Numero 45

L’orso bruno

di Eva Luna Mascolino

Una decina di anni fa mi imbattei in un uomo che credeva di vivere con un orso bruno.
Secondo la sua convinzione, il cucciolo di grizzly gli era apparso dinnanzi dopo l’ultimo trasloco: con il trascorrere dei giorni si era affezionato alla nuova casa, così vicina alla stazione dei treni e aveva fatto dell’appartamento di quel tale la propria dimora fissa.
L’orso non era granché di compagnia, perché pigro e taciturno, ma c’erano volte in cui andava a prendere una birra in frigo e si sdraiava vicino all’amico bipede mentre questo seguiva una partita di football; c’erano anche notti in cui l’orso soffriva d’insonnia e brontolava gravemente per ore, alzandosi e ricoricandosi sul divano del soggiorno a intervalli press’a poco regolari e causando al vecchio sofà a tre posti sofferenze sempre maggiori.
Comunque, la vita del padrone di casa, Hiroshi Hasegawa, non era stata particolarmente sconvolta dall’arrivo del grizzly, dato che quest’ultimo non si era mai avventurato oltre la porta d’ingresso neppure di nascosto, neppure quando Hiroshi Hasegawa aveva avuto un meeting di lavoro che l’aveva fatto rincasare ben tre giorni dopo essersi tirato la porta dietro di sé.
Pertanto, le sporadiche occasioni in cui capitava che il giovane impiegato bancario avesse visite di familiari, di amici o di colleghi di lavoro, l’orso era così discreto da dissolversi temporaneamente per tutto il tempo dell’incontro, oppure si chiudeva a chiave in camera da letto e non ne usciva finché Hiroshi Hasegawa non bussava all’uscio assicurandogli che i due fossero di nuovo soli nell’appartamento.
Non si trattava di un animale maleducato e scontroso, quindi, e Hiroshi Hasegawa constatò che non era nemmeno capriccioso: capiva l’importanza di lasciarsi lavare e spazzolare settimanalmente dal proprio coinquilino e una mattina al mese si prestava senza ribellarsi al controllo pulci e a qualche altro generico accertamento medico di cui Hiroshi Hasegawa si occupava personalmente, servendosi delle poche nozioni in merito che aveva appreso informandosi su internet.
I vicini di casa e i conoscenti più intimi di Hiroshi Hasegawa avevano forse compreso che qualcosa di anomalo si verificava in quella casa. Non che si aspettassero di essere presentati a un orso bruno adulto e dal pelo lungo e folto, però nutrivano dei dubbi piuttosto fondati sulla sanità mentale di Hiroshi Hasegawa.
D’altra parte, egli non era l’unico nella piccola cittadina ad avere un disturbo singolare, oscuro e inspiegabile come quello.
Io stesso ho conosciuto una ragazza di circa vent’anni che collezionava bambole mutilate e che si divertiva a riattaccare a ciascun esemplare braccia, capelli, piedi e occhi diversi fra loro, creando dei veri e propri ibridi che poi metteva in vendita al mercato del giovedì per poche monete l’uno.
Non erano in molti ad acquistare quei cimeli artigianali – e fra gli acquirenti non ci fu mai nessuna madre di famiglia – però Miya Watanabe sfornava capolavori sempre più elaborati e sempre più eterogenei, senza lasciarsi scoraggiare né dalle scarse approvazioni del vicinato e dei commercianti che avevano il proprio banco accanto al suo, né dal disinteresse generale che i bambini nutrivano nei confronti della sua produzione.
Io passai accanto alla sua bancarella per caso, una volta che ero andato a fare la spesa per me e per la mia ragazza di allora, con la quale convivevo da un paio di mesi. Quella mattina lei aveva da sostenere un esame all’università e mi aveva pregato di farle trovare qualcosa di commestibile per pranzo, visto che, verosimilmente, sarebbe rincasata con una fame da lupi. Mi aveva detto proprio così.
Io non avevo molta familiarità con i supermercati e non sapevo riconoscere la qualità di un genere alimentare piuttosto che di un altro, perciò approfittai del fatto che fosse un bel giovedì di sole per andare a piedi fino al mercato. In questo modo mi sarei sgranchito un po’ le gambe e avrei comprato di certo cibi sani.
Impiegai circa mezz’ora per fare il punto della situazione, dato che avevo dimenticato di stilare in anticipo una lista della spesa, e alla fine presi dei carciofi, qualche fetta di carne rossa e della frutta assortita. Avrei preparato una macedonia, per prima cosa, e poi avrei arrostito carciofi e carne, progettai. C’era ancora dell’insalata in frigo, a quanto ricordavo, e di sicuro non sarebbe mancato il vino rosso. Inoltre, se la mia ragazza avesse voluto, le avrei anche potuto riscaldare un caffè con la panna. Sapevo che a lei piaceva da matti, specie finché le temperature si mantenevano tiepide.
Quando pagai al fruttivendolo la busta di mele, notai che accanto al reparto degli ortaggi c’era un tizio che vendeva tappeti.
A giudicare dal cartello che sovrastava la bancarella, non si trattava di merce di valore: i prezzi erano mediamente abbordabili e non c’era nessuna garanzia sulla qualità o sulla provenienza dei singoli pezzi. Ad ogni modo, mi avvicinai a dare un’occhiata.
Il proprietario del banco mi agganciò subito e mi trattenne a chiacchierare per parecchi minuti, ora delle proprie difficoltà economiche e ora del figurone che avrei fatto, se avessi collocato nel mio salotto uno dei suoi arazzi. Io annuivo cordialmente, ma non replicavo. Quando quello capì che la mia era solo una strategia per essere liquidato il prima possibile, storse la bocca e mi lanciò una specie di maledizione: Vada a comprare i feticci di Miya Watanabe, vada!
Fu il gesto della sua mano a farmi capire che stava parlando di una persona in carne e ossa – per la precisione, di una giovane ragazza che ci voltava le spalle e che aveva lunghi capelli castani. Incuriosito dall’invito sottoforma di insulto che mi aveva indirizzato il commerciante di poco prima, proseguii in direzione della tenda sotto cui Miya Watanabe stava restituendo il resto a un cliente.
Quando ebbe finito con lui, Miya Watanabe si voltò verso di me e mi invitò a visionare qualcuna delle sue costruzioni artigianali. In lei c’era una schiettezza rassicurante, che mi spinse a obbedirle senza esitare.
Mi fece toccare personalmente ogni merletto ricamato da lei, ogni giuntura fra il busto e le braccia dei suoi “feticci”, ogni loro singolo crine. Mi soffermai a contemplare le bambole con tanta di quella ammirazione e tanto di quello sgomento che persi la cognizione del tempo.
Tornai a casa che erano quasi le due del pomeriggio.
Non c’era ancora traccia della mia ragazza, così preparai il pranzo con calma e apparecchiai la tavola. Usai il servizio di piatti che a lei piaceva tanto e versai il vino nei bicchieri, aspettando di proporre un brindisi al conseguimento del suo esame, non appena fosse arrivata. Non avevo dubbi che avesse preso un voto molto alto, infatti. La conoscevo già fin troppo bene, da questo punto di vista.
Dopo qualche ora lei rincasò e finì che facemmo a lungo l’amore.

Un altro caso di stranezza con il quale la gente della mia cittadina conviveva quotidianamente era quello di Masutaro Yamakazi, che era persuaso del fatto che i manichini esposti nelle vetrine dei negozi fossero ricavati dai cadaveri di giovani appena defunti, motivo per cui aveva sporto molte denunce contro boutique di ogni sorta, senza che nessuno lo prendesse mai sul serio. La sua strana anomalia era più fastidiosa di quella di Miya Watanabe, perché lui s’inventava delle iniziative bimestrali sempre nuove, finalizzate a legalizzare l’abolizione dei manichini dall’intera regione, chiedendo poi porta a porta che ciascun cittadino firmasse la petizione di turno. Io stesso ero stato costretto più volte a non rispondere al citofono, a fingermi gravemente malato e impossibilitato a riceverlo, o a ignorare le sue scampanellate quando non ero dell’umore giusto nemmeno per rivolgergli la parola.
Insistenti quanto Masutaro Yamakazi erano anche alcune vecchie signore che andavano tutti i giorni a occupare il parco comunale dalle otto del mattino fino alle otto della sera, domeniche escluse. Trattandosi di una decina di donne ben impostate, le panchine che venivano sistematicamente invase da loro erano quattro o cinque, sempre le stesse. Lì, le anziane aspettavano che passasse qualche coppia ben affiatata e, a turno, iniziavano a urlare di essere state l’amante chi dell’uomo chi della donna che stava passeggiando.
Gli abitanti del posto avevano imparato a conoscerle e le ignoravano, però nei primi tempi quest’inspiegabile abitudine aveva complicato la vita a non pochi sposini che si trovavano in città in viaggio di nozze. La nostra località, infatti, era una meta piuttosto rinomata, per via delle spiagge bellissime e dell’aria salubre, cosicché era spesso popolata da famiglie che trascorrevano qui le vacanze, da ex fumatori che speravano di rimettere in sesto i propri polmoni o, per l’appunto, da novelli sposi.
Nessuno sa perché, da un momento all’altro, quelle signore ormai attempate si fossero accanite contro ogni amore felice, ma sta di fatto che né le forze dell’ordine né qualche malcapitato inviperito erano riusciti a farle allontanare dal parco.
Anche a me, sempre in compagnia della stessa ragazza cui accennavo prima, era capitato di essere scelto come bersaglio delle loro accuse, ma constatai sulla mia pelle che si trattava di provocazioni alquanto infantili e sciocche, tant’è che la mia ragazza e io scoppiammo a ridere qualche metro più in là e riuscimmo a smettere solo dopo aver percorso il parco in lungo e in largo due volte. L’idea che qualcuno potesse offendersi per delle parole come le loro, o che potesse addirittura prestar loro fede, ci divertiva da matti.
Fu una delle ragioni per cui quella volta rincasammo entrambi di ottimo umore e ci venne voglia di fare a lungo l’amore.

Infine c’era Hiroshi Hasegawa, l’uomo che divideva il proprio appartamento con un grizzly immaginario.
Non avevo mai sentito parlare di lui, finché non lo incontrai in un pub, una sera che la mia ragazza aveva una forte cefalea e aveva insistito perché la lasciassi riposare. Era un sabato d’agosto, così ne avevo approfittato per girovagare un po’ per le vie e bere qualcosa nel primo locale decente che avessi trovato.
Ne scelsi uno davvero grazioso, illuminato a giorno senza troppi artifici, con lampadine che emanavano un chiarore vagamente rosa. C’era una band locale che improvvisava alcuni brani blues e, dall’altra parte del pub, c’era una mini‒pista da ballo ancora vuota. Io mi andai a sedere al bancone, ordinai un drink e constatai con piacere che i frequentatori del posto non erano né chiassosi né volgari: avrei potuto passare qualche ora serenamente, peraltro in compagnia di buona musica. O, almeno, così credevo
Poco dopo, infatti, mi si avvicinò un signore sulla trentina, che barcollava e che aveva lo sguardo perso nel vuoto: non era difficile immaginare che avesse alzato un po’ troppo il gomito. L’uomo stava per cadermi addosso, io riuscii a farlo reggere in piedi a stento e gli preparai uno sgabello sul quale accasciarsi.

— Si sente bene? — gli chiesi.
— Non del tutto, ma grazie — replicò quello. Mi sembrò che avesse una voce ben più controllata di quanto mi sarei aspettato.
— Non avrà esagerato con gli alcolici? — continuai.

L’uomo sollevò gli occhi per la prima volta a fissare i miei.

— Io non mi ubriaco mai — sentenziò con tono minaccioso.
— Oh, mi scusi — farfugliai.
— Pensi che sono pure astemio — aggiunse.

Annuii senza ribattere e ordinai per lui un bicchiere d’acqua frizzante.

— Almeno questa la berrà, giusto?

L’uomo fece sì con il capo e io gli porsi il bicchiere dopo qualche istante.

— La ringrazio — mi disse in maniera franca — avevo proprio bisogno che qualcuno mi facesse credere di volersi prendere cura di me.
— Veramente io volevo sul serio…
— Lo so, lo so, non ha bisogno di giustificarsi — mi interruppe.

Io ero frastornato, non sapevo in che modo rispondergli.

— Mi chiamo Hiroshi Hasegawa — proseguì lui — forse avrà sentito parlare di me.
— Mi spiace, ma no — ammisi.
— No? Non hai mai sentito parlare di me?
— No — dissi di nuovo — mi perdoni.
— Niente scuse — brontolò Hiroshi Hasegawa — è meglio così.
— E perché mai dovrebbe essere meglio? — mi informai.

Quell’uomo cominciava a incuriosirmi, tanto più che non era ubriaco.

— La gente sta alla larga da me, di solito. È convinta che io sia uno spostato.
— Non c’è nessuno che sia esattamente fermo in un posto per tutta la vita — buttai lì — tutti ci ritroviamo a essere un po’ spostati rispetto a dove vorremmo o dovremmo trovarci, prima o poi. Sembra una sciocchezza, ma fuor di metafora è così, mi creda.

Hiroshi Hasegawa mi squadrò con sufficienza.

— Lei sembra uno che la sa lunga sull’argomento.

Io scrollai le spalle. — Non proprio, ma ci si prova — risposi.

— È anche uno che se ne intende di orsi da appartamento? — mi domandò.

Strabuzzai gli occhi. — Orsi da appartamento? Non mi pare di avere mai…

— Be’, io ne ho uno — tagliò corto Hiroshi Hasegawa — l’ho chiamato Sasha: come il protagonista di quel film, ha presente?

Non avevo presente, però evitai di ammetterlo e mi limitai a sorridere con fare incoraggiante.
Trascorsi il successivo quarto d’ora ad apprendere ciò che ho riportato in apertura su Hiroshi Hasegawa e su Sasha: l’inizio della loro convivenza, la discrezione del grizzly, il suo accanimento notturno nei confronti del sofà a tre posti e tutto il resto.
Quando Hiroshi Hasegawa terminò di descrivermi la propria condizione casalinga, sospirò e tacque, rigirandosi fra le mani il bicchiere d’acqua frizzante ormai vuoto.

— Vuole ancora dell’acqua? — mi offrii, per rompere il silenzio.
— Va bene così, grazie.
— Non c’è di che.

Hiroshi Hasegawa tornò ad accasciarsi sul bancone, mentre io ordinavo un altro drink.

— Questa storia mi sta distruggendo — disse sospirando, dopo un po’.

Lo osservai con attenzione e constatai che aveva un aspetto davvero debilitato.

— Suvvia, avrebbe potuto andarle peggio — replicai per rassicurarlo.
— In che senso?
— Non so, avrebbe potuto convivere con un cobra reale piuttosto che con un orso, per esempio.
— Ah, voleva dire questo — mormorò Hiroshi Hasegawa, dispiaciuto.
— Che altro, sennò? Non è la presenza di quel grizzly a impensierirla?
— Neanche per sogno! — esclamò Hiroshi Hasegawa, rianimandosi.

Io aggrottai le sopracciglia.

— Allora non sono sicuro di aver capito bene — ammisi — il suo problema non è trovare un modo per liberarsi di Sasha?
— Temo sia stato Sasha a liberarsi di me — si lagnò Hiroshi Hasegawa, sempre più abbattuto —  è da tre giorni che è scomparso. Sembra essersi volatilizzato senza preavviso. E senza uno straccio di motivo!

Io accennai una smorfia. Così era quello il cruccio di Hiroshi Hasegawa: la sua ossessione si era dileguata e lui non riusciva ad accettarlo.

— Adesso anche lei mi considera uno spostato, eh? Lo dica pure apertamente, ci sono abituato.

Nella sua voce avvertii un’amarezza profonda, che mi fece desistere dal ridere di lui.

— Non la considero uno spostato — lo tranquillizzai — anzi, la considero un uomo che è appena tornato alla normalità. Lei si è liberato di una visione che non le dava pace, dovrebbe essere fiero di se stesso.

Hiroshi Hasegawa scosse la testa.

— Lei non capisce, mio caro signore, lei non capisce. Io a Sasha volevo bene, mi ero affezionato a lui. Lo trattavo con rispetto, lo mettevo al corrente delle notizie più calde dei giornali, lo aggiornavo perfino sui miei progressi in ambito lavorativo. Non avevo segreti per lui e mi prendevo cura della sua salute con diligenza. Perché avrebbe dovuto abbandonarmi senza nemmeno salutarmi?

Cosa avrei dovuto rispondergli? Cosa avrei potuto saperne, io?

— Può darsi che Sasha si sia semplicemente stancato di vivere con lei — ipotizzai — magari era un animale immaginario volubile, sa. Può capitare.

Non mi veniva in mente nemmeno un caso in cui un evento del genere sarebbe realmente potuto capitare, però quella era l’unica maniera di confortare Hiroshi Hasegawa di cui disponevo: dovevo convincerlo che tutta la vicenda fosse stata assolutamente normale e che si fosse conclusa altrettanto normalmente.

— No, non può essere capitato — balbettava Hiroshi Hasegawa — c’è solo un motivo per cui Sasha se la sarebbe svignata così. Ci ho pensato poco fa, prima di incontrare lei. Non so se sia l’interpretazione corretta dei fatti, ma è l’unica a cui mi riesce di pensare.

— Sarebbe a dire? — lo incalzai.
— Lei conosce la storia del soldato e della principessa?
— No, non l’ho mai sentita — confessai.

Hiroshi Hasegawa mi chiese di procurargli un altro bicchiere d’acqua: lo sorseggiò con lentezza, poi lo poggiò con forza sul bancone e mi pregò di starlo a sentire.

— In poche parole, una volta un re aveva dato una festa nel proprio palazzo e un giovane soldato che era di guardia aveva incrociato lo sguardo della principessa del regno. Se ne era innamorato perdutamente e, quando poi l’aveva incontrata faccia a faccia, le aveva dichiarato il proprio amore. La principessa gli aveva promesso che sarebbe stata sua, se lui l’avesse aspettata per cento notti e per cento giorni sotto il balcone, e il soldato aveva obbedito. Nonostante il freddo, nonostante la pioggia, nonostante il sole cocente e nonostante il forte vento, era sempre rimasto al proprio posto, mentre la principessa lo osservava di nascosto dalla propria stanza. Poi, però, allo scoccare del centesimo giorno, il soldato si era alzato di lì ed era andato via.

Hiroshi Hasegawa si interruppe e tornò a rigirarsi il bicchiere fra le mani, come se fosse immerso in una complicata meditazione.

Io attesi a lungo un qualsiasi chiarimento, ma Hiroshi Hasegawa non accennava a voler riprendere la conversazione, pertanto mi schiarii la voce.

— Ebbene, signor Hasegawa? Quale sarebbe il nesso fra questa storia e il suo Sasha?

Proprio non riuscivo a collegare i due argomenti.

Hiroshi Hasegawa sembrò ricordarsi di me in quel momento. Mosse la testa più volte avanti e indietro, poi, finalmente, mi spiegò:

— Sasha è sparito allo scoccare del centesimo giorno da quando era arrivato.
— Oh.
— La mia teoria è che Sasha avesse paura di non diventare mai un mio coinquilino a tutti gli effetti. La sua natura effimera e immaginaria costituiva un grande limite, per lui. Aveva accettato di buon grado la mia disponibilità e – lo si percepiva – con me stava bene, però era terrorizzato all’idea di essere rifiutato da parte mia, prima o poi. Voglio dire, poteva darsi che io prendessi moglie, che cambiassi di nuovo appartamento o che lo dividessi con qualche mio conoscente. Che ne sarebbe stato di lui? Avrei dovuto chiedergli di andare via, di scomparire definitivamente e non per qualche ora soltanto.
— Certo — confermai.
— È per questo che ha preferito dileguarsi prima che glielo imponessi io. Sapeva che io mi sarei rammentato della storia della principessa e del soldato e che avrei inteso il senso della sua azione: anche il soldato era andato via per paura che la principessa, alla fine, non mantenesse la propria promessa di diventare sua.
— Doveva trattarsi di un orso molto intelligente — ne conclusi.

Hiroshi Hasegawa confermò la mia supposizione.

— Era anche sensibilissimo, glielo garantisco. Sarà difficile riabituarmi a essere il solo abitante di quella casa — mugugnò cupo.

Provai una sincera compassione per lui, quantunque lo considerassi ancora un po’ strano.

Mi avvicinai nel tentativo di abbracciarlo, ma Hiroshi Hasegawa si scostò con uno scatto e si alzò.

— Basta così — decretò — è tardi, sarà il caso che vada.

Mi piantò in asso senza un saluto di più.
Io lo seguii con lo sguardo finché non uscì dal locale e sparì.
Mi attardai per circa mezz’ora ancora e poi rincasai anche io.
Era già notte fonda quando infilai la chiave nell’uscio dell’appartamento e mi accorsi che era già aperta. La faccenda mi sorprese, tanto più che immaginavo che la mia ragazza fosse già andata a dormire da un pezzo. Attirato verso il bagno da gravi e soffocati rumori, mi accorsi invece che lei era ben sveglia e che stava lottando con tutte le proprie forze contro un orso bruno di dimensioni notevoli.
Nel momento stesso in cui urlai per la sorpresa e per il terrore, il grizzly gettò a terra con una zampata e con un ringhio la mia ragazza, la quale perse immediatamente i sensi.

«Ritrovato l’orso scappato dallo zoo comunale due giorni fa

 Polizia e vigili del fuoco sono stati sguinzagliati più di quarantotto ore fa in tutta la città nel tentativo di recuperare e di ingabbiare nuovamente Sasha, l’orso bruno scappato dallo zoo comunale a causa di una leggerezza del guardiano notturno. L’esemplare è stato trovato stanotte, grazie ad una telefonata tempestiva proveniente dall’appartamento di due studenti universitari. 

La giovane Kaori Matsuda deve aver aperto la porta quando ha sentito dei brontolii sul pianerottolo, forse pensando che il proprio ragazzo stesse rientrando un po’ brillo e che non riuscisse a suonare il campanello. Ritrovatasi faccia a faccia con il grizzly, ha cercato di affrontarlo ma ha avuto la peggio.

È stato Ichiro Hayashi, fidanzato e coinquilino della ragazza, ad avvisare le forze dell’ordine appena in tempo: grazie al suo pronto intervento, Sasha è stato riportato allo zoo nel giro di un’ora e Kaori Matsuda è stata ricoverata d’urgenza.

I medici hanno assicurato che sopravvivrà, ma nulla di più è trapelato circa le sue condizioni di salute nel momento in cui l’ambulanza l’ha condotta in sala operatoria.»



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