Numero 43

Trovare lavoro

di Luca Abbattista

 

“Piccolo Sud #47” di Emiliano Cribari

Ogni mattina, finiti studi specializzazioni tirocini, persi concorsi genitori soldi, un ragazzo cerca lavoro.
Per cominciare si sveglia che è presto; e questo gli pare già di buon auspicio.
Eccolo che poggia, occhi gonfi di sonno, un primo piede a terra: l’alluce quasi non tocca il diaccio del pavimento che subito, con un sussulto, ritrae la gamba. Quell’odore puniceo, noto a tutti perché comune sia alla ruggine che al sangue, si diffonde presto nell’aria; e alcune sue tonalità, le più pungenti, si mescolano con l’atmosfera rafferma della camera da letto.
Con una smorfia, il ragazzo strappa due schegge di materiale duro e freddo dall’estremità del piede, attento a non ferirsi i polpastrelli.
«Ma ce cazz’jé?» grida spaventato, «Che scherzi di merda, ràga».
Intanto chiama aiuto, ma solo per non veder arrivare nessuno: i coinquilini riposano ancora. Dev’essersi svegliato prima dell’alba ché la camera è del tutto oscura. La finestra inquadra una massa indistinta: non si scorgono alberi o case, o luci accese nelle stanze di fronte. Anche il cielo è vuoto.
Si è seduto sul materasso, e ora si calma. Accende l’abat-jour. Sposta il cono di luce celeste dal comodino al piede, dal piede al pavimento, dal pavimento agli infissi della finestra.
«Ma vid ’n pic» pensa il ragazzo, mentre la luce inizia a scherzare con un mare di spigoli acuminati: frammenti di bottiglie di birra, lampadine fulminate, bicchieri rotti, un parabrezza irretito, fanali incidentati.
«E sì, e mo?», dice il ragazzo. «Vabbu, non scendo più, mi rimetto a dormire», e fa per riacciambellarsi sul letto.

Ma dopo un secondo, di scatto, come a voler allontanare quel pensiero opprimente – ché deve cercare il lavoro (il futuro, il destino) – il ragazzo straccia da una parte a l’altra l’estremità più corta del lenzuolo. Per prima cosa vuole bendare il piede che sanguina. Strappa strappa, lacera lacera, è arrivato alla cucitura che rende il lenzuolo più spesso. Vinta all’improvviso la resistenza rincula, e con una goffa sgomitata rovescia l’abat-jour sul pavimento.
Vetro su vetro, e buio sugli occhi.
Consapevole di poter finire a guazzo sul pavimento se disgraziatamente dovesse perdere l’equilibrio, passa dal comodino alla scrivania al comò in tre salti. Intanto la benda, con cui si è medicato, si allenta e lascia un capo svolazzare penzoloni.
Approda infine sul davanzale finto-marmo della finestra: troppo scomodo per rimanerci senza sbilanciarsi, anche un poco, verso l’esterno. Un’improvvida corrente d’aria fa il resto: scivola a capofitto; la benda gli si impiglia in un angolo del comò; il lenzuolo lo sostiene ancora per qualche secondo; evita colle mani l’urto del cranio contro l’intonaco grezzo del muro esterno.
Prima di rovinare al suolo ha il tempo, eterno come un secondo, di osserva la città imbiancarsi dell’alba.
Fumi di vapore chiaro discendono verso la sfera del fuoco. Le strade luccicano di bagliori multicolori. Sulle auto, sugli alberi, sui bidoni, sui balconi e le logge dei palazzi, sulle panchine del parco, sui sellini delle biciclette, sui fili d’erba, frammenti minutissimi, come smeriglio di vetri rotti, sfavillano, rifrangono, diffrangono.
Nessuno è ancora sceso di casa, entrato in macchina, andato a spasso col cane. Nessuno è ancora riuscito a uscire dalle coperte, a scendere a terra, a trovare un lavoro.


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