Cuscino nuziale
di Giuseppe Caretta

Teresa è la zia che ogni nipote non vorrebbe mai avere per madre. Teresa è la donna più apprensiva che conosca. Teresa è la nuora di mia madre nonché la cognata di mia sorella.
La conobbi ventisette anni fa, alla fermata dell’autobus che doveva condurmi in stazione. Era molto bella, a quel tempo. Aveva delle eccentriche scarpette di pelle con le punte scamosciate, il soprabito lungo fino ai polpacci, una bombetta in testa, i capelli colorati di rosso. Teresa era uscita a quell’ora del mattino per andare a sbrigare delle commissioni per conto di una sua cliente. Trafficava in abiti di sartoria. Aveva un’eccellente casa in stile retrò che s’era ammobiliata spaccandosi la schiena ogni giorno sin da quando era diventata maggiorenne. Ciononostante, Teresa era destinata ad una vita di pacati lavoretti domestici, con i quali ha avuto il merito di riempire la sua vita e la mia di assolute inutilità.
L’avvicinai con la scusa di conversare circa il perenne ritardo dei mezzi pubblici. Un pretesto ordinario. Era così che a quel tempo mi divertivo ad abbordare le donne che non conoscevo. Quando le chiesi se l’autobus trentaquattro fosse già passato, lei mi squadrò con aria scettica e mi disse d’essere appena arrivata alla fermata. Percorremmo insieme buona parte del tragitto e per tutta quella prima conversazione Teresa dimostrò d’essere una donna d’assoluta educazione. Parlava con un tono molto vivace e negli occhi vi ritrovai qualche luce di freschezza che a me pareva d’aver perduto nel corso degli anni che mi portavo addosso. Così le chiesi se avessi potuto fare con lei anche la strada di ritorno. “Non riuscirà mai a sapere l’ora del mio rientro”, disse socchiudendo le labbra e guardando fuori dal finestrino. Così la lasciai scendere e quando l’autobus ripartì cercai in tutti i modi di seguirla con lo sguardo. Il mezzo svoltò prima che riuscissi a capire dove fosse diretta.
Il giorno seguente ritornai alla fermata dove l’avevo incontrata e Teresa era sempre lì, aveva cambiato abito, ma non le scarpette di pelle con le punte scamosciate. Sostenni con lei delle avvincenti conversazioni circa l’andamento delle cose del mondo e le parlai del mio proposito di candidarmi a consigliere per gli affari insolvibili, ufficio che avrei creato io stesso in virtù della mia assoluta competenza in fatto di fallimenti umani. La trovata la fece ridere e quando il sorriso le si spalancò scoperse i denti allineati, dietro a essi intravidi una minuta linguetta da animale. Si era nell’inverno di ventisette anni fa, come dicevo, e allora non avevo ancora avuto modo di sperimentare tutta una serie di ordinarie incombenze familiari con le quali la gente del nostro tempo, più di ogni altro, ha avuto urgenza di confrontarsi. Grazie a quelle prime conversazioni pubbliche, io e Teresa diventammo molto presto confidenti. La sera, quando rientravo dal lavoro, cercavo con maniacale zelo di scoprire il luogo nel quale ogni giorno, lasciandoci, lei scompariva col suo carico di mistero. E ora che la foto del nostro matrimonio svetta sulla credenza dell’ingresso della nostra piccola dimora di proprietà, guardo il volto di Teresa negli anni della giovinezza e mi scopro a ragionare sul fatto che il progredire della vita rende sbiadita ogni forma di piacere con cui ci siamo confrontati. Adesso Teresa ha i fianchi larghi, i polpacci grandi quanto quelli di una vecchia massaia. Ha i capelli d’un altro colore e sulla pelle sono comparse delle rughe che le hanno strappato via ogni espressione di maliziosa giovinezza.
Dei tempi del suo eremitaggio sui mezzi pubblici Teresa non ha conservato che un ricordo stantio, privo d’ogni nota di verità e giustizia. Ricorda solo i miei “inopportuni pedinamenti”, ricorda la fermata dell’autobus dove scendeva per mischiarsi fra la folla. Ma non ricorda più, il senso d’avventura che avvolgeva quel momento. Non ricorda la faccia dei suoi committenti, non ricorda delle signore presso le quali prestava servizio. Non ricorda neppure se il mezzo era diretto nella parte sud o in quella nord della città. Ha cancellato tutto e oggi, durante i pranzi natalizi o le noiosissime cene di famiglia, il nostro vissuto è stato trasmutato in aneddotica, con la quale innaffia le sue inutili conversazioni da fiera della vecchiaia. Ha riempito la nostra casa di oggetti inqualificabili, con i quali si arma ogni mattina e percorre, partendo dall’ultima stanza, tutta la casa in un ritroso cammino di pulizie quotidiane. Gli stracci ed i detersivi sono diventati degli sgradevoli compagni del suo tempo domestico. Scopa, lava e rassetta tutto il santo giorno. Ecco perché i nostri nipoti, che pur delle volte si azzardano a venire a trovarci, la temono come il diavolo con l’acquasanta.
Entrano in corridoio come in punta di piedi, tanto pulito è il nostro santissimo focolare. Poi, arrivati in salone, chiedono alla zia se possono sedersi sul divano, visto che lei cura ogni oggetto con più riguardo della propria vita. E quando serve loro la merenda, e lo fa, devo ammetterlo, con un’affettuosità lodevole, porta loro dei baiocchi su dei vassoi nei quali ha già riposto i tovaglioli che dovranno mettersi sulle ginocchia per evitare di far cadere le briciole in terra. Poi dà loro dei pennarelli e alcuni fogli e li fa accomodare a tavola per quello che lei definisce un “necessario momento creativo”. Lungi dal far germogliare la creatività nei cuori dei nostri nipoti, il suo pressante occhio vigile suscita in quelle povere animelle più un senso di pericolo, che di fervida ispirazione. E ancora, quando qualcheduno ha la sfortunata esigenza di dover utilizzare il bagno, Teresa prima si raccomanda che la tavoletta venga lasciata immacolata e poi, a minzione conclusa, va di persona ad accertarsi che il suo comando sia stato eseguito in maniera corretta. La vedete? Piegata sulla tazza mentre esamina in controluce la presenza di goccioline illegali. Una tortura. Io, per sopravvivenza, ho abdicato ad ogni virile manifestazione di presenza e, quando arriva il mio turno, sono ormai solito sedermi biecamente come usano fare le donne. E così, mi pare, ho risolto il problema degli schizzetti di urina incontrollati.
Anch’io, come i miei nipoti, mi allineo alle sue disposizioni e non proferisco verbo sulle sue manie. Quando torno da lei e apro la porta di casa riesco a capire il suo umore dal tipo di odore che m’investe. Se è allegra predilige la cucina dolce, se è contrariata quella salata, quand’è nervosa si abbandona alle minestre. Una cosmogonia speziale costituisce il suo triste sciacallaggio d’abitudini. Lo so, è deplorevole che io parli di lei a questo modo con degli estranei, però è una impertinenza che merita d’essere accomodata, perché Teresa io l’ho amata oltre ogni dire e mi rincresce enormemente vedere il punto di squilibrio che ha raggiunto quella che un tempo fu una donna fuori dal comune.
Nei primi mesi del nostro innamoramento, c’è da non crederci, Teresa amava essere condotta sulla terrazza del mio palazzo. Lì ci stendevamo in terra guardando il cielo e ci abbracciavamo raccontandoci cose che – adesso è il mio turno – ho tristemente dimenticato nel corso di questi anni. Ma ricordo ancora, lo stato di stupore nel quale mi gettava la sua presenza. E quante cose sapeva, Teresa! Di quante nozioni, e curiosità mi metteva in parte. Adorava la letteratura e l’arte fiamminga del quattordicesimo secolo la mandava in visibilio. Navigava a menadito fra i meandri del Rinascimento italiano. Aveva letto Alfieri, aveva ingoiato tomi interi dell’enciclopedia universale e messo il naso in nozioni assolutamente oscure quali la metempsicosi, le arti esoteriche delle donne indiane del Perù, i testi braminici dell’india prebuddista. Quando la nostra prima figlia venne al mondo, lei volle andare in una di quelle cliniche dove ti fanno partorire immergendoti nell’acqua di una piscina. Era così, Teresa. Era quella la donna che avevo scelto di seguire per il resto della mia vita. Eppure il tempo pone tutti gli esseri viventi di fronte al disagio di dover continuare a respirare senza poter trovare un secondo di tregua dalle proprie perplessità.
Così accadde che Teresa, poco a poco, dimenticò tutto quello che era stata. Si rifugiò in casa, si dedicò ad accudire la nostra piccola Marta e in seguito, tre anni dopo, anche il piccolo Filippo. Per tutti gli anni in cui la persi di vista, e questo può accadere anche dormendo nello stesso letto, inscatolò la parte più combattiva del suo animo e si rassegnò ad adempiere al suo ruolo di madre e di moglie devota, riempiendo, suppongo, il suo isolamento con l’assoluta fissazione per quelle faccende di cui prima ho già parlato con sufficiente esaustività. I nostri mondi si sono andati separando e lo hanno fatto seguendo ognuno la propria orbita precipua, lo hanno fatto col silenzio siderale sul quale si regge probabilmente l’intero universo dei nostri rimpianti. Siamo diventati adulti, siamo diventati genitori e infine siamo diventati dei giovani vecchi. I nostri figli sono cresciuti e hanno lasciato il tetto familiare già da diverso tempo. Oggi ci sono i figli di sua sorella da accudire come fossero i nostri, e così la grande ruota della stanchezza non accenna a diminuire il passo. Tutto ciò, l’ho pensato a lungo, durerà fino a quando avrà ancora fiato in corpo per continuare a spazzare in terra.
Non le interessa più nulla del mondo, qualcosa dentro di lei s’è spezzato per non risaldarsi più. È come se si fosse detta, a un certo punto della propria strada, che una vita di metodico accudimento domestico fosse certamente più sicura e tranquilla di quella che le si sarebbe prospettata se avesse perseverato con le sue curiosità da bimba. Ha anche smesso di cucire, ha abbandonato tutto il suo vecchio giro di lavori. “Perché? Perché?” le chiedevo quando si decise a raccontarmelo. “Non mi interessa più, abbi pazienza”. Mi diceva soltanto mescolando qualche stupido intruglio che bolliva sui fornelli. Da allora non l’ho mai più vista prendere un libro fra le mani né un ago fra le dita. La televisione è diventata la sua amica per eccellenza. Le sue amiche per eccellenza, guardano tutte la televisione. Con loro si scambia pareri e consigli circa questa o quella imbecillità culinaria o qualcosa di simile. E io entro ed esco da casa come un gatto, cerco di evitare il suo sguardo così errabondo, privo di forza interiore.
Mi sono comperato una piccola proprietà in un paesello dalle parti delle colline, e con la scusa dei viaggi di lavoro ho negli anni costruito una vera e propria vita alternativa. In quella casa io gestisco il mio tempo, piscio in piedi e non mi degno di raccogliere neppure una forchetta dal pavimento. Parallelamente a ciò, ho anche avuto delle sfortunate amanti che mi hanno seguito e poi lasciato non appena si rendevano conto di essere capitate nella traiettoria d’un marito insoddisfatto.
Lo so, cosa state pensando in questo momento. Vi chiedete se abbia mai provato a parlare di tutto questo con mia moglie, e se per caso non sia anche responsabilità del sottoscritto, che Teresa abbia fatto una fine del genere. Qualcuno di voi, inoltre, non starà trovando in questa storia nessun motivo di scandalo e probabilmente starà pensando che io sia una specie di irriconoscente marito in crisi di mezza età, adultero e perfino abietto. Ma non è così, per ciò che riguarda la seconda obiezione. È invece nel giusto chi si domanda se abbia mai parlato con lei di tutto questo, perché io, signori, non ho mai avuto la minima intenzione di strapparla al suo oblio. In buona fede, infatti, ritengo che ognuno abbia il diritto di trovare da sé il modo migliore per restare aggrappato a questa vita; quand’anche essa risultasse sommamente intollerabile, cosa che tutti, prima o poi, abbiamo provato almeno una volta, non è nelle grazie di alcuno provare a far desistere un altro dalle argomentazioni che si è dato per convincersi che, dopotutto, ci sia sempre qualcosa valevole a tal punto da impedirci di sopprimerci o di impazzire completamente.
Teresa non ama ciò che ora è. Non ha mai amato la natura bigotta dei timorati di Dio. È solo la forza irruenta dell’incessante pressione interiore ad averla persuasa del fatto che non vi è assolutamente nulla che possa essere fatto per rendere questo mondo un posto migliore nel quale vivere e morire in pace. Paga insomma lo scotto delle sue alte aspettative deluse. “La natura dell’essere umano è abietta”. Così parla la sua rassegnazione. Però questo ragionamento, che m’ha confessato di sua spontanea volontà, io l’ho trovato un po’ bieco e addirittura scandaloso, perché sottovaluta la forza della volontà individuale e non pone fiducia nella eco profonda che un atteggiamento distintivo può avere nei confronti dei propri simili. Allora mi sono dovuto convincere che mia moglie, a differenza di quel che pensavo in gioventù, in realtà manchi assolutamente della forza morale necessaria per lottare contro le forze avverse del destino. È insomma costituzionalmente debole e io non me n’ero davvero mai avveduto, giacché in me, suppongo, l’amore per il prossimo e l’amor proprio combaciano incredibilmente e non riesco a non amare che le persone che stimo. L’imprudenza di questo atteggiamento m’è venuta incontro solo nel corso di lunghi anni di sbagli e l’ho compresa solo quando ho smesso d’amare mia moglie. Da allora in poi, per me, lei è una specie di eremita che vive nel mio giardino. La guardo, ma so che non ci vediamo e non ci sentiamo più. Il vetro della solitudine ci ha avvolto come una mano che ci stringa per salutarci.
Adesso, quando la vedo, ho la triste tentazione di voltarmi dall’altra parte. E quando entro in case diverse dalla nostra, dove gli uomini si accompagnano l’un l’altro fino al giorno del grande addio, ho sempre un po’ la sensazione che ci sia qualcosa di maledettamente ignobile, nella forma di vita che abbiamo scelto tutti di condurre. Siamo dei mondi chiusi in scatole di cemento, coltiviamo piccole piantine ornamentali alle finestre, curiamo dei pesciolini negli acquari, adottiamo gatti, cani e pappagalli, ma mai nulla di troppo diverso dalle conformità con le quali ci siamo vestiti per tutta la vita. Andiamo alle riunioni di condominio, ma non sappiamo dire la nostra perché ce ne manca l’allenamento. Siamo stati sedotti da una società assurda. È vero, signori, assurda. Non tacciatemi ora di sproloquiare come un delinquente. Nel nostro ordine c’è qualcosa di malsano, come nell’ordine di Teresa. E siamo tutti un po’ i giovani che abbiamo smesso d’essere. A poco a poco abbiamo ritrattato tutto e il mondo s’è ridotto fino alla misura d’un cubo di televisione e della lunghezza d’un coltello da cucina. Io non ho mai avuto velleità politiche, a parte quel posto di consigliere col quale conquistai mia moglie, però è indubbio che un rapporto fra ciò che siamo e il posto in cui viviamo debba esserci assolutamente. Allora il nostro piccolo mondo di solitudini ci porta sulla soglia di squilibri di questo e ben altro genere. È forse in ciò, il senso ultimo che m’ha spinto a scrivere questa confessione circa la mia vita privata ed i suoi silenziosi disagi. Agli occhi del mondo noi siamo persone normalissime. Lo siamo tutti, in fondo, non è vero? Lo siamo tutti, sì. A vederci sembra proprio che tutti lo siamo ancora. In tal guisa, Teresa, mi appare più degna di compassione che di biasimo e i suoi sospiri notturni hanno più il suono di un pianto sommesso che una fredda rassegnazione.