Numero 46 – Settembre 2018

Le api sorridono anche di notte

di Donatello Cirone

 

Il gabbiotto era accogliente. La sedia, sulla quale era seduta, era morbida, sembrava volesse accarezzarla proprio come un paio d’anni prima aveva fatto Antonio poco prima di lasciarla per sempre. Era andato via Antonio, in Messico, ed era morto lì, stroncato da un’infezione. Nessuna morte eroica, come dovrebbero morire i giovani ma una morte come tante altre.
Sorrideva sempre Antonio, una risata felice e delicata come il ronzare delle api in cerca di fiori. Le piaceva immaginarlo felice proprio tra gli alveari, tra quelle creature che tanto amava, a gustarsi il miele che con tanto amore avrebbe confezionato.
Si erano salutati teneramente come fanno due che si amano veramente, romanticamente come si salutano solo quelli che sono incappati in un amore impossibile, uno di quegli amori che nascono con la stella del desiderio, un amore che si consuma velocemente. Si erano amati con la consapevolezza che tutto sarebbe stato impossibile, che tutto sarebbe finito.

“Controversia” di Silvia & Frank

Il gabbiotto era accogliente. Il vetro davanti ai suoi occhi spenti e grigi per fortuna teneva lontani dal suo nasone a patata sputi e aliti ai profumi di aglio, acciuga e cipolla.

Da una fessurina la gente faceva la sua domanda e lei, senza battere ciglio e senza emettere alcun suono, stampava un biglietto con sopra un numero di sala e di posto e un titolo.

Le serate erano le solite, arrivava sempre puntuale Grazia, appendeva le locandine sui vari trespoli sparsi nei corridoi e dentro le bacheche, ma le più belle, quelle dei film che secondo lei sarebbero diventati dei cult, le portava a casa. Le custodiva gelosamente, divise per grandezza prima e per genere dopo. Ogni undici giorni ne sceglieva una e l’attaccava di fronte al letto, era la prima cosa che avrebbe visto al mattino al suo risveglio. Era convintissima che quell’immagine, i dialoghi del film, le scene thriller o i baci romantici avrebbero condizionato tutta la sua giornata, tutti i suoi undici giorni.

Il gabbiotto era accogliente anche quella sera, il vetro era lustro e, quando si presentarono davanti ai suoi occhi due sconosciuti, una sorta di luce le illuminò gli viso. Era come se fossero usciti dalla locandina che aveva attaccato proprio quella mattina stessa, non ricordava il titolo del film, non l’aveva nemmeno visto eppure sembravano proprio loro. Non era una cinefila, qualche volta fermava lo zapping su di una puntata a caso di una serie tv. Erano anni che non guardava un film al cinema. Lei si limitava a stampare solo i biglietti e ad assegnare, a quelli che le stavano simpatici a pelle, i posti migliori: metà sala e centrale.

Quella coppia sconosciuta si portava dietro un velo di tristezza, un’aurea nera indefinita. Lui era più alto di lei almeno una quindicina di centimetri. Lei era molto bella, la pelle del viso macchiata, i suoi occhi di un grigio azzurro e un sorriso semplice increspavano le labbra dei tanti che incrociavano il suo sguardo. Lui aveva qualcosa di vago che le ricordava il suo Antonio e le venne in mente che proprio in quel giorno era trascorso un anno dalla sua morte. Se n’era dimenticata. Ricordava poche cose, un paio di volte dimenticò persino il suo compleanno. Era morto da un anno Antonio e quello sconosciuto con quella barba ispida e amorfa gli aveva ricordato quando, qualche anno prima, provò a sistemargliela. Si ricordò la sensazione che provò quando le sue mani entrarono tra le cupole che i peli intrecciati avevano costruito, ricordò le sue labbra che tanto aveva amato, che tante volte aveva baciato, il profumo della sua saliva, l’odore del suo collo, il suo respiro delicato. Un sussulto impercettibile le provocò un crampo allo stomaco.

Quei due sconosciuti sarebbero finiti dentro quella sala uno accanto all’altro, correnti fredde avrebbe riscaldato le loro anime e poi si sarebbero divisi come fanno le persone che non si sono mai amate, che non hanno mai avvolto i ventri uno dentro l’altro, che non hanno mai sorriso uno con le labbra dell’altro, come avevano sorriso Grazia e Antonio, come si erano amati loro con la pelle uno sopra l’altra, senza ragione, senza motivo, uno di quegli amori che nascono già finiti ma che rianimano tutto quello che toccano. Si erano amati appena si erano incrociati, consapevoli che non avrebbero chiesto il permesso a nessuno e soprattutto che tutto sarebbe finito in un quando indefinito. Era forse per questo che le loro anime si erano intrecciate come le funi di una cordata, che si erano amati fino a perdere i sensi e svenire nudi uno sopra l’altro, senza remore, senza pudore, restare inermi davanti alla loro bellezza, corrersi dietro per il semplice gusto della braccata, lasciarsi andare per ritrovarsi a sera nelle ore del tramonto.
Grazia non si era mai fermata davanti alla superficialità della carne o della parola, non si era riempita gli occhi di giudizi sul fisico o sulle abitudini di Antonio, né lui si era fermato mai a controllare se il suo culo fosse stato più o meno tondo o se il suo viso avesse i lineamenti aurici.

Si erano amati senza scuse e senza preavvisi, come anime uniche.
Avevano riso e pianto, urlato e recitato poesie a bassa voce, si erano amati in volo e poi la vita era scorsa via da dentro i loro corpi come un ultimo assettato rivolo d’acqua d’un fiume in agosto.

I due sconosciuti invece erano arrivati lì senza sorridere, avevano mangiato nel ristorante al piano terra e poi erano saliti al primo piano e si erano fermati davanti al gabbiotto accogliente di Grazia.

Mentre mangiavano non si erano raccontati niente di particolare, lei aveva inondato la sala di parole inutili sul lavoro e sulle vite di altre persone e aveva parlato delle amiche petulanti. Lui aveva recitato la sua parte, una di quelle parti da bravo ragazzo, accomodante e gentile. Avevano pagato il conto – a metĂ  perchĂ© così voleva lei –  e senza sorridere si erano diretti al gabbiotto di Grazia che proprio quella sera e proprio a loro avrebbe stampato per l’ultima volta nella sua vita un biglietto.

Grazia guardò prima quei due sconosciuti che andavano verso la sala poi, senza che la paura le riempisse i polmoni, si alzò dalla sedia e chiuse alle sue spalle la porta di quel gabbiotto per sempre.

Rimase  un silenzio cupo e profondo interrotto solo dal ronzare felice di un’ape sorridente.

 



Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania, il 28 giugno del 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.

Donatello Cirone: donatellocirone@irrequieto.eu



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