The sidereal song of Emilia Kalipteia
di Sonia Aggio
[…] nel caso delle galassie che si allontanano è conosciuto come spostamento nel rosso, o red shift (perché la luce che si allontana da noi si sposta verso la parte rossa dello spettro, mentre quella che si avvicina tende al blu).
(Breve storia di (quasi) tutto, Bill Bryson)
Almö suona pizzicando una chitarra, schiacciando una pulsantiera che brilla e lampeggia come un nido di stelle lontane, osservando le Perseidi.
Poi si ferma, le dita sulle corde.
Swoooosh la porta scorre sulle guide.
Tomp tomp tomp dei piedi sulle mattonelle.
Tutte le teste si voltano, lei passa di corsa, i capelli sciolti nell’aria, attraversa il giardino a falcate, la gonna bianca si ritira come risacca sulle gambe. Negli occhi ha le scie bianche-azzurre delle stelle cadenti.
Alle sue spalle chiedono: “Ma quella chi è?”
“Emilia Kalipteia” risponde Almö.
“L’astronoma?”

Un sole arancione bacia i campi umidi e le colline verde-oro che si stagliano contro il cielo nero. Merope cammina attraverso i campi di granturco, Emilia la segue. Urtano le stoppie con i piedi nudi, si aprono tagli rossi sulle caviglie.
“Merope, rientriamo” dice Emilia, stringendosi nelle spalle. Sua sorella si ferma, si volta trattenendo i capelli con la mano. Ha gli occhi grigi, il suo viso non sorride e non si aggronda, è pulito come dopo la pioggia.
All’improvviso si alza il vento, il sole fa una luce rossa. Emilia sente le labbra spaccarsi. “Merope” ripete, tendendo la mano. La sua bocca sanguina.
C’è un ruggito da incendio, la faccia di Merope diventa un triangolino bianco-grigio e castano, poi scompare.
Galleggia, sola, nello spazio.
Le stelle sono rosse-bianche-azzurre, le nebulose rosa-verde. Si copre gli occhi come può, ogni luce la ferisce, le taglia gli occhi. Passa attorno a sistemi solari, pianeti che danzano e si inchinano, e trema pensando a quel sole che si spegne ruggendo.
C’è burrasca e c’è bonaccia, a volte sibila tra gli asteroidi, altre volte galleggia nel vuoto — aspetta.
Impara che le galassie si allontanano, prendono il colore del fuoco, poi della ruggine, poi del sangue. Resta qualcosa — una luce tremula, che penzola come una lacrima —, un sospiro.
Le galassie vanno.
Emilia osserva la cometa che le corre incontro, ascolta il sibilo dei gas azzurrini. Aspetta di essere colpita, di essere fatta a pezzetti, ma la roccia si incendia, si crepa, si apre come una pesca davanti a lei.
Merope è dentro la cometa.
Tende le braccia, i capelli sparsi come sott’acqua. È tutta grigia. Emilia apre la bocca per chiamarla, quando vede scintille rosse accendersi sulla punta delle dita e dei capelli. Meropevieniquinonnelrosso grida Emilia, senza voce. Merope guarda lontano, trasognata. Non si cura delle scintille che la consumano.
Emilia rotola indietro, il vento della cometa la trascina via, il ghiaccio le strina la faccia. Merope resta sospesa, braccia e gambe larghe, un piccolo sorriso, finché le scintille la ricoprono tutta. Emilia scalcia.
La cometa va.
Almö si muove con cautela, con il sangue che pulsa nelle orecchie. Le acque dello stagno sono increspate. C’è qualcuno sulla riva: una donna rannicchiata, con i capelli lunghi. Nasconde il viso tra le ginocchia.
“E-Ehi” sussurra Almö, avvicinandosi.
Lei alza lo sguardo: la luna si acquatta nei suoi occhi grigi. “Io sono Emilia” risponde. Appoggia le mani sul terreno, avanza a quattro zampe. Poi si sporge, si specchia. “Io vengo da qua” dice allungando il braccio. Infila il dito nell’acqua, poi lo ritira. Si sposta a destra. “E sono stata qui, qui e qui” continua tracciando archi e cerchi sulla superficie.
Almö osserva le increspature, poi si schiarisce la voce. “Che ne dici di entrare in casa? Avrai freddo”.
Emilia resta in silenzio per un attimo, poi si alza. Lo segue attraverso il giardino; Almö apre la porta-finestra, lei resta indietro, con il piede sfiora il patio in legno. Lui accende la luce, Emilia indietreggia, le mani sugli occhi.
“È troppo forte” si lamenta. Almö le va incontro, le afferra i polsi. Abbassa lentamente le braccia di Emilia. Lei batte le palpebre, i suoi occhi sono coperti da un velo color perla, guardano dovunque e da nessuna parte.
Impara presto che Emilia vede soltanto la notte. Quando infilava la mano nell’acqua, la notte in cui era arrivata, non vedeva puntini bianchi, ma una grande nebulosa di pesca, le saette verde menta di una tempesta spaziale, il nero-viola-blu di un buco nero. Nello stagno leggeva una mappa, il suo viaggio attraverso le stelle.
Di giorno assomiglia a una falena, urta contro i mobili, brancola in corridoio appoggiandosi alle pareti.
Almö le compra un paio di occhiali da sole, la prende per mano e la porta all’università. Parlano con un professore, poi il presidente della facoltà. L’uomo resta in silenzio per qualche minuto, le mani giunte davanti al viso, poi si alza, gira attorno alla scrivania e sceglie un libro da uno scaffale.
“Ecco qua” dice spingendolo verso Emilia. Almö corre a spegnere le luci, abbassa le tapparelle.
Lei si toglie gli occhiali, batte le palpebre, appoggia le mani sul libro. Traccia una linea, poi svolta a destra, gira la pagina, riprende a muovere l’indice. All’improvviso si ferma, ha un fremito. “Vengo da qui” dice. Almö fa scattare l’interruttore, il professore osserva il punto indicato da Emilia.
“Tornate stasera” borbotta.
Tornano. Per un po’ restano seduti nello studio: Almö sfoglia un atlante, Emilia guarda dritto davanti a sé, il professore osserva il cielo. Alla fine si alza e prende il telescopio, lo regola e si volta: “Vieni, Emilia”. C’è una morbidezza allarmante nella sua voce. Almö se ne accorge e lancia uno sguardo allarmato ad Emilia, ma lei non se ne accorge. Si toglie gli occhiali, guarda nel telescopio. C’è un attimo di silenzio. Almö fa un passo in avanti. Emilia resta immobile, poi getta a terra l’attrezzo e fugge.
Il professore si fa avanti. “Il punto da cui Emilia dice di provenire corrisponde all’elemento W125-HL. Non sappiamo cosa sia, forse un pianeta… comunque, è stato smembrato dalla morte di una stella.”
“Il sole rosso” replica Almö.
Il professore sospira. “Sì, se dobbiamo fidarci… ma è successo almeno cinquecento anni fa. I primi segnali ci sono arrivati… due mesi fa? Com’è possibile che Emilia venga dal passato? Com’è possibile che abbia assistito alla morte di una stella cinquecento anni fa?”
Almö non conosce la risposta.
“Dicono di lei: “Emilia Kalipteia mangia stelle a colazione”; “Quanti di noi riuscirebbero a dedicarsi a studi complessi come l’astronomia senza aver studiato? Emilia Kalipteia può”; “Emilia Kalipteia possiede un orecchio assoluto, una sensibilità viscerale, di pancia, nello svelare i misteri dell’universo”.
Eppure nessuno, nonostante la curiosità che Emilia suscita in più di un ambiente, si è mai chiesto perché si sia dedicata a una scienza di enormi distanze, di luci aliene, perché getti il suo sguardo in un’immensità che preclude ogni contatto — in cui galassie enormi se ne vanno alla deriva ai confini dell’universo; in cui lo spettro disperato delle supernove ci raggiunge, quando riesce, dopo migliaia di anni; in cui gli echi del Big Bang strisciano ancora in crepitii e piccole interferenze, come cenere dopo un incendio. L’astronomia è una scienza di piani sfalsati, passati e presenti che si incrociano distrattamente e comunicano in ritardo.”
Almö tiene d’occhio le recensioni e gli articoli e scrive canzoni sui racconti di Emilia: la migrazione delle balene celesti, le grandi tempeste di ghiaccio e fulmini, i piccoli boschi di fiori rosa trasparente.
Emilia risolve equazioni, disegna mappe e ascolta audiolibri. Le piacciono le opere di Tolkien. Almö si è abituato ad ascoltare brani del Signore degli Anelli e de Lo Hobbit, ma Emilia ama un’opera più di ogni altra.
Nelle lunghe notti d’estate si nasconde in fondo al giardino, appoggia il telefono sull’erba e fa partire La leggenda di san Brendano.
Viene la notte in cui Almö suona pizzicando una chitarra, schiacciando una pulsantiera che brilla e lampeggia come un nido di stelle lontane, osservando le Perseidi.
Poi si ferma, le dita sulle corde.
Swoooosh la porta scorre sulle guide.
Tomp tomp tomp dei piedi sulle mattonelle.
Tutte le teste si voltano, lei passa di corsa, i capelli sciolti nell’aria, attraversa il giardino a falcate, la gonna bianca si ritira come risacca sulle gambe. Negli occhi ha le scie bianche-azzurre delle stelle cadenti.
Alle sue spalle chiedono: “Ma quella chi è?”
“Emilia Kalipteia” risponde Almö.
“L’astronoma?”
“Proprio lei”.
Lei ascolta le loro parole. Si siede sotto le piante di bambù, davanti allo stagno che riflette le stelle. Dal telescopio ha visto spegnersi gli ultimi fuochi, poi il buio. Rimane una polvere di sangue, ruggine e fuoco. La sua casa non esiste più, Merope è scivolata nel rosso.
Fa partire La leggenda di san Brendano. Dalla casa arrivano le note di Almö, le sue canzoni: Gli echi delle comete, Quando vennero le balene. Tutti ascoltano in silenzio.
Emilia striscia sull’erba, fino all’acqua luminosa. Si immerge.
Dove lo Shannon si immerge nel Lough Derg
sotto un cielo vestito di pioggia
San Brendano arrivò alla fine del suo viaggio,
per trovare la grazia di morire.
(La leggenda di San Brendano, J. R. R. Tolkien)