Numero 44

Gita al lago¹

di Eva Luna Mascolino

 

Si era immaginato che avrebbero parlato un po’. A bassa voce, per non spaventare i pesci. Senza smettere di controllare il galleggiante, all’estremo della lenza, quindi senza l’obbligo di guardarsi – aveva pensato che le parole sarebbero state più precise, o lente, o entrambe le cose. Ogni tanto avrebbero cambiato l’esca. Ma pigramente. Tutto si era coagulato nella sua mente in un’immagine semplice, lui e suo figlio seduti uno accanto all’altro, in faccia al lago, a pescare, da soli. Di schiena, controluce, due composte figure, quella a destra piccolina. Perché suo figlio aveva dieci anni.
Era un’immagine giusta. Così aveva detto Andiamo a pescare, e il figlio aveva detto Sì, saltando in giro, alla sua maniera. Era la prima volta che lo facevano.

“Gli orti del tempo #3” di Nicola Lonzi

Poi ci avevano messo un po’ a mettersi in moto – ce n’era sempre una. Era venuto fuori che il figlio non aveva fatto la doccia, benché l’avesse promesso a sua madre. Forse non era il caso di impuntarsi, ma la madre sosteneva che era una questione di principio, così il figlio dovette rispogliarsi e andarsi a lavare. Dopo ci volle un po’ di tempo per fare la pace – con la madre. In tutto quel tempo, per non intromettersi, il padre era uscito, era salito in macchina, ed era andato in paese a prendere delle lampadine. C’erano da sostituire cinque lampadine bruciate, compresa quella del bagno, che era senza finestre, per cui da giorni stavano sul water con la porta aperta – non si ha idea di come sia spaesante stare seduti su un water nel buio più completo.

Alla fine era ormai ora di pranzo – rimasero a casa a mangiare.

Dopo, l’idea di andare a pescare continuava ad averla in mente, ma come diluita dall’imprevisto rinvio. Stava come un cacciavite tirato fuori dal cassetto per una qualche urgenza e poi lasciato lì. Il padre pensò di dormire un po’, il figlio accese la televisione. Ma sdraiato, poi, con un libro in mano, il padre ripensò a quell’immagine controluce, le due figure una accanto all’altra, di fronte al lago, e si chiese come mai era diventato così difficile credere nelle ore, nei minuti, impedendo loro di diventare banali. Non poteva essere solo una questione di pigrizia – doveva c’entrare anche una sorta di rinuncia, qualcosa di affine all’arrendersi. Per qualche legge fisica, la vita quotidiana aveva un moto inerziale verso l’insignificanza, una quieta e sicura insignificanza. Come se fosse nella natura dei viventi lo spegnersi nel vuoto, e un impennarsi doloroso della volontà qualsiasi tentativo di salvezza. Non gli andava di pensarci, così si alzò, andò verso lo sgabuzzino delle scarpe e disse al figlio: «Si va».

«Dove?»
«A pescare», mentre prendeva le scarpe con la para, a cui nessuno aveva tolto il fango secco dell’ultima volta.

«No, dai. Adesso no».
«Sì, adesso», disse il padre.
«Perché? C’è una puntata della nuova serie!».
«La vedrai un’altra volta».

Il figlio non disse niente, perché c’era qualcosa alla televisione, una frase o un inseguimento, che non voleva perdersi.
Il padre si sedette sul sofà vicino a lui e si infilò le scarpe. Diede un’occhiata alla televisione. Poi prese il telecomando e spense.

«Nooo», urlò il figlio. «Proprio adesso!».

Gli erano già venute le lacrime agli occhi.

«Dai, andiamo», disse il padre, calmo.
Sei cattivo», disse il figlio.
«Andiamo», disse il padre. E si alzò.

Era un angolo del lago, dove il bosco si era ritirato e fino alla riva c’era un prato, in leggera discesa. Lì l’acqua era profonda, i pesci ci andavano volentieri, una corrente strana ci girava dentro, si lasciavano andare, forse. E si poteva pescare seduti sull’erba. Il sole cadeva proprio di fronte.
Così il padre aveva voluto camminare fin lì, anche se c’era da attraversare un brutto bosco, un po’ tetro, vagamente sinistro – non era dove di solito andavano gli altri. Quel posto lo conosceva solo lui.
«E se non ne prendiamo nemmeno uno?».
«Difficile. Di solito qualcosa si prende».
«Sì, ma se invece non ci riusciamo?».
«Non so. Vedremo».
«Passare tutte ‘ste ore e alla fine torniamo a casa senza niente».
«Tutte ‘ste ore… Lo sai da quanto siamo qui?».
«Da un’eternità», disse il bambino.
«Venti minuti».
«Non è vero, siamo partiti alle tre».
«Alle tre siamo partiti da casa. Non conta».
«Certo che conta. Adesso sono le cinque meno dieci».
«È un lavoro di pazienza, te l’ho detto».
«Sì ma volevo solo sapere se poteva passare ancora un sacco di tempo senza pescare niente».
«È possibile. Succede».
«Però non succede spesso, no?».
«No, non spesso. Di solito si pesca qualcosa».
«Lo dicevi anche con i funghi».
«I funghi è una cosa diversa, non li sappiamo cercare. Non sappiamo i posti».
«E i pesci invece?».
«È diverso, noi sappiamo pescare», disse il padre.
«Tu sai pescare».
«È la stessa cosa. Se io so pescare lo sai fare anche tu».
«Dici?»
«E conosciamo i posti. Questo è un posto giusto».

Si era immaginato che avrebbero parlato un po’. Tra le altre cose, aveva in mente di dire al figlio che era fiero di come lui cresceva, ma spiegandoglielo bene, che capisse cosa c’era di eccezionale in lui, e cosa di incompiuto. Sarebbe stato bello riuscire a dirgli una frase che poi il figlio avrebbe ricordato a lungo, una frase che riguardasse la forza, o la sicurezza, forse. La sicurezza e la forza che servono per vivere, e per farlo nel modo migliore. Non voleva spaventarlo – voleva solo dirgli che era tutto a posto, in quel senso, lo sapeva con certezza, non doveva temere di smarrire la forza, l’avrebbe sempre avuta con sé. O qualcosa del genere.

In subordine, non escludeva di affrontare l’argomento dell’educazione sessuale – una ripassatina di come stavano le cose, giusto per chiarire i fondamentali. Hanno una strana confusione in testa, a quell’età, i bambini. Sanno le parole, ma ignorano la necessità dei gesti. Accoppiano male. Credono di sapere.

Tuttavia il padre si trovò invece a parlare di Babbo Natale. Il figlio voleva sapere da lui se era vero che non esisteva affatto. Stringevano le canne in mano, dondolandole lente, quel tanto che potesse fingere un movimento di vita, nell’esca, una sfumatura di vero. Il padre pensò velocemente all’ultimo Natale, e a come avessero fatto finta di niente, tutti. Si ricordava lo sforzo tacito di prolungare la recita, forse un anno di troppo, ma poi chissà. Dopo, non ne avevano più parlato. Adesso il figlio voleva sapere se era vero che Babbo Natale non esisteva e non era mai esistito. Specificò che era perfettamente informato del fatto che si trattava di una pura invenzione, ma gli sarebbe piaciuto sentirselo dire da suo padre – per lui era importante, disse. Il padre cercò di non mettere nessuna inflessione nella voce quando rispose che sì, era tutta un’invenzione.

«E vai!», disse il figlio, «lo sapevo». Disse anche che adesso era davvero contento, perché suo padre glielo aveva detto. «Me lo ricorderò tutta la vita», aggiunse.
«Cosa?»
«Questo momento», rispose.

Così, in certo modo, potevano anche tornarsene a casa, fatto quel che dovevano fare. Ma restava del sole ancora, sull’orizzonte, e la discutibile sensazione di partirsene senza aver pescato niente. Così rimasero ad aspettare rotolando giù per discorsi qualunque – parlavano di cartoni, di eroi dei cartoni. Al padre piaceva star lì a farsi spiegare gerarchie che non conosceva, e duelli che forse il figlio si inventava. Nello scambio, in cui il maestro diventava allievo, il figlio ci guadagnava una statura commovente, nel farsi serio del parlare, come nella misura dei gesti. Ogni inquietudine sembrava abbandonarlo. Così, volentieri il padre lo stava ad ascoltare, fingendo più ignoranza ancora di quanta avesse maturato nei suoi anni da adulto. In particolare lo commuoveva il momento, che sempre seguiva, in cui, spiegato tutto, il figlio gli chiedeva secondo lui chi era il più forte. Tra quei supereroi, intendeva. Così il padre rispondeva, decidendone uno, a caso.

«L’uomo torcia?», ripeté il figlio.

Stette un po’ a pensare.

«Secondo me no», disse.

Poi pensarono che fosse un pesce, ma era un’alga, o sì un pesce, ma scaltro – c’era da sostituire l’esca sparita. Fu lì che il padre si accorse del sole. Che era calato, all’orizzonte. Il buio arrivava in fretta, in quella stagione. Era stupido, ma al padre venne in mente che c’era quel bosco da riattraversare. Il pensiero lo disturbò.

«Bisogna andare, sai?», disse al figlio.
«Non abbiamo pescato niente!».
«Lo so, ma bisogna andare».

Lo disse con un accento molto più duro di quanto fosse necessario, e questo perché d’un tratto tutto aveva iniziato a sembrargli molto difficile. Quel posto troppo solitario. La luce intorno troppo precaria. La casa a cui dovevano tornare lontanissima.

Il figlio stava parlando ma lui non riusciva veramente ad ascoltarlo, sentiva piuttosto un ronzio nelle orecchie.
Che cavolo, pensò.

Ma aveva già paura. Era una paura che conosceva. Allora cercò il cellulare nella tasca. L’aveva spento, per stare tranquillo. Il figlio continuava a parlare. Lui fece una battuta, o qualcosa del genere, per sembrare normale. Intanto stava riaccendendo il cellulare.

«Fa che ci sia campo», disse, a nessuno in particolare.

Ma il figlio lo sentì e smise di parlare.

Adesso era tutto tremendamente silenzioso.

Il padre alzò lo sguardo sul figlio e ci vide una sfumatura di sorpresa, forse di preoccupazione. Era un ragazzo sveglio, e il padre capì che non sarebbe riuscito a fregarlo. Così la paura aumentò.
Merda, pensò. Forse lo disse. Le tacche del cellulare si aprirono a ventaglio, poi tornarono indietro, ne rimase una, ogni tanto ne appariva una seconda, poi spariva.

«Chiamo casa un attimo», disse il padre. Aveva il volto coperto di sudore. Il figlio non disse niente. La canna da pesca continuava a tenerla disciplinatamente, come se nulla fosse successo. Il padre l’aveva lasciata cadere lì vicino, la lenza che penzolava nell’acqua, l’amo incastrato chissà dove.
Il telefono squillò a lungo, nel vuoto.

Poi io risposi (“Amore?”, dissi) e da lì in poi quel che è successe è quel che ha fatto di me la donna che sono, e che tra un paio d’ore festeggerà i suoi cinquant’anni, in questo posto assurdo, venti anni dopo quella telefonata, quel lago, e quella notte.

I dettagli sulla conclusione di quella vostra gita li aspetto ancora da te, Oscar. Avevi detto che sareste rincasati entro qualche ora, invece chissà dov’è che hai portato nostro figlio. Chissà se ora ha un figlio anche lui, chissà se crede ancora a Babbo Natale o se suo padre gli ha già confermato che non esiste.

Nel dubbio, io ritorno sempre qui. Non potrei passare il mio compleanno da nessun’altra parte, d’altronde. So che al limitare del bosco ci siete anche voi, che tornate apposta per l’occasione. Vi immagino sperare che si possano colmare in una sola notte i trecentosessantaquattro giorni in cui non abbiamo saputo niente gli uni degli altri, in cui abbiamo smesso di telefonarci, di andare a letto insieme e di aspettarci l’indomani per fare colazione.

Così, lo sapete entrambi: appena arrivo al lago mi racconto da capo la stessa storia, inventando ogni volta una versione diversa e aspettando che a confermarla sia il verso di un gufo o un’increspatura nell’acqua. Mi siedo dove forse avrete trovato l’alga e l’amo senza esca, mentre parlavate dell’uomo torcia, e parlo ad alta voce per non pensare al freddo, alla strada di ritorno, agli anni che si sfilacciano per tutti e tre e che continuano a far sbiadire i contorni del vostro viso. So che, nel frattempo, voi rimanete ad ascoltarmi con la pazienza che vi ha insegnato la pesca, senza distrarvi neanche quando nei miei aneddoti compaiono tante persone che non vi ho mai presentato. Vi ringrazio per la cura che dimostrate di avere sempre nei confronti della mia vita quotidiana.

Oggi, però, le lampadine non mi servono: evitate di farmele trovare in macchina appena mi rimetterò in moto, tanto a casa sono tutte ancora buone, compresa quella del bagno. Non lascio quasi mai che si consumino, perché mi fa paura rimanere al buio. Solo qui riesco a sentirmi lo stesso a mio agio, lo sapete. Accendo una candelina simbolica prima di andarmene e ci soffio sopra, ma giusto per esprimere il desiderio di rito.

Se potessi sceglierne uno proprio ora con la certezza che si avvererà, ecco, vorrei questo: che voi mi spiegaste cosa vi è successo, dove siete e quando vi deciderete a farvi di nuovo vivi. Io vi ho perdonato, però continuo ad aspettarvi. Con la televisione accesa sul canale di allora e con dei vestiti puliti di ricambio, come nei venti desideri precedenti. Fate che questo sia l’ultimo e vedrete che non avremo più bisogno di nessun’altra luce, per il resto dei nostri giorni.


¹Racconto scritto per il concorso “Scrivi con Baricco». La prima parte è stata scritta da Alessandro Baricco per i 20 anni di D. Repubblica, Eva Luna ha completato la storia dove la trama si interrompe, immaginando che cosa sia accaduto nei vent’anni successivi.



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