Getsèmani
di Sonia Aggio

Tre candelieri rischiarano la stanza da bagno. Il vapore si raccoglie sulla superficie dell’acqua e poi sale, in una colonna ambrata, fino al soffitto. Le ancelle sono allineate lungo le pareti, reggendo caraffe d’oro tra le braccia; i servitori stanno accosciati sul pavimento.
Il cappellano è seduto in un angolo e legge il Vangelo con voce monotona.
— Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia.
Costantino appoggia le spalle al bordo della vasca e si immerge.
Sott’acqua — acqua intorbidita dagli olii — la voce del prete diventa un borbottio, come una bolla che scoppia. L’uomo pensa al Getsemani. Un frantoio. Una mano che stritola le olive e ne fa stillare l’olio. Mima il gesto, chiudendo e aprendo le dita dorate. La polvere bianca che si solleva ad ogni passo. Costantino poggia i piedi sul fondo piastrellato.
Quando riemerge, con i polmoni brucianti, la servitù è presa dallo scompiglio: una delle ancelle piange rivolta verso la parete, i servitori hanno volti grigi come cenere, il cappellano si affretta a voltare una pagina afflosciata dall’umidità e ricomincia a leggere. — Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!
L’uomo esce dalla vasca e si avvolge in un telo pulito. Si dirige verso la finestra e un’ancella si fa avanti, ansiosa, con i pugni pieni di mirra, ma lui la allontana. L’idea di essere profumato come Cristo nel sepolcro lo riempie di nausea. Il suo corpo ha uno spasmo, svincolato dalla sua volontà. Soprappensiero, si tasta il petto: lui non ha mani e piedi forati dai chiodi, non ha uno squarcio nel costato; è ancora vivo — ed è ancora imperatore di Costantinopoli…Continue reading
La guerra non è un gioco
di Eva Luna Mascolino

Ci troviamo su un palcoscenico. Al centro della scena c’è uno sgabello, tra la cui gamba destra e quella centrale sta una bottiglia di whisky vuota. La comune è a sinistra. Lo sfondo è nero, disadorno. Un lampadario impreziosito di zirconi semi-illumina l’ambiente.
Da un momento all’altro, sulla scena entra il soldato.
Il soldato è un uomo sulla cinquantina, scuro di carnagione e di capelli. Ha lo sguardo vivissimo, ma il viso consunto e la divisa abbottonata male. La voce è profonda, però molto alta. I modi di fare sono nervosi, quasi disperati, eppure lucidi.
Il soldato raggiunge il palco a grandi passi
– Se c’è un solo pidocchio che si salverà la pelle, qui, quello è il generale! La guerra non è un gioco, porco… (sputa per terra e si siede) Porco di quel carro armato che continua a fare fuoco contro tutti! (Si piega a raccogliere la bottiglia di whisky. Poi, alzando la voce come se stesse gridando dietro a qualcuno) Ehi, dico a voi! Non vi sarete bevuti il cervello, stupidi maledetti idioti? (Si rende conto che la bottiglia è vuota e la rimette tra la gamba centrale e quella destra della sedia. Poi, sottovoce) Guarda che espressioni del diavolo: “bersi il cervello”… Mi spiegate che significa? Da quale cilindro l’avete tirata fuori? (Alzando nuovamente la voce) Il whisky è pure finito, non avete notato? E perché siete convinti che io mi sia bevuto le cervella? (Pausa) Il whisky è finito, l’avete visto o no? No, certo che no, a voi importa solo di avere le scarpe lucide e i capelli pettinati ogni mattina. (Con un gesto eloquente del braccio) Vaglielo a spiegare che da morti nessuno gli controllerà l’acconciatura! (Pausa. Le luci del lampadario danno segni di cedimento. Il soldato misura a lunghi passi la scena, nervosamente. Poi riprende) Come si fa ad andare avanti così? Possibile che siano tutti così ciechi? Io qui non resto, fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia! (Quasi tra sé) Magari sarà davvero l’ultima cosa che farò in vita mia… Vorrei ben vedere! se gli Americani continuano a sparare ci rimettiamo tutti la pelle, tutti! Si salverà solo quel gran figlio di lasciamoperdere del generale – pensa un po’ se mi sentisse parlare così, sarà meglio abbassare la voce – potrei giurarci, pagherebbe la sua vita con la nostra, ecco (come se parlasse con qualcuno) vedrete che finirà così, venderà i nostri corpi ai carri armati, anime alle macchine…Continue reading
Stanza 13 “Akhana”
di Giampaolo Giudice

Una lunga catena tiene insieme ogni cuore distante, legati gli uni agli altri da vene annodate. Siamo tutti uguali, alla fine dei conti, anche e soprattutto nella speranza di essere speciali per qualcuno. Ad esempio M. vorrebbe che la guardassi come guardo te, mentre tu vorresti lui ti guardasse come guarda lei. La giostra senza fine delle relazioni e dei desideri.ancora aleggia qua e là, mentirei a dire altrimenti, ma sono solo fantasmi scoloriti. Diventare insensibili ai mostri. Ad un certo punto non facevano più paura, erano diventati conviventi riservati da cui sembra impossibile separarsi. Finivo a farci colazione insieme, li vedevo girare annoiati dalla loro stessa vita. La vita a cui li avevo condannati, obbligandoli ad un’esistenza in mia compagnia. Copie di copie a cui mi sono assuefatto per sovraesposizione. Come quando qualcosa non ti impressiona più per quante volte l’hai vista accadere. Per un po’ ce l’ho avuta questa cosa di prenderli sul serio, guardarli con aria stupita, sognante ed impaurita; per un po’ ho davvero avuto l’insensata convinzione che potessero farmi del male.
Ma i mostri, i fantasmi…Continue reading
Di’ qualcosa
di Giorgia Bianchin

Sono seduta sul bordo del letto, le mani accostate ai fianchi. Fuori piove e il silenzio, interrotto dal tintinnare costante e denso di un’acqua che arriva a terra già sporca, mi sta facendo impazzire. Alcune piogge, inattese o annunciate, copiose o inconsistenti, sono così pesanti da poter inzuppare cuscini, durante notti bastarde che ti soffocano gola e pensieri. Adesso stringo solo una coperta, ma almeno stringo qualcosa sotto palmi umidi e rassegnati. Non sto piangendo, giuro che non lo farò.
Scalza accarezzo la trama morbida di un tappeto blu, le dita si muovono impercettibilmente. Sembrerebbe maleducato se io fossi più interessata alla dolcezza della lana sotto i piedi che a ciò che sta succedendo, ma la sensazione che mi dà, riesce a tranquillizzarmi. Ci penso e mi rendo conto che non ti bacio da due giorni, nemmeno uno sfiorare distratto di labbra, eppure non ci ho fatto caso. È probabile che molte altre volte sia accaduta la stessa cosa e che io non mi sia resa conto di nulla. Le tende sono aperte così da permettermi di vedere la luce dei due lampioni sul marciapiede e quella soffusa, ingiallita e vecchia, della finestra di fronte. Conosco il girovagare inutile della ragazza che ci abita, conosco meglio i suoi movimenti dei tuoi.
La sveglia sul comodino volta un nuovo minuto e nel silenzio che crepa le pareti, ne ha già fatti passare molti. Sembro sola in questa stanza, ma non lo sono. Indossi ancora le scarpe, quante volte ti ho ripetuto che le scarpe in camera non le voglio vedere, forse l’ho ripetuto più volte di quante io abbia detto “ti amo”. Hai tolto la giacca e arrotolato le maniche della camicia bianca. Ti odio quando sei vestito così, severo e grigio, distaccato e prepotente…Continue reading
Claudia
(Gli altri se li portarono via le sbronze e il diavolo)
Di Antonio Giugliano

Era una gaucha, Claudia. Aveva gli occhi piccoli, a mandorla, castani, con delle macchioline gialle e verdi che diventavano più evidenti quando il volto era in piena luce. Era orgogliosa e selvatica; era femmina.
I suoi occhi mi riportarono in un balzo solo, in un singhiozzo di nostalgia, ai colori della campagna delle mie parti, marrone scuro, quando è tempo di rivoltarla con i grossi aratri montati sui trattori. Mi vennero in mente le foglie verdi dei pioppi che a novembre incominciano a ingiallire a lunghi filari ai lati delle strade, il principio dell’autunno gonfio di quella nostalgia sottile che nemmeno la promessa di un vino rosso, forte, riesce a raddolcire.
Più tardi, molto più tardi, avrei capito che mi sbagliavo.
Nei suoi occhi nocciola c’era piuttosto il verde e il giallo del trito di yerba, quello con cui si prepara il mate; e se mai a una campagna Claudia avesse potuto farmi pensare era piuttosto quella appena ondulata del suo paese, prateria da cavalli e vacche, in quella regione che è limitata a ovest dal Rio Santa Lucia, a sud dal Rio de la Plata e che a est si allunga lontano fino al rio Uruguay, là dove poi incomincia la pampa, nella provincia di Santa Fé che da sola è più grande dell’Italia, dicono gli argentini, spacconi.
Ma Claudia non era argentina, era uruguaya.
E la terra di Claudia non era pampa ma campagna, proprio come da noi, solo non di pioppi, ma di eucalipti a filari lungo le strade, giganteschi, dai tronchi chiari con macchie color cacao e dai rami con le fronde come grappoli, con stormi di cocoritos piccoli e verdi, dal ventre grigio scuro, che sciamavano incessantemente da un albero all’altro, emettendo tutti insieme, in una gran confusione, un loro verso roco, assordante, nella calura ancora estiva del marzo australe.
Aveva zigomi sporgenti, Claudia, occhi piccoli e sguardo penetrante, la fronte alta e le labbra sottili; i capelli scuri, corti alla nuca, erano un po’ più lunghi sulla fronte…Continue reading
Trovare lavoro
di Luca Abbattista

Ogni mattina, finiti studi specializzazioni tirocini, persi concorsi genitori soldi, un ragazzo cerca lavoro.
Per cominciare si sveglia che è presto; e questo gli pare già di buon auspicio.
Eccolo che poggia, occhi gonfi di sonno, un primo piede a terra: l’alluce quasi non tocca il diaccio del pavimento che subito, con un sussulto, ritrae la gamba. Quell’odore puniceo, noto a tutti perché comune sia alla ruggine che al sangue, si diffonde presto nell’aria; e alcune sue tonalità, le più pungenti, si mescolano con l’atmosfera rafferma della camera da letto.
Con una smorfia, il ragazzo strappa due schegge di materiale duro e freddo dall’estremità del piede, attento a non ferirsi i polpastrelli.
«Ma ce cazz’jé?» grida spaventato, «Che scherzi di merda, ràga».
Intanto chiama aiuto, ma solo per non veder arrivare nessuno: i coinquilini riposano ancora. Dev’essersi svegliato prima dell’alba ché la camera è del tutto oscura. La finestra inquadra una massa indistinta: non si scorgono alberi o case, o luci accese nelle stanze di fronte. Anche il cielo è vuoto…Continue reading
Feuilleton Il francese inesistente – Epilogo
di Fabio Cardetta

“Jules Klein era tossicodipendente, non solo un alcolista…”
Così aveva esordito Tub, raggiungendo Svetlan sulla balaustra della barca-ristorante Plka.
“Igor è appena tornato da Bruxelles, come mi hai chiesto tu. Anche se ancora non ho capito perché l’hai mandato, dato che il caso è ormai chiuso.”
Svetlan continuava a fumare guardando il fiume.
Tub riprese:
“Unico figlio, Klein ha sempre avuto rapporti conflittuali con i genitori… Pare sia scappato più volte di casa. Poi ha intrapreso i suoi viaggi e infine si è ritrovato qua. E qua è venuto a morire. Questo è quanto. Nulla di nuovo.”
Un lungo silenzio, uno di quei silenzi che ti fanno male alle costole, per quanto sono taglienti. Era stato un viaggio a vuoto quello di Igor, e forse il suo capo già lo sapeva…Continue reading
Attesa
Di Enrica Gatti

innati i sogni
in chi sa rispettar l’attesa
preoccupa la distanza
di fiori ancora nascosti
che se vivranno
per sole pieno o mezz’ombra
tu non sai
nell’attesa
coltivi il seme che non conosci
innaffi il germe…Continue reading
Spine che trafiggono
di Valentina Casadei

Spine che trafiggono
Carcasse vuote
Non indulgono
E cambiano subito
Preda,
Cercando nuovi spazi aperti,
Nuovi giorni spenti,
Gli stessi voli stanchi.
E poi gemi…Continue reading
Sere come queste
di Suhir Knani

Te, che vedi oltre.
Che respiri a stenti e prendi quello che puoi.
Correggi ogni virgola con i tuoi pensieri contorti e disperati.
Acchiappi, ti aggrappi, sostieni ogni cosa.
Sbuffi e socchiudi gli occhi per vedere meglio, per vederti meglio.
E quello che riesci a donarti sono solo sere come queste…Continue reading