, però lui da quel momento aveva smesso di raccomandarsi a chiunque altro.
Io e mio fratello, dal canto nostro, invocavamo ancora il Colle Giallo. Inventavamo ogni sera rime diverse, quasi che si trattasse di un gioco. Avevamo un pensiero di bontà per parenti e conoscenti, per i compagni e per i loro cari, e ridevamo spesso nel trovare loro degli pseudonimi degni della nostra orazione.
A occhio e croce, quantomeno le cime sono rimaste identiche a come me le ero imbottigliate nella memoria: inquietanti e severe al punto giusto. Faccio fatica a riconoscere le baracche intorno, invece. Non è rimasta traccia della locanda, né delle incisioni che il nostro gruppo di amici si era impegnato a scolpire in certe notti d’estate sul retro delle casematte abbandonate. Le casematte stesse sembrano bruciate dall’arsura e levigate dalla neve. Irriconoscibili, come i volti incartapecoriti di chi è invecchiato qui mentre io mi riparavo dalla pioggia nei negozi di suppellettili e ascoltavo le scommesse su chi avrebbe fatto scoppiare la prossima guerra.
Disorientato, mi affretto a raggiungere casa. L’unica casa che abbia voluto chiamare tale, sebbene non ci metta piede da minimo trent’anni. L’unica patria concepibile fin da quando sono nato. Non è stata tale la camerata in cui ho cambiato lenzuola e cuscini alla fine di ogni stagione, né la gattabuia in cui mi hanno portato una volta per provare a rubarmi il formaggio coi buchi. Dicevano che, se glielo avessi lasciato, mi avrebbero presentato una donna. Io di donne ne conosco già, aveva balbettato, e loro a insistere che lei sarebbe stata diversa, che mi avrebbe toccato diversamente. Un imbroglio da due soldi, insomma, mentre il mio formaggio valeva di sicuro il doppio. Perciò ho rifiutato, ho diviso il formaggio in più parti e ne ho regalate alcune, pregando che mi riportassero dagli altri e che si intrattenessero loro con le donne.
Devo confessare di essermene pentito, in seguito. I loro sorrisi mi hanno sempre illuso che avrei scoperchiato uno strano ed esotico tesoro, se avessi rinunciato al mio formaggio. Me li porto ancora in tasca e controllo che siano sempre ammiccanti come allora – lo sono sempre, sarei pronto a giurarlo, sono i sorrisi più affamati che abbia mai visto. E ne ho vista di gente quasi morta di stenti, io. Ho iniziato a ragionare sul fatto che mi sarei riempito la pancia diversamente, insieme a loro. E ho fantasticato spesso sui fianchi che avrebbe avuto la loro donna. Sarebbero stati morbidi come quelli di mia madre o timidi come quelli di mia nonna? Le orecchie sarebbero state a sventola, come quelle di molte figlie della zona? E le ginocchia, le dita, il colore dei capelli? Sarebbe diventata un po’ anche mia, quella donna, se mi fossi soffermato con gli altri, o sarebbe rimasta un’estranea come le altre matrone che accendevano il fuoco nei capanni intorno al nostro e che però mi salutavano con pastosa gentilezza?
Di norma scaccio le domande insistenti con la mano destra, come faccio con le mosche. Oggi è la mano di mia madre a trasformarle in fumo. La destra, guarda caso. La vedo agitarsi dalla finestra e penso che per lei non sarò abbastanza profumato, abbastanza alto, abbastanza sereno. Ho troppe rughe sulla fronte, ho i calzoni di ieri e l’altezza non mi fa certamente assomigliare a mio fratello, a quanto ho appreso dalla corrispondenza che ci scambiamo. Tuttavia sono suo figlio, su questo non ci piove. Può grandinarci, al massimo, e possono passarci sopra le trombe d’aria, ma non ci piove mica. Quindi la saluto con la mano destra e aspetto che sia lei a fare scattare la serratura.
Mi apre la porta e la vedo assomigliare a mia nonna, per una frazione di secondo non la riconosco. Ha la bocca curva, i denti ingialliti, le mani come una rete costruita con lo spago. In fondo agli occhi è rimasta identica. Le vado incontro per abbracciare di lei soprattutto quegli occhi, per dire almeno a loro che il tempo ha risparmiato dalla voragine il mio affetto. La sento commuoversi e capisco che è una bella risposta, un grazie travestito da un po’ di acqua e sale.
Quando ci ricomponiamo, non so quale parola pronunciare per prima. Ho l’impressione che sia importante sceglierla con cura, che dovrei articolarla per bene e sperare che mia madre non si vada a proteggere dietro la cortina di decenni in cui sono diventato adulto lontano dal suo petto.
Apro la bocca e lei invece me la richiude con un polpastrello. Il secondo della mano destra.
Mi solleva dall’incarico e mi dà le spalle quanto basta a riempire un bicchiere fino all’orlo, sotto al lavandino della cucina. Me lo porge e io bevo, ancora in piedi e con un braccio ciondoloni. Il sinistro. Non ho la forza di osservare lo stato delle pareti, dell’intonaco, del soffitto. Evito di guardare i lampadari, il pavimento, i mobili in legno. Guardo solo il bicchiere, finché non lo svuoto e ho di nuovo il palato asciutto.
Mia madre sta stringendo uno strofinaccio e si sta asciugando una lacrima pellegrina. Capisco che non vuole risposte, da me, che non c’è bisogno di raccontarle niente. Sa già quanto basta. Sono io a non capire, sono io ad essere rimasto indietro. Sono io che lo chiedo: Ebbene, come stai? E lei a condividere trent’anni faccia a faccia con me in un quarto d’ora.
Fino a questo momento mi ero concesso il lusso di immaginarla soltanto, la loro miseria. Di essere al loro fianco empaticamente, mai fisicamente. Di costruirmi le righe che volevo, per allungare quelle sconnesse che arrivavano dal loro indirizzo. Di essere il figlio laborioso e pieno di premure che qualsiasi genitore desidera dipingersi sotto ogni telegramma. Di spazio ne rimane a sufficienza perché uno adoperi addirittura più di un colore per renderlo vivido.
Oggi sono uscito dai fogli di carta e sono qui, con il mio sangue e le mie ossa. E lei mi parla, con i suoi muscoli e la sua pelle. Siamo due sacchi riempiti di organi e di esperienze pregresse, che appena vibrano le corde vocali giuste si scambiano gli umori. È così che realizzo a che velocità si muovono le sue preoccupazioni e quanti chilometri abbiano percorso da quando io ho raccolto le mie cinture e i miei bottoni, e ho separato i miei rumori interiori dai suoi.
Ho il fiato corto nel tentativo di starle dietro. Ascolto di mio padre, di mio fratello, di chi ha venduto i divani per comprare azioni in banca, di chi ha perso le azioni in banca ed è rimasto senza poltrone. Mia madre parla e le travi tremano sopra di noi. Ne crolla una che mi costringe a girarmi verso la credenza e a vederla senza vetri. Ne crolla pure una seconda in corrispondenza del pilastro, dove una foto di mia nonna è appesa a un solo chiodo. Mia madre non si accorge di nulla, prosegue con il suo rosario di aneddoti e intanto i muri si piegano come foglie secche, verso l’interno. La casa sembra di una plastica scadente, pronta a sciogliersi sotto la pressione di una forza che ci sta braccando in un cerchio sempre più piccolo di respiri intimiditi.
Vorrei prendere la testa di mia madre e costringerla a vedere. Ci sta crollando il mondo addosso, vorrei strillarle, com’è possibile che non ti scomponi? Mia madre agita le spalle e il movimento delle sue scapole mi frena dal prendere l’iniziativa. Percepisco che il mio fastidio l’ha sfiorata e che lei lo ha scacciato deliberatamente. Così mi rendo conto che il mondo sta crollando solo addosso a me. Che la casa che avevo sperato di ritrovare non esiste più, che le tubature sono otturate e alla stessa maniera lo sono i destini della mia famiglia.
Mio fratello ha provato a riscattarsi e si è affidato alla persona sbagliata. Voleva diventare un predicatore, è diventato uno spacciatore. Voleva mettersi al servizio dei più poveri, li ha vincolati al suo servizio. Mio padre ha continuato a comunicare con mia nonna per un bel po’, finché una notte lei gli ha proposto un accordo: un’esistenza più dignitosa, a patto di fidarsi delle sue indicazioni. Lui ha accettato e si è fatto istruire dalla persona sbagliata per restare in contatto con mia nonna. Voleva arricchirsi, ha svenduto l’argenteria. Voleva salvarsi, è finito impiccato. La megera si è defilata, e forse anche mia nonna, da ultimo.
Metto meglio a fuoco la stanza e capisco che è in cenere. Che non c’è nessuna stanza in cui sentirsi al sicuro e che mia madre e la mia patria sono state erose da cataclismi dei quali nessuno mi aveva messo al corrente. Avevano fabbricato per me una bugia luminosa, che mi ha tagliato fuori dalla verità e che ora mi appare come una pellicola soffocante. Per romperla devo sfoderare i denti e rimanere in silenzio. Parla mia madre, io ingoio la cenere e lascio che mi scorra nel sangue il suo sapore. Voglio sentirmi cenere anche io, senza protezioni, per condividere con loro quantomeno il dolore di essere arrivato tardi.
Domani tornerò al lavoro, pagherò per la mia assenza e trasporterò il doppio del cemento, oggi però sono qui e non ho nessun altro fazzoletto di terra pronta a ospitare i miei singhiozzi.
– Perché non mi avete mai scritto? – mi costringo infine a indagare, con un filo di voce.
– Ti abbiamo scritto.
– Sai cosa intendo.
– Ci abbiamo provato, ventitré anni fa. Tuo padre ha insistito per accennare a tuo fratello.
– E io?
– E tu non hai capito.
– Non ci credo.
– Non hai capito. E noi abbiamo smesso di provarci.
– Che avevate scritto?
– Non mi ricordo. Eravamo stati vaghi.
– E io non ho capito.
– E noi abbiamo smesso di provarci.
Me lo conferma con una voce che viene dall’oltretomba.
Torno a guardarla e nei suoi occhi scopro un lamento incessante. La abbraccio di nuovo e non so in che modo domandarle perdono.
– Sono io a doverlo domandare a te.
– Di che parli, mamma?
– Del perdono.
Non mi spiego come mi abbia sentito, forse è perché lei non ha mai smesso di ascoltarmi. Non mi ha mai lasciato la mano destra, se la stringe al cuore all’alba.
– Non è necessario, non questo.
– E cosa, allora?
Mi siedo per terra e faccio cenno a mia madre di raggiungermi, perché si appoggi sulle mie gambe. Posa la testa sulla mia e io le abbasso le palpebre lentamente.
Siamo all’aria aperta, la visione della casa di un tempo è scomparsa definitivamente. Una nuvola bianca ha schermato il sole e un sogno della stessa consistenza ci rimbocca le coperte. Sogniamo lo stesso sogno, vecchio di circa trent’anni.
Ci sono dei ragazzini che si riconcorrono sul selciato, e una ragazza più grande che li rimprovera con un tono simile a una filastrocca. Parla la lingua delle campagne, intorpidita e piena di graffi. Qualcuno ha adornato un albero con un’altalena poco sofisticata, il Colle Giallo troneggia in mezzo alle finestre e mia nonna trascura la brocca in bilico sul comodino. Mio fratello sta giocando con tre sassi, due elastici e nostro padre. Ha quattro anni.
Io dormo sulle gambe di mia madre, la testa posata sulla sua, in cucina. Quando mi sveglio, mi stropiccio gli occhi e le dico di non avere paura. Che non andrò via, che inventerò un lavoro alternativo per tutti. Porteremo la nonna in un ospedale vero e crederemo ancora a lungo alla statuetta dell’uomo con la barba. La casa rimarrà al suo posto e noi al nostro.
– Stai farneticando – si allarma mia madre.
– No, mamma. È che ho fatto un incubo, però ora sono tornato.
– Tornato da dove?
– Dal futuro.
Lei ride, rovesciandomi addosso un secchio di campanelle bianche.
Corro a guardarmi allo specchio e i capelli sono ancora tutti biondi. Niente grigio, specie sotto la fronte. Fuori ci sono le stalle, le casematte, la prateria. Non hanno costruito le ferrovie né bonificato il fiume.
E dentro ci siamo noi, integri e ignari. O quasi.
Raggiungo mia nonna in camera da letto. Apro la porta con la mano destra e la vedo assomigliare a mia mamma, per una frazione di secondo non la riconosco. Ha la bocca curva, i denti ingialliti, le mani come una rete costruita con lo spago.
– Nonna…
– Cosa c’è?
– Secondo te che cos’è la patria?
– La patria?
– Eh.
– In che senso?
– Non lo so. Secondo te che cos’è?
Mia nonna si agita sotto le coperte, tossisce.
– Secondo me è la lingua che parlavano i miei genitori, e i loro genitori prima ancora.
– La lingua delle campagne?
– Sì.
– E tu la conosci?
– La conoscevo, ma non mi è mai piaciuta.
– Me la insegni?