Vladimir’s blues
di Eva Luna Mascolino
Ma le cose fragili, come un pensiero, un sogno, una leggenda, durano in eterno.
(C. Palahniuk)

La tua ultima lettera non l’ho ricevuta. Sono passati sette giorni da quando ho imbucato la mia e di solito ne bastano altri tre o quattro, perché il postino mi restituisca un frammento nuovo di quello che un giorno sarà il nostro grande quadro personale. Il nostro puzzle disperato, alla ricerca di un’unità di senso che forse non ci appartiene e che nessuno ci ha mai promesso. La risposta a una domanda che ostiniamo a non porci, e che tuttavia striscia con insolenza fra gli spazi bianchi di cui riempiamo i nostri fogli.
L’inchiostro è una copertura. Ci diciamo sciocchezze, ci confidiamo informazioni senza valore, nella speranza che, se intercettati dall’esterno, nessuno si insospettisca della nostra corrispondenza. La vera intimità la costruiamo, mattone dopo mattone, in mezzo alle righe. Fra le virgole ci sono dei sospiri, dopo ogni punto il desiderio di un bacio. Rabbrividiamo nel comporre un punto interrogativo, sentiamo sudarci le gambe mentre sospendiamo questa o quella frase appositamente.
E intanto sappiamo poco l’uno dell’altra, quantomeno non molto di più rispetto al nostro ultimo incontro dal vivo. Quanto tempo sarà passato, ormai? Faccio finta di non averlo contato altre volte e mi dico: un paio di mesi. Sei o sette, perché si usciva ancora con i cappotti di casa. In realtà sono sei mesi, tre settimane e cinque giorni. Le ho scomposte in ore, minuti e secondi. Ognuno ha il colore degli sguardi che non ci siamo scambiati: insopportabile, tendente al viola. Simile a un incubo in cui qualcuno grida, altri corrono e dal cielo piovono colpi di pistola rivolti alle nostre braccia, alla nostra testa, alla bocca di chi ci sta vicino. Una distanza che sanguina come se si fosse ammalata di tisi.
Oggi che non ho ancora tue notizie, sembra che le mie condizioni si siano aggravate. Abbiamo tirato una corda che rischia di graffiarci la schiena, se continuiamo a sfregarcela addosso come una medicina. Eravamo convinti che avrebbe funzionato anche così, che saremmo guariti con il tempo, che rimanere in contatto avrebbe smorzato lentamente il nostro morbo. E invece.
Dal canto mio, come sai, l’ossessione è peggiorata. Mi ostino ad aprire la porta di questa piccola bolla trasparente in cui vengo ad abitare in estate. Una casa lontana dal traffico urbano, dalla quale si vedono il mare e il cielo alla finestra per tutto il giorno. La notte, c’è una luna che spacca le pietre e che fa dormire a fatica. È quando sorge lei che ti scrivo le poesie più belle, le poesie più imbarazzanti, le poesie che brucia poi il primo sole dell’indomani.
Le lettere, invece, appartengono a una fascia oraria più anonima. Fra le sei e le sette del pomeriggio, esattamente quando il resto del mondo ha troppo poco tempo per concludere le sue attività o troppo per aspettare l’ora di cena con le mani in mano, io prendo una penna e scavo un’altra buca profondissima fra me e il benessere. Ti disegno parole di consolazione, di allegria, di leggerezza. Intanto, puoi ben immaginare quanto il mio corpo spinga per rompere la bolla che ha intorno. Quanto mi piacerebbe scoppiare a piangere e lasciare credere a chi mi circonda che si tratti di un pensiero triste qualsiasi. D’estate suonerebbe come un’eresia, d’altronde, e secondo i miei familiari non c’è fragilità che il vento di agosto non possa estirpare.
Loro, chiaramente, non conoscono i tuoi punti esclamativi. Non hanno mai visto la forma delle tue “f”, né hanno il marchio del tuo profilo appeso in camera come una spada di Damocle pronta a cadermi addosso non appena mi rannicchio con le cosce contro il petto.
Ci eravamo ripromessi di naufragare di meno, per la verità. Di fermarci, se la marea si fosse fatta ingestibile. Nessuno ha giurato all’altro di essere sincero sulla faccenda delle maree, però, e adesso eccoci a un passo dall’affogamento per un mero cavillo linguistico. Per una condizione lasciata troppo implicita, per una vergogna da cui non ci vogliamo liberare. Stiamo bene così, siamo splendidi nel nostro agonizzare, e i chilometri pronti a separarci ci schiacciano un tramonto dopo l’altro, esattamente fra le sei e le sette della sera.
Questo, almeno, vale per me. Di te non so granché, se non quello che filtra dai tuoi racconti sconnessi. A tratti mi sembra complicatissimo decifrare i tuoi messaggi e finisco per chiedermi se non stia sbagliando codice, se non abbia capito male la nostra legenda condivisa. Possibile, mi dico, che riesca a non spiegarmi niente? Possibile che sappia stare in piedi perfino quando qualcuno le consegna le mie buste? Non le tremano mai le mani, non le si scioglie all’improvviso l’intero intestino, nel momento in cui le nomino apposta il nome di un luogo o di un antico canto?
Impossibile, mi rispondo. E mi rassereno subito, al pensiero di te che ti dimeni nelle mie stesse sabbie mobili.
Oggi, sai, sto riascoltando Vladimir’s blues. Te lo avrei scritto per filo e per segno, se avessi avuto una missiva per l’occasione a cui rivolgere la mia attenzione. La tua ultima lettera, tuttavia, non l’ho ricevuta. Deve essere andata smarrita per via dello sciopero di martedì, o magari giovedì l’ha presa la signora L. Svampita e anziana come l’hanno ridotta gli anni, sarebbe giustificata se avesse rimosso una piccolezza simile. Non è neppure escluso che mercoledì il nuovo postino non abbia trovato l’indirizzo e abbia preferito rinunciare all’impresa. Ricordi le istruzioni che avevamo dovuto sciorinare con pazienza all’impiegato dello scorso marzo, nello stabilire i ritmi della nostra lenta caduta emotiva?
Opzioni plausibili e nei confronti delle quali non riesco a nutrire risentimento o rabbia. Non sono nemmeno deluso, per quanto strano possa apparire. Mi sento solo, semplicemente. Mi sento abbandonato con la mia malattia, pronta a deridermi da dietro lo specchio. Non avendo ricevuto la mia razione periodica di sballo, mi trovo dunque adesso nella posizione di iniettarmi un sedativo direttamente in vena.
L’ho programmato con cura, come non ti risulterà difficile credere. Ho aspettato fino a questa domenica, dopodiché dopo pranzo ho preso per mano la mia solitudine e ho buttato lì: Ti andrebbe una passeggiata?
Lei, messa alle strette e colta soprattutto alla sprovvista, non se l’è sentita di rifiutare. L’ho guidata mano nella mano fino alla riva e lì ho lasciato che fissasse l’orizzonte senza distrazioni. Dentro di me covava la certezza che qualcosa l’avrebbe presto o tardi spinta a parlare. Non a caso, a un certo punto l’ho sentita mormorare:
Che spreco di vita.
A cosa ti riferisci?
Alle attese.
Ho aspettato una spiegazione ulteriore, uno sfogo, un aforisma. Una lamentela, insomma, o un qualche rimprovero. Lei, però, si è solo portata le dita alla gola, come per sciogliere un grosso groppo bianco. Poi l’ho vista dirigersi verso destra, in direzione delle montagne, sempre seguendo la linea discontinua della schiuma delle onde. Ho cercato di starle al passo e ho provato a informarmi:
Dove stiamo andando?
Da nessuna parte.
E allora perché ci muoviamo?
Per non stare fermi.
Minimalista, la mia solitudine. Di poche parole. Fortuna che non è lei a scriverti, di solito.
Insomma, l’ho assecondata come ho potuto. Sarebbe stato ingiusto il contrario, dato che l’avevo appena trascinata fino a lì e che pretendevo in agguato una sua reazione. Ho pensato che ne avrei ricavato del materiale per un plico fuori programma da inviarti con un bel francobollo blu, di quelli che ti piace collezionare da decenni.
Adesso, per la verità, sono qui a scriverti che la mia solitudine ha preferito non commentare l’accaduto. Abbiamo mangiato insieme un paio di chilometri di sabbia bagnata, senza riuscire a digerirla. Ce la portiamo ancora sullo stomaco e stasera probabilmente non ci sbucceremo che una mela, con la speranza di non peggiorare la situazione. Sono qui a confessarti per la prima volta che mi manchi.
Ecco, ho ribaltato lo status della nostra comunicazione. Ho usato l’inchiostro anziché la carta, per arrivare dritto al punto. Mi è pure scivolata la punta dall’indice e adesso il foglio ha una brutta macchia alla fine del capoverso, l’hai notata? È un chiaro segno di una rivoluzione inarrestabile.
Tu non ne hai colpa, lo riconosco, ma sei vittima quanto me di una maledizione che non possiamo nascondere per sempre fra le borse degli occhi. Magari non siamo ancora pronti, magari non lo saremmo mai stati, eppure il caso ci ha giocato un brutto tiro. Sono ormai con le spalle al muro, ti parlo fuori orario e fuori tempo massimo, in una lingua che non conosco ancora e della quale sento già la carica esplosiva.
Dimmi, non provi anche tu una sottile stanchezza all’idea che la nostra storia rimarrà un pensiero, un sogno, una leggenda? Cosa ce ne facciamo di un castello di carte fragile al punto da non reggere né un due di picche né un fante di cuori? Possiamo davvero accontentarci di torturarci i capelli senza usare mai determinati verbi? Senza darci mai appuntamento alla stazione? Senza vederci, se non per combinazione, se non per errore, se non per un paio di minuti in mezzo alla gente?
Sono consapevole del fatto che ti sto domandando troppo. Nel nostro tacito accordo non c’erano clausole al riguardo, non era previsto alcun imprevisto. Ma, vedi, l’esistenza è un dramma proprio perché l’imprevisto ci tira per le orecchie quando ci eravamo adagiati sopra le nostre discariche di disgrazie. Quando ci eravamo rassegnati alle nostre interdizioni, alle nostre inibizioni. Assomiglia a un cavallo a briglia sciolta, al grido di un bambino, a un’ape impazzita nell’erba.
L’esistenza, vedi, ci ha catturati. Da prigionieri quali siamo, non ci rimane che un’alternativa: spezzare le catene che avevamo ricamato con devota sottomissione.
In altre parole, Margherita, non ci rimane che sposarci. Ti chiederò in sposa in settembre, se sarai d’accordo. Organizzeremo la cerimonia nei minimi dettagli, sorrideremo come due ebeti e convinceremo chiunque della sacralità della nostra unione. Non avremo bisogno di nasconderci come topi, quando avremo voglia di farci una carezza o di addormentarci avvinghiati. E, passato l’entusiasmo iniziale, ci sveglieremo un giorno finalmente guariti.
Non ci riconosceremo più nelle divinità che avevamo dipinto l’uno per l’altra, ci stupiremo ripensando ai nostri messaggi cifrati e non capiremo più come siamo arrivati tanto vicini all’apatia.
Saremo salvi, e presto. Definitivamente.
Non possiamo permetterci il lusso di rassegnarci all’infelicità. Non possiamo darla vinta all’amore, ora che ha appiccato tutti gli incendi di cui era capace e che ci fa annaspare in balia di un fuoco indomabile. Credimi quando ti garantisco che non c’è una soluzione più pulita, che l’onestà con cui ci consegneremo al destino saprà graziarci e trasformarci in un batter d’occhio in agnelli sacrificali.
Se mi ami sul serio, sposami.
Se anche tu non trovi quiete, se anche per te non esistono più sollievi dall’incantesimo in cui ci siamo ficcati, accetta la mia mano e vieni a pregare insieme a me quel Dio nel quale ancora confidiamo a stento, affinché si accorga del nostro sacrificio e ci risparmi dal futuro già pronto a saltarci addosso.
Se riceverai questa lettera, limitati a un sì.
Il resto, piano piano, si farà da sé. Il nostro compito sta per finire e ci basterà affidarci alla corrente perché la nostra agonia si volga in una febbriciattola da quattro soldi. Un qualunque medico ci darà il colpo di grazia con una pillola verde e un sorriso incoraggiante, senza che gli venga mai il sospetto del nostro straordinario misfatto.
Sposami e salvami, salvaci entrambi.
Tremo figurandomi l’ora in cui ti rivedrò e non respiro se non allo scopo di consumarmi interamente con te, in te, per te.
Con ardore, C.