Numero 45

La ragnatela

 di Luca Tosi

 

“Gli orti del tempo #2” di Nicola Lonzi

«Vorrei andar via, a lavorare da un’altra parte, un posto qualunque. Non ce la faccio più a stare coi miei. La domenica mattina mi chiedono ancora se vado a messa con loro. Basta, sono al limite. Se non parto adesso, non parto più».

Carlo ingoia un sorso di birra e aspetta che qualcuno parli. Accendo una sigaretta per guadagnare tempo.

«Io devo ancora laurearmi», dice il Mister, e se ne tira fuori.

«Ci vogliono le palle», dico. «È che ci siamo impantanati».

Carlo mi guarda deluso. Un altro sorso di birra. Si gratta la barba sotto il mento.

«Non dico di partire a cazzo. Troviamo un lavoro… Male che vada si torna a casa, non è la morte di nessuno. Mi dà fastidio essere in pari, fare le cose perché le fanno tutti. Non abbiamo mai perso un anno…».

Il Mister gli passa la canna. Nella mia mente prende forma un lungo binario che porta dritto alla vecchiaia. Tappe fisse: comunione, cresima, lavoro, e via dritti con la croce sulla bara.

Siamo come la spesa, dentro il carrello. Andiamo avanti. Non l’abbiamo mai guidato, noi, il carrello, l’ha sempre guidato qualcun altro.

«Non so neanche cosa vorrei fare. Un lavoro vale l’altro», dice Carlo. «C’è una cosa che succede sempre, quando ci si butta. Arriva qualcosa che ti aiuta, ti dà un po’ di fortuna, e alla fine ti ritrovi sulla strada giusta. Non lo so che cos’è, ma c’è».

Ce la sta mettendo tutta per convincerci, e convincersi. Mi mangio le unghie.

«Come va in banca?», mi chiede.

Non so cosa dire. Evito cose spiritose, non mi va di fare il coglione.

«Per adesso va», dico.

«Ma sei dimagrito?», mi fa il Mister.

Penso a dove si potrebbe andare per andarsene. Carlo ha un istinto che va il doppio del mio. Non gli sto al passo, è come quando andavamo alle superiori: mentre io rileggevo la brutta copia del compito, lui stava già ricopiando in bella.

O forse è solo la mia testa che fa congetture. E dire che una giustificazione per il mio lavoro l’avevo trovata. Quant’è che guadagno, che non mi ricordo?

Seduti sullo scalino davanti alle Poste, guardiamo il parco. Gli spruzzi innaffiano l’erba. L’acqua in salti s’incrocia dove cade la luce dei lampioni.

«Quando lo riaprono il cinema all’aperto?», ci chiede Carlo.

«Boh. Più avanti».

«La vedete quella scala?», dice ancora, indicando il cinema.

Una scala di ferro sale lungo il muro, va su fino al tetto. Ci alziamo e ci avviciniamo velocemente alla scala. La piazza è deserta, è domenica. Non ci sono rumori qui attorno. Solo gli spruzzi del parco.

Il Mister arrotola una sigaretta, mentre Carlo sale per primo. Io salgo per secondo. Se guardo all’insù, vedo le sue chiappe stette nei pantaloni corti. Saranno una ventina di scalini.

«Salite. Sta arrivando una col cane», dice il Mister, poi si aggrappa alla scala e sbatte la testa contro il mio tallone.

Arriviamo sul tetto e Carlo scoppia a ridere, a vuoto. Il tetto del cinema è tutto nero.

«Che bello che siamo saliti quassù», dice.

Le antenne sopra le case, la piazza, il parcheggio davanti alle Poste e il parco. Guardiamo di sotto e non è come volare, il vento ci attraversa. Troviamo un punto dove sederci. Poi ci stendiamo. Il cielo, libero dalla pioggia di questo pomeriggio, è puntellato di stelle. Qualche nuvola grossa lo macchia, lo abbellisce, ma vincono le stelle.

«Guardate quella nuvola, va a manetta», dice il Mister.

«Provate a pensare che noi siamo fermi e che è il cielo che gira», dice Carlo. «Sembra di stare su un’astronave».

Seguiamo la rotta. Dritti alla cieca verso il futuro! Le nuvole corrono confondendosi tra loro. Hanno fretta, stanotte.

«Mi sta andando in pappa il cervello», dice Carlo.

C’è una ragnatela nell’angolo, sul muro; due o tre stelle si sono intrappolate lì. Un soffio di vento la fa traballare, ma resiste, può resistere. A nessuno interessa la luna, stanotte vincono le stelle.

«Venite con me, se parto?», ci chiede Carlo, sottovoce.

Guarda verso il cielo. Il fumo gli esce dalle narici come il vapore di un vecchio treno; dentro sta bruciando.

Una fitta mi prende alla pancia. Non glielo riesco a dire di sì.

«Non lo so», dico.

Carlo è fronte al cielo. Adesso è meno solo. Lo vedo, che è mio amico. Che senza di noi, lui aveva già deciso.

 



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