Numero 46 – Settembre 2018

Domani

di Sabrina Maio

 

“Piccolo Sud #74” Emiliano Cribari

Domani morirò. Oggi, però, non ne ho la più pallida idea, e forse dovrei. Tante strane idee per la testa e tanti i presagi: uccelli neri in cielo, più del solito, giù in picchiata per poi vederli schizzare in alto all’improvviso. Così avrei voluto la mia vita. L’avrei desiderata sbalzata sempre in avanti, seguita da tonfi pazzeschi. O forse ancora più diversa. Avrei potuto essere, che so, un buon meccanico, sotterrato sotto un auto a prendermi quel tanfo di olio e velocità che tanto piace. Entrare nell’ingranaggio della potenza e della velocità. Capire finalmente che senso ha il correre, il fare prima. Invece no. Mi sono fermato spesso prima del traguardo. Da troppo tempo ho preso l’abitudine di lasciare che tutto avvenga. Lascio andare. E oggi non ho voglia di parlare. Sono, non so, come stordito e innervosito dagli altri. Non voglio sentire più parole. Mi affollano. Ho finalizzato la mia esistenza, a pensarci bene, affinché ci fosse silenzio nelle mie stanze e nei miei pensieri. Non ho desiderato molto di più.

Oggi è domenica. Ho scelto di camminare per la città. Ho lasciato lei nel letto avvolta nella sua pigra sonnolenza, con quel pugno sullo zigomo, senza cui non dorme. L’ho lasciata in quella che un tempo era la sua sensualità e che oggi è solo un mucchio di tristezza che si accumula sulle sue gracili ossa. Le guardo le scapole che si sollevano sommessamente di notte sotto una pelle mappata da tanti nei. Mi chiedo sempre cosa contenga di nascosto e di irrisolto il suo piccolo involucro, portato avanti con quella sua tipica camminata sulle punte. È tutta pelle, e la mostra continuamente. I capelli legati all’indietro, le profonde scollature a V su un petto scarno, le gambe in mostra per casa, le pieghe che fa sull’attaccatura della caviglia. Ci sarà un oceano sotto quella distesa oceanica di epidermide. E quanta vita avrà perso nelle sue screpolature e nelle mie. Ho il suo odore sempre nelle papille, detersivo e unto di capelli. Riconosco solo il sapore che ha tra i denti, le rimane anche dopo che ha bevuto il caffè. Ha sempre voluto baciarmi spesso, è la sua necessità. La lascio fare. Chissà che pensa del mio sguardo accondiscendente, ma mai accorato. Credo che i primi anni non mi stimasse molto per questo. Lei lottava per tutto e io dubitavo su tutto. Poi si è legata ai miei dubbi, ne ho la certezza. I nostri dubbi ci hanno consentito di sopravvivere. Sono stati quella leggera nuvola grigia che ha permeato la nostra vita quotidiana. Abbiamo finito col bussare alle nostre porte con la certezza che in casa non ci fosse nessuno.

Percorro questo viale misurandomi con i miei pensieri. Ma sono più brevi di questa strada. Provo a immaginare allora. Ma i miei passi fanno uno strano rumore, chissà se se ne accorgono quelli che incontro. Non sono omogenei e un piede si trascina, non c’è verso che cambi modo. Magari qualcuno potrebbe chiedermi che mi è successo al piede, potrebbe preoccuparsi per me, e lo desidererei in fondo. Ma nessuno mi guarda. Mi fermo allora, immobile sotto un’ombra di un albero. Aspetto e osservo la gente che torna con le borse cariche di spesa e di paccottiglie. C’è un mercato vicino. Sento voci distanti di banditori. Vorrei tante cose, come la loro convinzione dell’affare fatto, e come sarebbe bello se me la regalassero per Natale. Abbraccerei perfino la corteccia ombrosa di quest’albero per una certezza. Lo osservo e lo invidio. Gli alberi hanno la fortuna di nascere e crescere sempre, stanno lì, immobili, indifferenti a intemperie, piscio, aerei da guerra che gli passano sulla chioma. Cazzo gliene frega di ciò che hanno intorno. Cazzo gliene frega a questo qui, che mi ripara, che il mio piede fa le bizze.

Passa una donna molto elegante. Lei cammina bene, le guardo i piedi, si muovono uguali, ma no, uno prende una svolta accentuata più a sinistra, con un leggero tremolio mentre lo solleva. Chissà se lo sa, se ne sarà mai accorta? Per un attimo ho un guizzo, glielo direi, si, glielo direi di volerla aiutare. Le porgerei la mano soavemente e le terrei il malleolo mentre lei avanza. Troppo lontana.

Arrivano dei ragazzi che si spingono l’uno con l’altro, urlano e berciano, mi guardano con finta indifferenza. La loro vita è un fiume in piena, se ne sente il rumore. Ho paura della loro insensatezza. Decido di muovermi dall’ombra dell’albero e li seguo. Si rincorrono e si mollano ceffoni. Non sono di questa città, lo sento da quel tirare la lingua sotto il palato come una burla. Si fermano in un bar, qualcuno prende una gazzosa, qualcun altro osa con una birra. Altri restano fuori a fumare. Fanno riserva di ciò che non potranno fare nelle loro case. Con gli anni ne resterà solo il ricordo delle loro piccole trasgressioni nelle fughe autorizzate in città. Sento che litigano per il loro calciatore, animati più che mai. Si zittiscono solo quando passa qualche ragazza carina, persi in un sospiro da piccolo sogno di un attimo che ancora qualcuno di loro forse non conosce. Li lascio andare quando non riesco più a stargli dietro, ma li seguo con lo sguardo finché posso, come le nuvole che nelle giornate di maestrale si muovono e si dissolvono velocemente in cielo.

Mi fermo su una panchina di fronte alla collina di case disposte in salita, con su in cima il Duomo. È la mia città, non l’ho mai lasciata, né desiderato farlo. È fatta di stradine strette e difficili, gli odori sono sempre gli stessi, sono vie di spezie e di sale. Le persone le attraversano ma non parlano molto, qui la gente è sempre stata silenziosa. Li incontro spesso che salgono a testa china. Aprono il portoncino di casa ed è come se avessi l’impressione che ci si nascondano subito dietro, come colti da paura. E in quell’ansimare al riparo dietro uno schermo protettivo c’ero anche io, il mio mondo e tutti gli oggettini che ho raccattato, dimenticato e lasciato alle intemperie del pulviscolo in una stanza. La mia città si perde in questo groviglio, è assalita ogni giorno da tanti turisti, ma ha angoli dove il sole non batte e i muschi si ripetono nelle parti più basse come un tappeto. Li guardo e osservo sempre quando ci passo. Solo a pensarci ora vengo sopraffatto da un senso di rapimento vuoto. Penso a questo piede che fino a poco fa non voleva appartenermi, alla nostra ossessione di voler sempre tenere tutto, a non voler consegnare il corpo alla malattia, ma che, non con tanta protervia, affidiamo alla noia. E mi assale la consapevolezza di essere un uomo, solo un uomo che è un pugno di ombre e ossa.

Da lontano sulla destra giungono una coppia di anziani, lui porta una borsa di una pasticceria, camminano lenti, ma hanno passi fermi e vigorosi. Quando arrivano alla mia altezza mi guardano un attimo e lei dopo avermi scrutato un secondo, mi sorride. Vanno via. Mi alzo anch’io in preda a un desiderio urgente di tornare a casa da lei, che forse sarà già sveglia da un pezzo. Me l’immagino nel suo pigiamino striminzito e sgualcito dalla notte coi capelli tirati in su, alla meno peggio, da un mollettone che cambia sempre colore.

Torno verso casa, mi fermo sotto il portone, penso solo un attimo e salgo su. Stanotte sognerò me in una sala del cinematografo, fermo dalla parte del film, dello schermo, a guardare uno per uno gli spettatori, chi abbracciato, chi rannicchiato storto, ma tutti con un’espressione sempre definita, dallo stupore alla gioia, dalla commozione all’orrore. Poi forse dirò loro qualcosa e poi domani davvero non lo ricorderò più.

 



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