Il riso
di Clelia Attanasio

Ho perso il riso. Eppure ricordavo di averlo comprato stamattina.
Il fatto è che ho proprio perduto il riso; a lui piaceva quando cucinavo il risotto allo zafferano. E invece, chissà come, chissà perché, ho perso il riso. In fondo non è un dramma insormontabile; si scende, si va al supermercato e si compra il riso. Il punto è che ci sono mille qualità differenti di riso; l’arborio, il venere nero, il vialone nano, l’originario, il parboiled. Senza lui che mi accompagni a fare la spesa per scegliere quale cucinare non so da dove iniziare; tutta questa scelta mi fa sentire smarrita. Alla stessa maniera ci sono così tanti tipi di riso: gioia, imbarazzo, arrendevolezza: io non lo so più quale volevo, forse li ho persi tutti.
Se scendessi adesso, prendessi la busta e inforcassi la maniglia della porta, attraversassi le strade fino al supermercato qui vicino, superassi le porte automatiche e il tornello all’entrata, andassi oltre gli scaffali con le verdure, il latte, i pannolini, l’acqua, la carne e andassi subito al reparto del riso, lo prendessi e quindi andassi alla cassa, pagassi e finalmente tornassi indietro verso casa, forse non tornerei mai più a infilare le chiavi nella toppa e scapperei via dal riso che sta qui.
Perché è come se il riso fosse ancora in questa casa, io lo so. Sento, per qualche ragione, che il riso si prende gioco di me. Si è nascosto in qualche cassetto, in qualche anfratto polveroso della dispensa e non si lascia trovare da me. Ma è qui, lo so per certo. E quindi mi è inutile scendere e cercare un altro riso, magari più nuovo e sicuramente non scaduto, quando potrei averlo qui a portata di mano: il mio riso, non uno nuovo, migliore, il mio. L’ho perduto tra questi scaffali, è nascosto in qualche ricordo che questa casa conserva.
Il riso ride di me e io lo posso sentire che si sta prendendo gioco della sottoscritta. Se mi concentro, se vago per casa in silenzio e a piedi scalzi, sento che il riso ride, mi schernisce. La notte poi è anche peggio: mi è insopportabile: non solo ho perso il riso, ma ride anche! Uno scherzo assurdo.
Eppure ho perso il riso; non so neanche perché me ne dispiaccio, visto che poi il riso lo mangiava quasi solo lui. Sempre lui voleva il risotto, o il riso al sugo, o l’insalata di riso. A me non è che facesse impazzire; l’insalata di riso nello specifico, poi, mi faceva quasi impressione, fredda e viscida come è.
La verità è che io, prima di lui, non avevo mai trovato grande goduria nel riso. Solo lui mi aveva insegnato ad apprezzarlo, a gustarne il sapore, a saper valutare quei momenti di ingenua intimità che fondano un amore. Pensavo, prima, che un amore dovesse essere serio, drammaturgico, donarsi con grandi parole e dichiarazioni, con lunghe pause di silenzi assensi. Quando l’ho incontrato, lui mi ha donato la gioia del riso, della leggerezza, delle parole stupide dette solo per vedere l’altro increspare le labbra in un sorriso. Io ero una bambina triste, diventata poi una donna triste. Solo dopo ho imparato pazientemente cosa volesse dire la quotidianità di un amore, complice e placido: fatto di riso, cucina, noia, caffè, impegni, lunghe domeniche pomeriggio, dolci, effusioni e ancora caffè (ci piaceva tanto il caffè). E ora che lui non c’è più, qualcuno me lo spiega a me dove la devo trovare la forza di scendere per strada e andare a cercare il riso? Il mio riso era lui, e questa casa me lo ricorda di continuo. Il riso ha la sua voce, il suo odore, la sua serietà di bambino saggio che sapeva ridere di tutto.
Sono bloccata nell’indecisione; se scendo, fuggo. E se fuggo, un giorno dimenticherò tutti questi dettagli, non avrò mai più il mio riso, neanche il ricordo. Ma se resto, se non vado alla ricerca di un nuovo riso, morirò per la memoria di quello che avevo e del sapore che ho gustato e che non troverò, mai più.
Morirò di riso, una specie di indigestione; come si potesse amare un odio, vivere per la morte, soffrire per la gioia.