Scorci
di Beatrice D’Anna

Si era trasferita in quella casa, a ridosso di una via del centro, spendendo quasi tutto ciò che possedeva – i risparmi di una vita, prudentemente conservati in banca, i guadagni dell’ultimo lavoro che aveva portato a termine, e perfino gli spiccioli posati sul fondo del salvadanaio a porcellino, perché c’era un virgola trentasette in quel contratto, che altrimenti non avrebbe saputo come pagare – pur di smettere di versare l’affitto per quell’appartamentino di provincia che non aveva neppure un balcone. Per una come lei, chiudersi fra quattro mura in cui l’unico spiffero d’aria fresca provenisse da una finestrella sopra il calorifero – posizione alquanto scomoda, per altro – era stata un’agonia. Dieci anni di agonia, insomma, che trovavano il loro apice ogni fine del mese, quando la riscossione della paga per potervi abitare le faceva ripensare a quanto in realtà lì proprio non ci volesse stare, e lo faceva così a lungo da farsi venire mal di testa. Finalmente, ce l’aveva fatta. Era stato un rischio, sì, una mossa azzardata e coraggiosa, se non addirittura stupida, ma adesso poteva dire davvero di essere felice.
Se ne stava seduta tranquillamente, dalla mattina alla sera, sulla sedia di vimini che aveva messo sul balcone, una soltanto, accanto al piccolo tavolo rotondo, per evitare che qualcuno pensasse ci fosse spazio per avere compagnia. No, i suoi ospiti potevano al massimo mettersi sul divano, d’un rosso d’altri tempi, se pure un giorno avesse deciso di invitare qualcuno, o sulle sedie di legno attorno al tavolo della cucina, che non avevano neppure un cuscino a rendere più lieta la seduta, e perciò forse si sarebbe potuto giudicare che in verità la loro permanenza non fosse del tutto gradita, sebbene fosse stata lei a invitarli. Ecco, forse era per questo che non aveva ancora aperto le porte a nessuno. In realtà, le piaceva stare da sola, in silenzio, comodamente a riposo su quella sedia in veranda, i gomiti sul tavolino o qualche volta in grembo, a riflettere forse, o a non pensare a nulla. Nessuno lo sapeva né se lo domandava, né lei lo riferiva, perché le piaceva stare zitta. Dalla mattina alla sera, puntualmente, la sveglia alle sette e mezzo, come se avesse davvero qualcosa di importante da fare, si alzava dal letto, lo rifaceva, si lavava la faccia. Preparava il caffè e portava fuori i biscotti. Si sedeva, mangiava, col sottofondo del traffico mattutino e i passerotti sull’albero del giardino sul ciglio opposto della strada; qualche suono di clacson, l’odore dello smog e del caffè delle case di fianco. Biscotti al cioccolato, con qualche eccezione per i pasticcini che di tanto in tanto le portava la figlia, soprattutto quelli con sopra i canditi, che la facevano impazzire. Per il resto, una vita normale, per quanto normale possa dirsi non uscire mai di casa, farsi portare la spesa a domicilio e trascorrere l’intera giornata sul balcone. Forse il lettore si chiederà se non avesse un lavoro, e come fosse possibile guadagnarsi così da vivere. Perfino se fosse stata in pensione, avrebbe perlomeno dovuto andare alla banca a ritirare il denaro. Giusta osservazione. In città dicevano scrivesse romanzi, che l’ultimo fosse stato un best seller e che con quei profitti avesse potuto comprarsi la nuova casa. A meno di non avere una più valida ipotesi, ci crederemo. Certo è che anche uno scrittore ha da lavorare, da mettersi sotto con le parole, e questo non era di sicuro quello che lei faceva durante il giorno, inerte corpo al sole, in attesa che la giornata passasse nei due occhi vispi che guardavano di sotto, attenti a ogni movimento, colore, rumore, perché traessero o meglio bevessero scorci della vita che si svolgeva fuori.
Una signora portava a passeggio il cane, ogni giorno alle dieci: vestiva sempre elegantemente, rossetto ben in evidenza, anche se da lassù non poteva capire se non ne avesse un po’ sui denti; il giorno prima aveva un cappello di tela viola, dalla visiera circolare, due grossi occhiali da sole che la facevano sembrare una mosca, e un abito chic, della stessa tonalità del cappello, con qualche bottone sul petto e in vita una grossa cintura alla moda. Anche il cane, probabilmente femmina, doveva essere in tinta: un cappottino primaverile, un berretto bianco fatto a maglia. Si chiese se non fosse vero che i padroni somigliano ai propri animali domestici, o se forse facciano in modo che questi ultimi assolutamente vengano ad essergli uguali.
Alle undici era la volta del giornalaio, che dalla piazzetta in cui aveva la propria edicola, scrupolosamente lasciata in custodia al socio, prendeva il furgoncino grigio e faceva un bel giro dell’isolato, parlando da un microfono che rimbombava attraverso un piccolo altoparlante sul tettuccio, e diceva che c’erano i giornali, le riviste e tutto ciò che in sostanza un’edicola offre. Era straordinario quando qualcuno davvero si fermava, qualche anziana donna o qualche bambino – quando non era giorno di scuola – e addirittura comprava direttamente dal furgoncino, parlando a quattr’occhi con il venditore, proprio sotto il naso del suo balcone. Sembrava quasi una città passata, in quei momenti, quando il progresso non l’ha ancora colta, quando la gente va in giro a passeggio e – signorsì – è disposta a fermarsi e fare due chiacchiere con chi incontra. Eppure erano in centro: aveva appena comprato una nuova casa, lo sapeva bene dove si trovava.
Dodici e trenta: ora di pranzo. Per tutti, come per lei. Metteva a far bollire l’acqua perché fosse pronta all’una, qualche volta condendo la pasta col sugo o con il pesto: poca roba, comunque, perché non voleva distrarsi. Pietanze complicate, in quell’appartamento, non se ne facevano. Era il momento in cui la pizzeria all’angolo si affollava, entrava gente in divisa e famiglie con figli. I vigili urbani arrivavano in gruppo, uscendo insieme dalla caserma: avevano un buono per avere il menù del giorno a prezzo agevolato, e quindi finivano quasi sempre lì. Il titolare usciva per strada un paio d’ore prima, quando faceva caldo, e metteva qualche tavolo all’aria aperta: i vigili urbani lo preferivano, e intanto lei riusciva addirittura a sentire stralci di conversazione, sul commissario che oggi si era proprio comportato male, o qualche collega non presente che aveva fatto meno lavoro, o qualcuno di loro che aveva offerto il caffè a tutti, “bravo Piero” dicevano, e scattava un applauso. Insomma, svaghi quotidiani dell’ora di pranzo, quando attorno ad un tavolo e di fronte alle pietanze, ci si lascia andare un po’ tutti, un po’ di più di quando si sta in ufficio, ecco.
Alle quindici chiamava la figlia, puntuale come un orologio svizzero. Si preparava per l’occasione, portando già fuori il telefono, così da essere pronta per quando avesse squillato.
«Ciao, mamma» diceva dall’altro capo della cornetta, con la sua voce vivace e giovanile.
«Ciao, Chiara» rispondeva lei, e se un’altra persona avesse fatto la sua vita, osservando dal balcone le esistenze altrui, avrebbe detto che quella non era certo la voce che si sarebbe aspettato di sentire da lei. Certo, pacata e calda come si poteva immaginare, ma al contempo estremamente femminile, con le ultime note delle frasi leggermente rivolte verso l’alto, acute senza però essere stridule. Se non l’avesse vista, attenta e grassoccia com’era, avrebbe potuto dire che quel suono appartenesse a una donna addirittura attraente. Ma non era il caso.
«Sei ancora sul balcone?» diceva la figlia, un po’ preoccupata.
«Certo»
«Dovresti fare qualcosa. Esci, muoviti, lavora. Come pensi di guadagnarti da vivere, altrimenti? Solo perché ora sei in una casa del centro, non vuol dire che si possa cambiare vita così e…» e incominciava a parlare come una macchinetta, come ogni giorno, che sembrava fosse lei la madre e quell’altra la bambina, che ascoltava in silenzio, come era solita fare. Perché non le piaceva parlare.
«Stai tranquilla» diceva alla fine, «so cosa faccio» e ne sembrava sicura.
La verità era che se per dieci anni aveva atteso di vivere sopra un balcone, ora si godeva il momento, se ne stava bene. Che Chiara dicesse tutto ciò che voleva, ma lei, lì sopra, ci stava proprio bene.
Ore diciotto e quaranta: il momento del jogging. Un gruppetto di ragazzi in tuta che passavano sotto la veranda, fra qualche schiamazzo e un po’ di fiatone. Che diligenza, pensava, vedendoli un giorno sì e uno no fare lo stesso percorso, sotto casa sua. Lei non ce l’avrebbe fatta, no di certo, e si sarebbe compreso, vedendo com’era grassoccia.
Alle ventuno andava a dormire, a suo modo lieta della giornata trascorsa, e pronta a quella successiva, alle sette e trenta con la sua sveglia, sempre uguale e sempre diversa.
Stessa routine, stesse esatte abitudini. Stesse telefonate con Chiara, col cambiare solo di qualche parola; stessi vigili urbani in pizzeria ma discorsi diversi, anche se in qualche modo un po’ sempre gli stessi, stessi individui che per lei erano ormai cosa certa, tanto che si sarebbe chiesta, se non ne avesse visto qualcuno, dove fosse, cosa avesse, come stesse. C’erano anche passanti casuali, gente che non avrebbe mai più rivisto, che pure trovava un modo per restarle impressa, per avere una qualche vita nei pensieri e nei ricordi della donna alla veranda. Perciò, conoscendo i suoi schemi, la città si stupì quando uscì il suo nuovo libro. Si chiedeva quando lo avesse scritto, di cosa potesse mai trattare, se tutto ciò che faceva era starsene seduta a guardare. Dissero che lo aveva scritto di notte, quando le tapparelle erano chiuse e il balcone serrato, la luce accesa impossibile a vedersi dalle fessure, perlomeno per uno che passasse sotto il suo balcone. Forse non era vero che dormiva dalle nove in poi, forse scriveva, invece. Forse la sua vita era del tutto appagata dalle notti insonni, luogo di creazione artistica e ragion d’esistere. In mancanza di un’altra ipotesi, ci crederemo. Ciò che si può dire con oggettività è certo che quel libro uscì e fu un capolavoro: non parlava di sé né di cose assai profonde, non parlava di Chiara, non parlava delle riflessioni intime che forse faceva dal balcone. La signora dai capelli rossi, si chiamava, e parlava di una donna che alle dieci del mattino portava fuori il cane, vestita di tutto punto, con un cappello di tela in testa, viola come il vestito che aveva indosso, e l’animale un cappottino e un berretto fatto a maglia. Era quella signora ed era un’altra, allo stesso tempo. Se si fosse letta, quella donna col rossetto, si sarebbe riconosciuta ma si sarebbe anche allontanata da ciò che c’era scritto: innanzitutto, non aveva i capelli rossi. Aveva una vita, lì descritta, che non esisteva, che non era sua: una famiglia ai Caraibi, un passato funesto. Era un romanzo che dava un senso, per quanto sbagliato, alle apparenze che la donna al balcone aveva percepito di lei: sì, l’aspetto era il suo, sue le abitudini, suoi i movimenti e sue le parole. In modo inquietante, aveva inteso tutto. C’era parte di lei ma anche proprio niente. C’erano anche i vigili urbani, in qualche modo, nascosti nei turni di notte del marito, c’era il ristoratore che sistemava i tavoli fuori e le ore di jogging. Insomma, c’era un po’ tutto, lì dentro: la città avrebbe potuto riconoscersi, e allo stesso tempo ignorarsi. Ci si chiedeva come fosse possibile che avesse scritto un romanzo, in quale tempo, in che modo, pensando a chi. Eppure, era chiaro, almeno per lei. Scriveva di scorci, viveva di scorci. Le vite altrui fuse insieme alla sua.