Vivere non è il Sudamerica
di Nicola Griffante

Frequentare il primo anno di fisica in una fluttuazione di risultati tendenti allo scarso, immerso nell’ocra sbiadito ospedale delle aule del politecnico di una città aliena, a un preciso numero di chilometri a nord rispetto alla spiaggia davanti a casa, casa mia – il numero è preciso e misurabile ma preferisco ignorarlo per una sorta di protezione dall’autolesionismo che queste consapevolezze si portano dietro – non era di certo la situazione più divertente in cui mi fossi trovato, scrisse.
Immaginavo che prodromi del genere non avrebbero tardato a riassumersi in due parole talmente abusate da perdere quasi di significato: Fuori. Corso.
Non che mi aspettassi tanto di meglio. Fisica era la mia seconda scelta dopo lettere moderne. E mio padre…
Le poche persone che avevo conosciuto in università non appartenevano di certo alla categoria dei festaioli, come del resto non vi appartenevo io; il mio latitare negli studi era dovuto, credo, a una lieve forma depressiva (ma una forma vuota), probabile conseguenza dell’abituale grigiore di un piano sequenza quotidiano fatto di masturbazione alacre, caffè di merda alle macchinette e formule di cui non riuscivo a cogliere la bellezza, nonostante mi sforzassi. Su internet ho scoperto che qualcuno di autorevole in campo medico si è preso la briga di incasellare in un nome (anch’esso vuoto, come lo sono tutti i nomi del resto) buona parte della risma di sensazioni che riconoscevo consapevolmente in me. Questo nome che non mi rappresenta o lo fa solo parzialmente è: anedonia.
Per questo quando mi svegliai a metà pomeriggio (insonnia) e lessi sul telefono: Buongiorno, è arrivato il suo libro. A presto, libreria Fabiani. mi sorpresi moderatamente felice: leggere significava fuga. O forse obnubilamento. Non mi importava tanto sapere se fosse l’una o l’altro.
Per un caso tra il fortuito e l’attitudinale, l’esterofilia in campo lettura che sapevo di aver contratto – chissà quando e chissà come – si era limitata alle sponde continentali eurasiatiche, intervallate da lunghe e piacevoli escursioni angloamericane, o piccole sortite avventurose nel Giappone non-Murakami.
Forse mi sarei sorpreso più che moderatamente felice se il messaggio fosse stato: Buenos días, ha llegado tu Bolaño. Hasta pronto, librería Fabiani.
Il Sud America era infatti ancora terra inesplorata per me, e di certo feconda: con uno stupido quanto sano pregiudizio speravo di trovarvi colore&festa&ritmo che compensassero l’aridità biografica in cui mi ero incagliato.
La libreria Fabiani si faceva vanto in modo quasi ostensivo della propria indipendenza, raschiando il limite della posa: segnalibri, scontrini, flyers, sito internet, ogni cosa collegata alla libreria era marchiato dalla parola indipendente in bella vista. Un’altra parola che usavano molto era: quartiere. Io ci andavo semplicemente perché era vicino al mio buco da fuorisede e una delle commesse era carina.
Aveva dei bellissimi capelli rossi, naturali.
Prima di uscire per andare in libreria mi rasai, e mi spruzzai sul collo una breve, irritante, presa di profumo.
Non nego che quando notai che la copia che Commessa Carina mi aveva consegnato non era avvolta nell’usuale cellofan protettivo mi infastidii. A un esame superficiale comunque, la brossura risultava intonsa. Pagai con un mezzo sorriso che avevo provato un paio di volte allo specchio dopo essermi rasato e tornai nel buco per tuffarmi fuori da me.
2 novembre
Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscer – ma un foglietto cadde dalle pagine del libro.
Tango Torino Festival, 18ma edizione. Fila 19 posto 10.
Il biglietto era per la sera stessa. Telefonai alla libreria. Chiusa. Il cazzo di cellofan.
Non pensai la frase la vita si infiltra quando lasciamo cadere le barriere, o forse la pensai più tardi, ma deve essere stata l’influenza nebulosa di un qualche post letto su Facebook.
Sono sicuro però di aver pensato esattamente la parola tropismo, mentre proiettavo nel sole che ormai spariva basso nella finestra la scena dell’ennesimo me nell’ennesima sera nel solito buco.
Sotto una doccia veloce feci presente a me stesso di non avere una minima idea della drammaturgia di uno spettacolo di tango, e che probabilmente mi sarei annoiato a morte.
Un altro pensiero che riporto con assoluta esattezza: ‘sticazzi.
Da qualche parte in un vecchio libro mi era capitato di leggere: gli eventi futuri proiettano la loro ombra in anticipo.
Ma era un libro comico e non gli ho mai creduto più di tanto.
Il fatto che il giorno in cui ho aperto per la prima volta un romanzo di un autore sudamericano, vi abbia trovato invece un improbabile ingresso per una serata di tango strideva su corde interiori che consideravo salde, e toniche.
Sotto una doccia veloce rivalutai un sacco di letteratura che fino ad allora avevo considerato untuosa.
- 21. 20. La mia fila spiccava semivuota nella luce abbacinante del teatro.
Nessuno al posto 11. Avevo sperato che il biglietto fosse una sorta di approccio indiretto e trascendente i convenevoli di Commessa Carina. Quel libro d’altronde me l’aveva ordinato lei. Senza aver mai letto una riga di Bolaño avevo pensato che lei avesse pensato che uno che legge Bolaño doveva essere per forza uno a cui piace il tango. Nessuno al posto 9.
Ingenuamente, avevo anche pensato di piacerle.
Non so se tutti gli spettacoli di tango iniziano come una scena di Mullholland Dr., ma quello sicuramente sì. Le paillettes del vestito corto della presentatrice dall’accento spagnolo – che mi era parso posticcio fin dalla prima parola pronunciata – tremavano nella luce che ora illuminava soltanto il palco e il sipario di velluto carminio. Ecco: la sala era al buio; ero soltanto un occhio. Come nel film, mi aspettavo di vederla stramazzare al suolo da un momento all’altro, ma purtroppo non successe.
Una ventina di gambe presero a danzare, inquadrate dal sipario alzato solo per metà. La musica veniva da un’orchestra ancora invisibile: cominciava a mancarmi il buco.
– Lo sapevi che il tango all’inizio era ballato da soli uomini? La retorica del corteggiamento e della sensualità è tutta sovrastruttura.
Alla mia destra, al posto 11, nel buio, una fiamma parlante di capelli rossi. Non so da quanto tempo fosse lì.
Come per un sacco di altre frasi fatte, il cuore che ti rimbalza in gola, nonostante sia inflazionata, non è l’espressione più corretta per descrivere quello stato di eccitazione intensiva particolare che pervade tutto il corpo, se esistesse un comitato di controllo delle frasi fatte proporrei: mettere le dita nella presa, o, elettrointensità.
Il significato etimologico di intenso è: teso, disteso, sdraiato.
Chissà perché mi venne in mente in quel momento. Chissà perché invece di rispondere alla domanda di Capelli Rossi con un semplice No. Ti prego raccontami la storia del tango o un semplice Ciao, ebbi la condannabile anche se comprensibile idea di sfiorarle una coscia con la mano, piuttosto sudaticcia.
Chissà perché usiamo le parole a cazzo.
Ho scoperto che a Torino esistono un sacco di ragazze con i capelli rossi naturali. Almeno due di sicuro.
Non ricordo con esattezza se scattai prima o dopo l’urlo della ragazza, o prima o dopo che l’ombra del metro e novanta circa del suo probabile accompagnatore (e probabile destinatario della domanda sulle origini del tango) eruttasse dal posto 12.
Quel frangente è piuttosto confuso, come se il susseguirsi delle scene fosse in doppler.
Quello che ricordo è che corsi fuori dal teatro senza mai fermarmi e dopo aver sbagliato strada un numero imprecisato di volte arrivai finalmente al buco.
Lasciai perdere Bolaño, preferendogli per calmarmi un libro di fisica che avevo sul comodino, aperto a caso. Sdraiato, ancora ansimante, la prima parola che mi capitò sotto gli occhi fu: entanglement.
Poi, probabilmente si masturbò fino ad addormentarsi, o scrisse questo foglietto, non so.